Archivio per la categoria ‘Didattica ed Educazione’

Leggendo la oramai famosa storia della studentessa bendata durante un’interrogazione in didattica a distanza (Dad), ho pensato alla docente ed a cosa ha perso.

Perché un gesto del genere, rompe, drammaticamente, ogni possibilità relazionale, sana, con gli studenti. E’ l’interruzione di ciò che di più caro c’è dentro il rapporto maestro/allievo, la frantumazione della relazione formativa come atto d’amore. Perché insegnare è anche questo si, un atto d’amore.

Quello che è successo non può che indebolire ogni forma possibile di apprendimento futuro. E non importa se i genitori siano o meno d’accordo con la scelta, rimane, per me, un atto violento, di prevaricazione, quello che in termini tecnici si chiama, per alcuni i ruoli di cura: “abuso di posizione dominante”. E attenzione, non importa nemmeno l’accordo con la studentessa. Un docente, un formatore, un educatore non dovrebbe accettare, mai, di porre i propri formandi in una condizione del genere. Punto.

Ho letto molti post e commenti su questa storia e mi son preso il tempo per rifletterci. Mi son preso il tempo per ragionarci perché non mi interessa puntare il dito sulla docente in questione. A giudicare il suo operato ci son già il dirigente scolastico e chi si occuperà di indagare su ciò che è successo. Io faccio altro nella vita e mi interessa porre l’attenzione sulle possibili radici e sulle conseguenze di un gesto del genere. Soprattutto da un punto di vista educativo.

Il problema, quando si decide di bendare una studentessa sta, secondo me, più sul piano etico, nell’idea di rapporto tra esseri umani che si ha in testa. Poi probabilmente ci son di mezzo anche alcune problematiche metodologiche e connesse con l’idea di didattica che si ha in mente, ma il problema è, secondo me, connesso con la propria formazione umana, prima che professionale.

Ha ragione, in questa direzione, chi si chiede cosa farebbe, in presenza, una docente che fa una scelta del genere, perché il problema non è mica la Dad, che ha solo reso visibile ciò che avviene, a volte, all’interno delle relazioni tra studenti e docenti. In cui non sempre le vittime sono gli adulti, prevaricati dai ragazzi.

Bendando una ragazza mentre la interroghi, danneggi il tuo rapporto con gli studenti (tutti, anche chi ha solo osservato la scena e magari ha riso dietro lo schermo). Fai, soprattutto, un danno al tuo ruolo, perché dopo una scena del genere perdi di credibilità, agli occhi della studentessa e forse anche agli occhi di compagni e compagne di classe. Bendandola danneggi la studentessa e il suo rapporto con l’apprendimento, stravolgendone completamente il senso e il valore. Stravolgi, inoltre, completamente il senso più prezioso dell’azione di valutazione.

Bendando una studentessa per interrogarla in Dad (didattica a distanza), metti sul piatto il tuo limite rispetto alla capacità di essere in contatto con l’altro e con le sue emozioni e questo è un problema grosso, se ti occupi di formazione. In questo senso ciò che è avvenuto mostra un problema decisamente più generale, una crepa tipica di chi smette di interrogarsi su ciò che fa. Un problema comune a tanti adulti che formano e che educano, non solo ai docenti, ovviamente.

Sia chiaro, dato che non voglio essere frainteso. A scuola (e negli ambiti formativi) ci sono, per fortuna, anche tantissimi docenti e formatori eccezionali, preparati e attenti. Adulti che continuano a studiare e a interrogarsi rispetto al senso del proprio intervento.

Nei ultimi tempi, parlando di insegnamento, mi capita sempre più spesso di percepire una sovrapposizione tra la capacità di passare una nozione e l’insegnamento stesso, che però necessità anche di molto altro.

Formare è una funzione che si porta dietro alcune fatiche, necessarie per far bene il proprio lavoro. Una delle fatiche più importanti è connessa con la capacità empatico/relazionale. Fatica che non tutti son disponibili a fare e che spiega, almeno in parte, perché alcuni docenti e formatori preferiscano occuparsi solo del passaggio della parte nozionistica. Dimenticandosi così che la didattica non può essere scorporata dalla capacità relazionale, se non con il rischio di invalidare e/o indebolire l’apprendimento stesso.

Parlo di fatica perché so anche quanto sia complesso, a volte, tenere insieme la costruzione della relazione educativa e il passaggio di conoscenze specifiche. Ma da qui non si scappa, perché è proprio dalla connessione di questi due aspetti che deriva il tipo e la forza dell’apprendimento che produciamo.

E’ l’antico binomio educazione e didattica, che si rompe, quando bendi una studentessa, come se il bisogno di “valutare” gli apprendimenti potesse passare sopra ad ogni cosa, asfaltando anche la relazione stessa con la ragazza. Si lede così, insieme alla dignità di una studentessa anche la dignità di uno dei lavori più importanti e delicati del mondo.

Un abbraccio a tutti i ragazzi e le ragazze, vittime invisibili di questa pandemia e a tutti quei docenti, formatori ed educatori che quando han visto la ragazza bendata hanno avuto un tuffo al cuore, perché han percepito che si trovavano davanti a qualcosa che non dovrebbe capitare mai, in una scuola, senza sé e senza ma.

Un grazie a Licia Coppo e Eva Pigliapoco, che mi hanno stimolato, a loro insaputa, questa riflessione.

Christian Sarno

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Questo è un post che avrei dovuto pubblicare qualche mese fa, quando fu immesso sul mercato il gioco Pokemon Go. L’articolo esce ora, leggermente modificato rispetto a come era nato, ma il suo senso rimane e forse, leggendolo oggi, assume ancora maggior significato. E’ un post che parla di pregiudizi, banalizzazioni e superficialità. Tre azioni che quando sono contemporanee rischiano di essere un mix esplosivo.

Pokemon Go esce poco prima dell’estate, a giungo del 2016. Quasi sei mesi fa, insomma.

I commenti e soprattutto le critiche negative giungono in modo frettoloso, non importa che il gioco sia uscito in Italia da poco meno di 2 settimane. Nulla ferma gli adulti che si scatenano in avvertimenti connessi con la pericolosità del gioco, sottolineandone rischi, alla ricerca di  soluzioni e soprattutto di colpevoli. Leggerli lascia la netta sensazione di essere di fronte ad adulti che nulla sanno del gioco e che basano le loro valutazioni su pregiudizi e preconcetti tra l’altro già sentiti verso altri giochi e/o verso le nuove tecnologie. Pregiudizi per lo più basati su semplificazioni, generalizzazioni e banalizzazioni.

Io invece, da appassionato di videogiochi e di educazione,  ho preferito far tre cose prima di permettermi valutazioni in merito. Ho preso tempo, ho studiato il gioco provandolo e ho messo da parte quello strano pensiero che porta tanti adulti a dire “non ci sono più i giovani di una volta…”. Metter da parte i propri pregiudizi vuol dire provare anche a metterli in discussione. Per metterli in discussione è necessario lasciare le porte aperte per poter cambiare idea.

La dipendenza: Tranquilli. Pokemon Go, per come è pensato oggi (problemi di connessione, instabilità dell’applicazione, impossibilità di geo-localizzarvi, ecc) e per struttura del gioco (finisce) non ha nessuna possibilità di rendere i vostri figli/e o fidanzati/e dipendenti. Forse li può rendere più nervosi e infelici, ma questo può succedere anche per altri motivi. Mi colpisce sempre molto la tendenza a far diventare “patologia” tutto ciò che si muove intorno ai ragazzi. Sembriamo, in questo senso, un mondo di adulti “malati” sempre alla ricerca delle patologie a cui dovrebbero essere soggetti i nostri ragazzi. Siamo spesso talmente orientati a cercare segni di possibili malattie che non ci accorgiamo che spesso i ragazzi stanno meglio di noi. Pokemon Go, ad oggi, fa solo voglia di disinstallare l’applicazione e questo forse è un peccato. Se vi interessa sapere perché, qualche spunto lo trovate poco sotto.

La ricerca del colpevole: Mi incuriosisce molto chi inveisce contro alcuni tipi di giochi e poi magari ha comprato il cellulare al figlio di 8 anni senza nemmeno insegnargli come si usa e soprattutto pretendendo che impari ad usarlo senza sbagliare. Chi si sorprende, in sintesi, che il figliolo abbia mandato un video in mutande a tutti i compagni delle medie, scaricato applicazioni a pagamento e guardato un porno prima di aver messo piede alle scuole medie. Il problema, se vogliamo parlare di pericoli e di dipendenza “sta nel manico” come direbbe mio nonno. Il problema (sempre che lo si voglia individuare) sta nel modo di utilizzare lo strumento (lo smartphone), perché è lì che eventualmente rischiamo di perderci i figli. Il problema credo che sia il presidio delle regole di utilizzo della tecnologia, che sia cioè come insegniamo ed educhiamo i nostri figli all’utilizzo di ciò che i cellulari filtrano. Insegniamo che c’è un tempo dedicato e limitato? Presidiamo quel tempo costringendo i ragazzi a guardare oltre lo schermo e costruiamo intorno a loro opportunità di divertimento e socialità? Se non lo facciamo, se non li aiutiamo a trovare un sistema di regole per usare il cellulare, il sistema di regole lo trovano da soli e questo sì, può essere un problema, perché da soli è più facile sbagliare e non accorgersi degli errori che si stanno facendo. Da soli inoltre è più facile isolarsi e star male. Se invece vogliamo prendere la strada più semplice, possiamo sempre prendercela con Pokemon Go anche quando per catturare un Pokemon “un tizio” rischia di investirci, dimenticandoci che abbiamo fatto la stessa cosa quando sono arrivati i cellulari e ti investivano per rispondere al telefono o per mandare un messaggio, dimenticandoci che si fanno incidenti anche per seguire il navigatore, insomma.

La svalutazione degli altri: Mi incuriosisce e mi sollecita molto l’analisi delle modalità e motivazioni con cui svalutiamo gli altri, soprattutto quando fanno scelte differenti dalle nostre e nelle quali non ci riconosciamo. Nel caso delle nuove tecnologie inoltre c’è sempre quel retrogusto di “si stava meglio quando si….”. Se si parla di videogiochi siamo invece alla banalizzazione spiccia, totale. Impossibile pensare che un “giochino” (così spesso vengono definiti) possa essere fonte di apprendimento e quindi di sviluppo di competenze. Invece sì, i videogiochi (non tutti ovviamente) hanno la possibilità di insegnare ai ragazzi competenze preziose, come la risoluzione dei problemi o lo sviluppo della logica. Per chi fosse interessato a capire meglio di cosa parlo consiglio la lettura di: Video game education. Studi e percorsi di formazione (D. Felini). Un testo che spiega quante e quali opportunità si possano celare dietro alcuni videogiochi, utili anche per insegnare a cooperare, a non sprecare, a rispettare il mondo e la natura.

Mi infastidisce molto la tendenza degli adulti a ridicolizzare o banalizzare ciò che fanno i giovani. Chi ha deciso che giocare a Pokemon Go sia peggio che postare sui social le foto dei figli, i fatti personali e le citazioni? Chi ha deciso che la musica che ascoltavamo noi  sia meglio di quella odierna e che il modo di stare insieme oggi non sia meglio del nostro?

Ho sempre pensato che per parlare degli adolescenti sia necessario ricordarsi che tipo di adolescenti siamo stati. Io son cresciuto in mezzo ai paninari, a gente che litigava perché “Zio, i Duran son meglio degli Spandau”, in mezzo a gente che teneva i pantaloni arrotolati, metteva un penny nei mocassini e ascoltava i Righeira pensando che non ci sarebbe stata canzone migliore per raccontare la fine dell’estate. Ho troppo rispetto della mia adolescenza per non averne di quella dei giovani di oggi.

Il valore di un gioco: Pokemon Go probabilmente non verrà inserito nei capolavori del decennio (il suo uso non è già più una novità e così sono svanite magicamente anche tutte le paure connesse) ma ha sancito un nuovo modo di concepire i videogiochi, credo che dovremmo tenerne conto. Pokemon Go costringe, ha costretto e costringerà milioni di adolescenti ad uscire di casa. Un gioco prezioso, soprattutto se pensiamo a tutti quei ragazzi che negli ultimi anni si son rintanati davanti al computer e han filtrato la loro vita solo attraverso il monitor. Prezioso perché costringe a camminare, perché per continuare a giocare devi visitare luoghi di carattere storico e culturale e ti costringe a curiosare nei luoghi in cui vivi. Hai visto mai che mentre sto cercando un Pokemon davanti ad un edificio storico mi venga voglia di entrarci. Prezioso perché magari, girando, posso incontrare altri ragazzi che condividono la mia stessa passione e costruirci delle relazioni che potrebbero anche diventare importanti. E’ inutile, insomma, pensare ad un mondo differente, si filtra il rapporto con gli altri, anche, attraverso il cellulare e non mi pare che vi siano movimenti che spingano in altre direzioni. Allora, forse, si tratta di capire come insegnare ai nostri figli ad utilizzare il gioco e ciò che può produrre. Per far questo dobbiamo lavorare sui nostri pregiudizi, smetterla di banalizzare le vite dei nostri figli e provare a star con loro. Ad incuriosirci. Provare a capire cosa può essergli utile, dentro questo nuovo modo di stare in relazioni tra di loro. Dobbiamo osservarli e ascoltarli, ma dovremmo provare a farlo senza pensare che siano dei “Pirla” perché altrimenti non credo possa funzionare.

In conclusione: Io non so cosa ne sarà di questo gioco in futuro e nemmeno mi interessa in modo particolare. So però che mi è parsa una buona occasione per svelare alcuni dei preconcetti di cui son vittime gli adulti, in modo trasversale. Ricchi e poveri, laureati e non. Tutti (o quasi) troppo lontani dalla propria adolescenza per ricordarsi che anche noi abbiamo fatto cose che ai nostri genitori sembravano “senza valore” ma che per noi erano, invece, di grandissimo valore. Perché il valore delle cose è anche e soprattutto soggettivo.

Quando ci chiediamo come poter accompagnare, anche nella distanza generazionale, i nostri figli nei loro percorso di crescita, dovremmo iniziare imparando a non svalutare ciò che fanno, perché poi diventerebbe paradossale chiedersi come mai non vogliano parlare con noi.

Voi parlereste con uno che vi considera un cretino? Io no.

Christian S.

Un ringraziamento particolare va a Maria Antonietta Bergamasco, una collega incontrata in rete che ha sollecitato questa mia riflessione.

E’ possibile parlare di cibo in modo differente? E’ possibile farlo a scuola? Lo si può fare partendo dalle idee che arrivano dai ragazzi? Io credo di si. Ecco uno dei prodotti nati grazie ad un laboratorio di Video-Educazione.

 

Se vi interessa, eccovi un po’ di video fatti con i ragazzi delle scuole medie e superiori negli scorsi anni.

Christian S.

in due

Negli ultimi tempi, lavorando all’interno della scuola, mi capita di incontrare molti insegnanti. L’incontro tra un educatore e un docente non è sempre semplice, ma quando si riesce e si trova insieme il modo di lavorare nella stessa direzione, di stabilire il raggio d’azione di entrambi, i risultati del lavoro si vedono. L’incrociare dei due sguardi produce un nuovo modo di guardare i ragazzi, di ascoltarli e di accompagnarli. Poi, alcune volte, ci sono incontri professionali ancora più profondi, forti e intensi. Incontri dove si abbandonano le resistenze ad imparare e ci si lascia contagiare, sorprendere e addirittura consigliare. Quando succede questo, l’idea dell’educatore diventa spunto per l’insegnante e viceversa. Ho come l’impressione, che quando questo accade, i ragazzi possano stare meglio.

La lettera che troverete qui di seguito è uno degli esempi di questi incontri. Un esempio inoltre di come si può dare un valore pedagogico anche ad un saluto. Un esempio di come si può lasciar traccia del proprio passaggio anche a distanza, anche quando le cose non sono andate come immaginavamo.

Un esempio di come si possono guardare i ragazzi, uno ad uno, con attenzione.

Ringrazio V. insegnante precaria, una delle tante docenti che ogni anno si trovano costrette a interrompere il loro lavoro dopo qualche mese di lezione. E’ lei la docente competente, appassionata e innamorata del suo lavoro che mi ha permesso di pubblicare la lettera che ha mandato ai suoi ragazzi. Sarebbe stato un peccato che rimanesse solo per i suoi studenti.

Sono felice di averla incontrata e di aver potuto lavorare con lei.

Ecco la sua lettera.

Novembre 2014

Carissimi ragazzi,

vi avevo promesso che avrei fatto il possibile per non andarmene senza passare a salutarvi, ma così non è stato … Questa mancanza, anche se non è dipesa da me, mi pesava tantissimo ed ecco allora l’idea della lettera (grazie Christian!).

In questo momento ci sono milioni di cose che vorrei dirvi, perché non ce n’è stato il tempo. Vi ho conosciuti poco a poco e, volontariamente o involontariamente, mi avete rivelato piccole parti di voi che porterò sempre con me.

Siete in un’età bellissima, ma che è, forse, la più difficile della vita. Non lasciatela andare, non aspettate che passi, in attesa di qualcos’altro. Cominciate ogni giorno pensando a quante cose vi porterà: qualcosa di bello o di brutto, di noioso o divertente, qualcosa che sarà solo per voi e che vi servirà a diventare le persone che vorrete essere. Ognuno di voi è, a suo modo, straordinario: non dimenticatelo mai, perché voi, magari senza accorgervene, lo avete insegnato a me.

Anna, grazie per la tua dolcezza e i tuoi abbracci, che mi facevano cominciare la giornata in modalità “mi piace”.
Sabrina, ricordati che non c’è niente di meglio di 10 minuti passati con gli amici per iniziare l’ora successiva con la testa libera e il cuore caldo.
Asia, hai un mondo bellissimo dentro: non aver paura a tirarlo fuori e a condividerlo con gli altri.
Andrea, prendi la tua ansia, chiudila nello zaino e concentrati su quello che puoi fare, perché ne hai le capacità.
Alessandra, continua a lavorare e migliorare: lo so, è dura, è stancante, ma alla fine vedere cosa sarai riuscita a fare ti darà una grande felicità.
Guido, avrei voluto conoscerti meglio, perché mi piaceva quello che vedevo: non mollare mai.
Chiara, non è vero che non serve a niente, non funziona, non si migliora, ma sei tu la prima che ci deve credere.
Greta, grazie per avermi illuminato la giornata con una verifica su Dante pressoché perfetta: non sai quanto è stato importante!
Matteo, non c’è niente che faccia bene al cuore come dare e ricevere affetto dagli amici: non dimenticarlo mai.
Samir, lavorare con te è stato bello: non arrenderti anche quando ti sembrerà tutto in salita, perché se vuoi, puoi.
Maria, grazie per la tua educazione e rispetto: stai facendo un bel percorso, ti voglio vedere arrivare in cima di corsa.
Roberto, il tuo carattere esuberante e divertente ci ha permesso di non annoiarci durante le lezioni: grazie per i tuoi sorrisi e per i tuoi preziosi interventi in analisi grammaticale, che mi ricordavano puntualmente che in effetti sì, insegnare a volte serve.
Elisa, continua a fare da mediatore e tieni tutti tranquilli: hai un compito di grande responsabilità.
Loris, lascia perdere quello che dicono gli altri e concentrati su te stesso e sul tuo lavoro, vedrai che diventerà tutto più facile: puoi farlo!
Davide, fidati: il blu con il nero sta molto meglio del rosso! PS: continua a lavorare.
Marco, vai avanti con la tua serietà e la tua voglia di fare bene e che la tua casa sia sempre aperta per tanti amici: hai una grande fortuna, non dimenticare di apprezzarla.
Michele, sei una bella persona: coltiva le tue qualità.

Vi stringo tutti in un abbraccio fortissimo…starete con me per sempre.
Vi voglio bene.

V.

 

La foto è di Marco Bottani ( http://www.ibot.it)

interno_pagellaPerché son così importanti i voti?

Sono importanti perché non sappiamo usare altri metri di valutazione, perché valutare sinteticamente è più facile, perché ci permette in automatico di capire chi è il migliore, di stilare una classifica,  insomma. Sono importanti alle elementari, alle medie, alle superiori e addirittura all’università.

I voti sono stati importanti anche per me, anche troppo. Sono stati importanti quando mi sono incazzato per quel 36 alle superiori. Ma se ci penso la rabbia era quasi solo per l’ingiustizia, non per il voto. Per il fatto che ci fosse gente che aveva fatto molto meno di me e aveva alla maturità preso 40, 42 o addirittura 45.

Sono stati importanti quando ho festeggiato,  suscitando grande stupore nel professore di psicologia dell’età evolutiva, il mio primo 18 all’ università.

Ora non lo sono più e non è solo una questione di età.

L’importanza che diamo ai voti è una questione culturale, storica, antica, eppure in una fase (qualche anno fa) avevamo provato a parlare di giudizi, valutazioni, processi educativi e processi di apprendimento… e poi cosa è successo?

La nostra cultura pare condizionata dalla valutazione sintetica, dall’assillo dei numeri. Tutto deve essere semplificato e ridotto ad un numero e soprattutto ad una competizione interna. Il migliore della classe, il peggiore, eccetera, eccetera, eccetera…

La scuola non può e non deve essere un luogo in cui si corre uno contro l’altro, ma un luogo di cooperazione. La scuola non dovrebbe essere il luogo in cui insegnare l’importanza di ciò che si è imparato e si sta imparando?  Ai genitori pare rimanere in mente solo il voto finale,  come mai?

Sia chiaro, non soffro più dello spirito di competizione che mi pervadeva da giovane, ora per me il voto è francamente poco interessante. Son poco interessanti i miei, quelli di mia figlia, quelli dei voti di laurea degli educatori che mandano i curricula per la selezione. Sono poco importanti per diversi motivi, sicuramente, ma son poco importanti soprattutto perché mi dicono poco, quasi nulla di ciò che è successo e di ciò che ha portato a quella numerica sintesi.

Mi dicono poco di cosa hanno imparato le persone dietro i voti.

Immagino che molti saranno amareggiati perché le mie parole sembreranno vanificare il grande sforzo per raggiungere la lode nell’esame di gingillometria e scienze confuse, ma non ci posso fare nulla, il voto ha per me, oggi, un valore praticamente nullo.

Eccovi alcuni dei discorsi ascoltati in questo periodo dell’anno:

  • “…Cosa ha preso tua figlia?…”
  • “…Io mi aspettavo un voto più alto, invece…”
  • “…io son rimasto deluso, la maestra è un po’ stretta di voti…”
  • “….Mio figlio uscito con 110 e lode, il tuo?”

Questi discorsi sono importanti, sono una fotografia di un sistema di pensiero predominante, di un modo di approcciare l’apprendimento attraverso la sintesi finale. Ma la sintesi finale è un voto di media, una semplificazione che fa perdere il valore di ciò che si è imparato, che prova a ridurre e a stringere.

Ciò che si è imparato non è riducibile, va raccontato in modo prolisso, ricco, con novizie di particolari, esempi e aneddoti.

Settimana scorsa ho ricevuto la prima pagella di mia figlia. Son felice del percorso che ha fatto, perché ha imparato a leggere, a far di conto, a star seduta, a colorare meglio, a parlare inglese, ad aiutare il suo compagno nel momento di difficoltà, a gestire la rabbia e la stanchezza, a  sopravvivere ai compiti pomeridiani e a far fatica. Ha imparato a difendersi dai compagni, ha scoperto che i suoi genitori non credono ma che lei potrà credere se lo vorrà. Ha scoperto che si può parlare di giustizia a scuola, che nella sua classe ci son bambini con storie differenti, che le aspettative dei grandi son faticose da inseguire, che al suo papà e alla sua mamma interessa soprattutto ciò che ha imparato. Ha imparato, anche, che ci sono compagni che hanno preso voti più alti di lei.

Questo post è dedicato a quell’essere meraviglioso che risponde al nome di Viola (mia figlia), alle insegnanti che le hanno permesso di imparare tutte queste cose e a tutti coloro che credono ancora che la formazione sia importante per ciò che impariamo.

Christian S.