6 dicembre 2018. Scuola per educatori professionale. Io la chiamo ancora così, son della vecchia guardia. In verità mi trovo davanti agli studenti e alle studentesse del corso di laurea per educatore professionale del Don Gnocchi. Aula bella e accogliente, un bel gruppo: 40 tra studenti e studentesse che frequentano il terzo anno del percorso di studi,  un gruppo di futuri educatori professionali, alcuni forse già in servizio.

Ho avuto spesso il privilegio di parlare del mio lavoro davanti agli studenti. Io con quel taglio sporco, meticcio, non sempre elegante. Non proprio un accademico, insomma. Ancora oggi mi chiedo cosa ci trovino gli altri di interessante nel mio modo di raccontare. Ma evidentemente c’è qualche cosa che funziona. In fondo è la stessa domanda che mi faccio quando scopro che ci son persone che leggono ciò che scrivo. E’ l’effetto di un percorso di studi zoppicante, in cui le restituzioni sulle competenze son state scarse e dove ho imparato ad affrontare soprattutto le fatiche. Le competenze le ho scovate da quando lavoro.

Mi invita Paola Eginardo, docente del corso di Metodologie dell’educazione professionale III (modulo scrittura professionale). Questa volta e per la prima volta, a parlare di scritture in rete e dei post che scrivo nei miei blog. Pare che a Paola piacciano e invita a parlare di scrittura uno che con la scrittura litiga e ha litigato da anni. Ma lei non forse non lo sa, perché ciò che vede è il risultato di un lungo lavoro di autoformazione e autocorrezione avvenuto anche attraverso l’uso del blog. Sì, perché ho imparato a scrivere, anche grazie al desiderio di raccontare agli altri (la scrittura in rete ha anche questa funzione). Perché scrivere sul blog ti espone allo sguardo di centinaia, migliaia di persone e quindi ti costringe ad avere grande cura di ciò che pubblichi. Ho riletto ogni post, centinaia di volte. Alcuni post sono ancora in bozza. Alcuni a furia di leggerli son finiti nel cestino.

Inizio il mio intervento proprio parlando del mio rapporto con la scrittura. Un rapporto ambivalente. L’ho odiata per anni, perché l’attenzione per evitare errori e orrori grammaticali mi è sempre costata una gran fatica. L’ho amata tanto nella versione moderna, perché ho trovato un modo di scrivere, il mio modo.  A quarant’anni mi ha fatto impazzire di nuovo la scrittura della tesi perché sono stato costretto a scrivere in modo più formale, attento ad uno stile che non mi appartiene. Mi emoziona invece quando mi accorgo che 15mila persone hanno letto un mio post, lo han fatto girare, condiviso, usato come se fosse loro. Mi sorprende il piacere che ho oggi di scrivere e la rabbia per non poterlo fare con costanza.

Quello che racconto è la storia di un cambiamento, io che di questo mi occupo. Un cambiamento nato dalla sfida con quella vocina interna che mi rimandava continuamente di lasciar stare, di occuparmi di altro. Quella vocina figlia, anche, di quello che alcuni insegnanti incontrati mi avevano lasciato. Una sfida iniziata invece grazie alla voce di un’altra docente, incontrata in tarda età. Una di quelle docenti che, se tieni le orecchie aperte, ti cambia la vita. Una docente che ha il nome di un fiore, come mia figlia e forse non è un caso.

Parlo di me, dei colleghi incontrati nel percorso di Snodi Pedagogici, del prezioso valore dell’incontro, avvenuto tramite la scrittura in un percorso comune che non ha nessuna storia simile in rete, soprattutto in ambito educativo. Un incontro simmetrico, alla pari e per questo doppiamente di valore. Snodi Pedagogici è un percorso di scrittura contemporanea e collettiva. Una bella storia,  insomma. Un gruppo di esperti di processi educativi che scrive partendo dallo stesso tema, che invita altri a scrivere e lo fa per un anno, tutti i mesi, raccordandosi attraverso la rete, senza essersi  mai visti. Un percorso che potrebbe essere tranquillamente il tema (o il titolo) di una tesi di una laurea in scienze della comunicazione.

Racconto di quello che abbiamo scritto e della necessità e del valore dello scrivere di educazione. Del bisogno che il nostro mondo ha di raccontare lo sguardo e le pratiche educative. Della scarna bibliografia presente che racconti “storie di educazione” in un mondo pieno, invece, di saggi e manuali di pedagogia e del bisogno di far cultura dell’educazione anche attraverso il racconto di storie, pensieri e riflessioni su ciò che gli educatori fanno tutti i giorni.

Il blog è stato, per me, anche un modo di dar valore alle pratiche e ai pensieri di altri colleghi e colleghe. Non ho scritto solo io, per fortuna, ed è stata un scelta che ho provato a conservare nel tempo.

Racconto loro di quanto sia inutile confrontare la scrittura accademica con quella dei blog, di quanto siano lontane, di quanto sia possibile trovare il proprio modo di scrivere e di quanto sia importante imparare a scrivere in ambito professionale. L’uso della scrittura non giudicante, non interpretativa, il presidio di ciò che è avvenuto tra l’educatore e gli utenti. Parliamo di quanto sia possibile, attraverso la scrittura di un post dedicato ad un uomo politico, dire alcune cose ai propri colleghi, ad una categoria intera di persone e lavoratori.

Mi piace parlare agli studenti, coordinare i tirocinanti, i ragazzi e le ragazze in servizio civile. Mi piace perché credo fortemente nel valore del passaggio di competenze e soprattutto nel rapporto tra maestro ed apprendista. Amo da sempre l’idea di poter lasciare agli altri ciò che ho imparato. In questo ambito non ho nessun richiamo competitivo. Gli incontri professionali hanno sempre avuto per me il medesimo obiettivo, lasciare e prendere competenze. Sempre.

Ci salutiamo, li ringrazio. Per me non sono quasi mai ringraziamenti formali, perché dall’esperienze che faccio, soprattutto quelle che mi piacciono, nasce sempre qualche cosa. Un post, un’idea, una riflessione o un nuovo progetto professionale. Son fatto cosi. Mentre torno a casa penso alle domane che mi han fatto e mi viene in mente un’immagine, una di quella immagini che ritorna da sempre, quella che richiama il bisogno di relazione tra chi ha attraversato un percorso professionale e chi lo deve iniziare. Il maestro e l’apprendista. Immagine perfetta per chi come me ama la Saga di Star Wars.

Mi richiama fortemente una domanda che mi è tornata in mente soprattutto durante l’approvazione della Legge 205.

Di cosa hanno bisogno degli educatori?

La mia risposta è: c’è bisogno di apprendistato. Di spazi di lavoro che permettano di dar valore all’incontro tra chi lavora da anni e i giovani educatori. Uno spazio in cui si insegni a ”fare educazione” praticandola. Spazi di passaggio delle competenze, trucchi e idee, uno spazio che valorizzi l’esperienza degli educatori che son sul campo da 25 anni e che contemporaneamente non lasci soli i giovani colleghi. Uno spazio “altro” rispetto a supervisione e formazione.

Sprecare l’opportunità di poter valorizzare gli apprendimenti e le competenze maturate dagli educatori che lavorano da anni sarebbe un sacrilegio. Non riesco a trovare un’altra parola per descriverlo.

Quello che manca, però, è la formalizzazione di uno spazio di pratica del lavoro educativo fianco a fianco. Uno spazio che restituisca ai “maestri educatori” il valore prezioso di accompagnare gli “apprendisti educatori” nel loro percorso formativo, all’inizio della loro carriera professionale, in un’ottica differente da quella che abbiamo praticato fino ad ora. In un’ottica che non lasci, a livello discrezionale alle cooperative la responsabilità di farlo o meno. Il lavoro educativo è un lavoro che, in alcuni tratti, assomiglia tanto ad un lavoro artigianale e che quindi necessità del trasferimento della “scatola” degli attrezzi di lavoro. L’apprendistato andrebbe reso obbligatorio, certificato, fuori dal fastidioso utilizzo odierno, che mi pare solo un trucco per risparmiare soldi sui contratti.

Abbiamo bisogno, passatemi la analogia cinematografica, di costruire le condizioni perché i vecchi Jedi accompagnino i giovani apprendisti ad imparare l’uso della spada, altrimenti rischiamo di farci male. Tutti. E di far male il nostro lavoro.

Sarebbe interessante, accanto alle legge 205 (quella dedicata agli educatori e ai pedagogisti), provare a dare forma ad un percorso di apprendistato formativo, magari anche selettivo, che permetta ai giovani educatori di essere accompagnati nei primi anni di carriera. Una parte integrante del percorso formativo istituzionale che dia valore e ruolo anche agli educatori senior presenti nelle cooperative e negli enti locali. Un percorso che, attraverso la formalizzazione di responsabilità e ruoli, possa essere utile anche per proteggere i giovani colleghi dall’essere gettati soli dentro i servizi e di conseguenza anche per proteggere gli utenti dei servizi.

Mi chiedo se le facoltà Universitarie che formeranno gli educatori e le educatrici avranno voglia, tempo e spazio, soprattutto ora che saranno detentrici dell’ unica formazione professionale certificata,  per strutturare un percorso formativo differente?

Christian S.

PS: Grazie di cuore a Paola Eginardo per lo sguardo ampio che pone sull’educazione professionale, anche nelle sue forme non accademiche. I suoi studenti sono fortunati, spero che lo abbiano capito.

Agli studenti che si iscrivono alle facoltà che formano gli educatori e che investono tempo e fatica per continuare a fare uno dei lavori più belli del mondo.

Alle donne con i nomi dei fiori. Preziose, più di quanto immaginano, anche per giovanotti di trent’anni.

A mia moglie. Perché senza di lei alcuni di questi post non sarebbero stati mai pubblicati. Lei sa perché.

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