Archivio per la categoria ‘Calcio e Pedagogia’

malgioglio«È vero, ho sempre usato le mani. E continuo a farlo. In campo come portiere e fuori: stando in mezzo alla gente che soffre, dando tutto me stesso. Perché, come dice il mio padre spirituale, le mani bisogna sporcarsele, mettendole anche nella m….” 

Ecco come parla di se stesso, il buon Astutillo (di cui ho già parlato qui), ex portiere dal nome strano, ex interista, grande uomo. Malgioglio è sempre stato un personaggio differente. Ha fatto per anni il secondo portiere, ha guardato per 5 anni (1986-1991) Walter Zenga giocare seduto su una panchina, sempre la stessa. Di lui, calcisticamente non si ricorda nessuno, se non qualche interista attento anche alle meteore passate nell’ Inter in quegli anni calcisticamente strani. Anni in cui i calciatori, ancora per poco, facevano un bel lavoro ben pagato, ma non così lontano da altri lavori. Dagli anni 90, il calcio non sarà più lo stesso, cambiando forse in modo irreversibile. Dagli anni ’90, il calcio si trasforma, definitivamente, in un vero business. Con i soldi, spesso, scompaiono tante cose, anche alcune belle storie. Nel 1992 finisce anche la carriera di Astutillo, che torna a fare altro. Torna a occuparsi, solo, di persone con disabilità, lavoro che aveva praticato parallelamente anche mentre faceva il portiere. Apre una Cooperativa (era 77) e una casa per ragazzi con disabilità. Lavora anche a domicilio. Attraversa, anche lui, una crisi psicologia forte, si risolleva. Oggi, con la moglie, lavora ancora con le persone in difficoltà. Quando parla di calcio e dei tempi dell’inter ne parla così: “Jürgen Klinsmann veniva anche due volte a settimana, evidentemente l’avevo colpito. Veniva nelle case dei ragazzi, mangiava con loro, parlava coi genitori. Una gran persona. Aveva un atteggiamento bello, senza pudori. Era libero. È stato l’unico.”

Non avevo mai pensato che si potesse definire chi si occupa degli altri; “uomo libero”, ma la cosa mi piace, parecchio. Chissà se gli educatori e le educatrici si sentono liberi per il lavoro che fanno. Buona Estate a tutti e buona ricerca della libertà, ovunque si nasconda.

Christian S.

pulici

Primo scatto: una notizia.

«L’idea sembrava geniale. Aprire la curva chiusa per i cori razzisti ai piccoli tifosi. Peccato che durante Juventus-Udinese i ragazzini abbiano insultato Zeljko Brkic, portiere della squadra friulana.» (Il foglio 3 dicembre 2013).

Secondo scatto: una spiegazione.

«Marotta A.D. della Juventus “noi abbiamo voluto riempire lo stadio perché, diceva un sociologo, “il calcio senza spettatori è pari allo zero”, era impossibile vedere delle tribune vuote» (Corriere dello Sport 2 dicembre 2013)

Terzo scatto: l’opinione.

«Paolo Pulici oggi allena i giovani ragazzi della Tritium a Trezzo d’Adda ed interpellato sui giovani e del cattivo esempio dato dalle famiglie: “La mia squadra ideale è una squadra di orfani. Molti rovinano i figli senza nemmeno rendersene conto. Non hanno raggiunto i risultati sperati e riversano sui bambini le proprie frustrazioni. Dai, diventa ricco e famoso, così possiamo comprarci la villa”». Corriere della sera 6  Dicembre 2013

Paolino Pulici, 172 gol con la maglia del Torino, è stata una mia bandiera, una delle ultime ma questo è un altro discorso.

Qui c’è tutto un mondo: il pedagogico che passando per lo sport diventa letteratura, di più, filosofia.

La sola idea di una squadra di bambini orfani sembra la trama ideale per una fiaba, per un racconto o perché no un film.

Niente di nuovo, sia chiaro, basta pensare all’ideale greco che assegna il primato della collettività alla dimensione privata della famiglia. La responsabilità educativa è innanzi tutto della polis prima che della famiglia.

Che dire poi del riferimento allo sport. Già perché qui non si dice la prepotenza, la provocazione,  il comunitarismo educativo richiede il suo primato quando si parla di sport. Un richiamo che non può non far pensare al ginnasio, la palestra dove formare l’uomo quale membro della città. Di più richiama l’ideale educativo comunitario più autentico e spietato : quello di Sparta e i suoi cittadini soldato. Già perché se la squadra è di orfani probabilmente anche l’orizzonte di vita atteso di questi orfani si dovrà spendere all’interno della dimensione sportiva. L’esperienza sportiva è autentica non solo per crescere la disciplina, le virtù sportive e le competenze connesse ma perché è l’esperienza sportiva è paradigma stesso dell’educazione.

Più semplicemente la possibilità di educare in assenza di genitori rappresenta il sogno pedagogico di ogni educatore, finalmente libero di lavorare senza fastidiose interferenze, plasmando al meglio la materia con cui si opera.

Ma c’è molto altro

L’affermazione di Pulici infatti non è una proposta metodologica, non un programma di lavoro ma è molto meno di un auspicio, piuttosto, uno sfogo dettato dalla frustrazione di non poter esercitare la professione di allenatore nel pieno del suo significato educativo. Lo sport, il calcio, si ritrova oramai ostaggio dei più bassi istinti dei genitori dei atleti , dalle aspettative di riscatto delle ambizioni frustrate dei genitori riverse sui figli, da una passione per la disciplina sportiva alimentata quasi esclusivamente dalla ricerca del successo e della ricchezza, non dal desiderio di crescita e dall’amore per il gioco.

Allenare senza genitori di torno è anche una manifestazione di impotenza: una disperata richiesta che qualcuno si prenda carico di educare questi genitori, già che lo sport non è più in grado di insegnare loro alcunché.  Il genitore non è nemmeno il destinatario dello sfogo perché, considerato oramai come l’attore di una vicenda educativa cui si farebbe volentieri a meno.

C’è da chiedersi come agisca il genitore la rovinosa azione disturbante. Facile immaginarlo mentre trasmette ed enuncia i propri valori e le proprie ambizioni rivolto ai figli, a tavola o nel tragitto per andare alla partita, oppure mentre impreca durante la settimana contro l’allenatore colpevole di far perdere la squadra o di non tenere nella giusta considerazione le doti del figlio. Ma l’azione più incisiva ed efficace del genitore è quando impreca dagli spalti, quando mette in scena il suo peggio. Quindi proprio quando entra nella parte che gli è assegnata dal dispositivo del calcio, altrettanto costitutiva del calcio come sport: lo spettatore, il pubblico ma soprattutto il tifoso.

Infatti, su questo aspetto, Marotta ha ragione quando sostiene l’insussistenza del calcio come spettacolo in assenza di un pubblico. Chi altri sono i componenti del pubblico, nei tornei giovanili, se non tanti e tanti papà che avrebbero il compito di conformarsi alle buone maniere e ai valori dello sport ed invece spesso sovvertono anche le minime regole di buon senso.

Ecco un primo paradosso che è bene sottolineare. Se il calcio ha da dire qualcosa sul piano educativo (e non mi sentirei mai di sostenere il contrario) sia pure il calcio, si può manifestare e realizzare a pieno solo se ricompreso anche come evento di spettacolo, al pari di una piece teatrale. IL calcio è spettacolo: c’è una ribalta, gli spalti, gli spogliatoi, gli attori, i registi, le regole entro le quali le azioni che si svolgono hanno un senso, un tempo finito, una trama, financo uscieri, bigliettai e vigili del fuoco e solo se tutti assieme si funziona si ha un buon spettacolo. Il tifo stesso è parte dello spettacolo senza il quale lo sport invece che competizione offrirebbe alla vista solo noiosi e poco significativi gesti atletici.

Chi può o forse chi deve educare questi genitori? Non l’allenatore (vuoi per abdicazione vuoi per convinzione) che non li riconosce destinatari della propria azione educativa, né gli atletici figli, figuriamoci, né la Federazione del Calcio, a meno che possa pensarsi un calcio senza spettatori, appunto.

Per centrare l’affermazione di Pulici ho provato a chiedermi se vale anche per altre discipline sportive.

Ad esempio «il centometrista ideale è quello senza genitori». Come potrebbe esistere un atleta dei cento metri senza un genitore che lo aiuta ad affrontare trasferte, che lo scorazzi in giro. E quale genitore sogna successo e soldi in una disciplina dove di denaro ne gira ben poco.

Forse nel calcio questo invece potrebbe anche accadere. Nel calcio girano tanti soldi, certo più di ogni altra manifestazione sportiva almeno in Italia. Il sogno pedagogico si può realizzare più realisticamente nel calcio proprio in forza della sua rinomanza. Paradossalmente proprio quei soldi e la sua diffusione sono l’ostacolo per una autentica esperienza educativa calcistica. Già perché quel denaro si origina proprio dalla vocazione spettacolare, dalla notorietà, dalla spettacolarizzazione del gioco del calcio.

A pensarci bene l’unico senso che avrebbe il pensiero di un centometrista senza genitori sarebbe un segno di tutt’altro segno: quello del doping. E a pronunciare la frase potrebbe benissimo essere il preparatore atletico, il medico il farmacista dell’atleta. Nessun padre se sapesse cosa deve passare nel corpo del proprio centometrista accetterebbe di buon grado il rischio per la salute per raggiungere il primato sportivo.

E provando con altri sport, ancora, mi sembra che la frase funzioni poco. Ad esempio, il ciclista ideale non può essere orfano quando spesso il ciclismo è uno sport che si tramanda e si trasmette di padre in figlio

Ma è poi davvero un sogno operare in assenza di genitori. Non è semplicemente una aberrazione? Al pari di qualsiasi altra idea totalitaria. Più che sogno un incubo. L’impero del pedagogico. Nessuna esperienza può dirsi davvero educativa se non si sa confrontare con un contesto, con il mondo della vita. L’onnipotenza dell’educazione è il nodo contro il quale ogni educatore si scorna nella propria professione: l’incapacità di ritagliare il giusto ruolo all’educazione, parte di un sistema. L’incapacità di riconoscere i vincoli dello spazio entro il quale è possibile operare e della durata nel tempo di ogni azione, di obiettivo e di ogni verifica di risultato.

Di nuovo, quale esperienza educativa è possibile senza un ritorno costante al mondo della vita. Quale competenza è appresa se non è spendibile altrove.

In qualche modo e, certo, a suo modo la federazione del calcio ha provato ad affrontare un nodo della matassa e prova ad educare l’adulto negandogli la curva se non è in grado di corrispondere a semplici limiti morali ed etici. Qualche illuminato cerca di sovvertire le regole del gioco portando allo stadio i figli quale esempio per i padri, salvo poi scoprire che i padri restano sempre l’esempio dei figli.

In fondo anche l’allenatore, l’insegnante, l’educatore provano ad educare l’adulto formando i figli. Se un adulto sa ascoltare sa guardare il figlio che cresce può imparare che è possibile crescere quando si persegue la passione, la gioia e l’amore per il gioco.

Ed allora, caro Paolino, condivido questa affermazione perché rimarca il paradosso, amplifica il cortocircuito che non si può interrompere. E’ l’unico modo per attribuire a tutti il proprio pezzo di responsabilità.

Al genitore il compito si essere genitore e tifoso, cercando la migliore sintesi tra le due dimensioni.

All’allenatore il compito di proporre una esperienza sportiva agli atleti e di nominare ai genitori la posta in gioco.

Alla federazione che ha il compito di stabilire la misura dell’asticella, determinare e far rispettare le regole del gioco.

Allo Stato che ha il compito ultimo di marcare la differenza tra spettacolo – che in quanto tale è finzione, normato da leggi e regole che valgono solo all’ interno di quel contesto – e la delinquenza, l’illegalità.

Alla stampa che ha il compito di promuovere lo spettacolo senza impoverirne il contenuto con una spettacolarizzazione a tutti i costi.

Ai ragazzi il compito di farsene una ragione provando a prendere il meglio di tutta questa esperienza

Torrevecchia Pia, 15 dicembre 2013- Artigianamente ( http://artigianamente.blogspot.it/ )

Un ringraziamento ad R.C. Autore dell’articolo. Christian S.

di Vincenzo A. (dalla pagina del blog di facebook)

Quando un commento è così interessante non si può rischiare che si perda…

testa bassa“…Sono stato a trovare mia figlia e mio nipote, da bravo nonno ho accompagnato mio nipote Mattia, pulcino della squadra di calcio cittadina al ritrovo organizzato per gli allenamenti. Uno spazio incredibile, campetti di calcio, piscine, luoghi di ristoro, di divertimento, di relazione, insomma un vero eden per giovanissimi e adolescenti, nonché per le famiglie, gli adulti in cerca di relax e di linee guida per ben educare i propri figli. Uno spasso osservare Mattia in campo, constatare che falli, sgambetti, gioco duro, erano banditi dal rettangolo di gioco, niente parolacce e niente grida sguaiate, tutta corsa, schemi, e consigli impartiti dalle panchine. Incredibile ma vero, su quel campo si giocava a calcio rispettando gli avversari, l’arbitro, e, ultimo ma non per importanza, gli allenatori, che decidevano senza timore di obiezioni chi usciva e chi entrava. Fair play verso i meno dotati, fair play nei riguardi di chi perde, fair play nell’esultare e nello stringere le mani dei coetanei, di chi inciampa e cade, insomma un bel vedere a cui non ero proprio più abituato. Non c’era ansia né frustrazione, tanta voglia di giocare, senza protestare quando il coach rimprovera, rivolti a lui con rispetto e ammirazione, chiamandolo Mister sempre e comunque, riconoscendogli capacità e ruolo, soprattutto autorevolezza “conquistata sul campo per l’appunto”. Sui campetti di calcio le squadre si susseguivano, i tornei approdavano ai gironi delle qualificazioni, e più ci si avvicinava allo stretto giro di boa, alle finali per intenderci, più accadeva quanto era da evitare come la peste, quel qualcosa che manda gambe all’aria un’intera architettura educativa costruita con fatica, professionalità e tanto amore. Irrompevano ai bordi del campo le schiere di mamme imbufalite, di papà inebetiti dalle proprie aspettative, di adulti con i cartellini dei propri figli ben appuntati sul petto, ognuno a incitare i pargoli, e cosa assai più imbarazzante, tutti insieme appassionatamente a fare a pezzi arbitri e guardialinee.

Fair play e corretta interpretazione della reciprocità soccombevano sotto i cingolati dei nuovi conduttori di anime, dei nuovi costruttori di futuri Balo di periferia. Parolacce, bestemmie, inviti a entrare duro sull’avversario, a non badare troppo a chi cade, a chi non ce la fa più a starti dietro, un susseguirsi di ordini lanciati da dietro le reti di recinzione, urla così perentorie da coprire quelle dei coach delle due squadre. Fair play, rispetto, educazione, allenamento e sudore, un mondo di passi in avanti svolti uno per volta per non incappare nell’errore, improvvisamente messi da parte dall’incedere dell’orda genitoriale, del mondo adulto ancora una volta imputato e recidivo, ma assente alla sbarra, ben protetto dalle solite attenuanti prevalenti alle aggravanti, e così facendo ci rimetterà sempre il più debole, il più fragile, quello meno avvezzo a vestire i panni del più furbo per forza. Fortunatamente i “grandi” non sono tutti così, e ancora più fortunatamente i giovanissimi non sono tutti propensi a fare i gladiatori piuttosto che gli atleti.

La partitella finisce con il Mister che stringe le mani dei propri campioni, tutti, nessuno escluso, ognuno è il suo campione, ciascuno è il campione di tutti noi, con i nostri magoni, le nostre lacrime, la gioia per i nostri figli che hanno perso, che hanno vinto, che hanno dato tutto quello che potevano dare per farci sentire orgogliosi di loro. A ben pensarci chi non potrà sentirsi orgoglioso del proprio operato-ruolo, sarà nuovamente il mondo dei formatori, di quanti mandano i propri figli a imparare cos’è la dignità, cos’è la libertà, ma fa di tutto per non apprendere che il rispetto si impara solo con il buon esempio…”

Grazie Vincenzo.

Christian S.

La foto è di Marco Bottani ( http://www.ibot.it)

anelli

Robbie Rogers è un calciatore inglese gay di 27 anni, Roger era un calciatore gay di 27 anni. Oggi, è un ragazzo che lascia il proprio lavoro perché gay.

Nell’articolo, Robbie ci chiama in causa tutti, allenatori, tifosi, amici e famiglie.

Trovo l’esito di questa storia incredibile. Non perché non ne comprenda il processo o le motivazioni ma perché fotografa un problema che speravo, almeno in parte, superato. Dico in parte perché so bene che persistono nella nostra società gravi e gravissimi problemi di discriminazione rispetto alle scelte sessuali. Dico in parte perché mi pareva che qualche passo avanti fosse stato fatto. Ma forse non è così.

Il coming out di Rogers mi ha costretto ad interrogarmi. Mi ha spinto a riflettere su quanto lavoro ci sia ancora da fare per educare le persone all’incontro con l “altro”. L’altro da me, l’altro da ciò che vorrei che fosse, l’altro dal mio modo di pensare, l’altro dalla media e l’altro da ciò che io sceglierei. L’altro che spaventa. Succede per tutti gli altri, per tutti coloro che, per una serie di motivi, si distinguono, esteticamente, politicamente o rispetto alle scelte personali, sessuali e religiose. Succede anche alle popolazioni che arrivano da lontano, percepiti come altro da noi, trattati come se fossero pericolosi, dannosi o se va bene invisibili.

  • E’ così difficile accettare che le scelte altrui siano tanto differenti dalle mie?
  • E’ così difficile accettare che esistano altri modi di vedere l’amore, che esistano tanti modi di pensarsi insieme, di percepire il proprio corpo e la propria anima?
  • Gli altri sono, effettivamente, così pericolosi?

Se è vero che l’identità delle persone si forma attraverso l’incontro con gli altri. Come possiamo incontrare l’altro se per potermi definire “altro ” devo soffrire, sentirmi escluso, rischiare di essere espulso e deriso. Il rischio, come successo a Roger, è che io sia costretto ad essere come te, ad uniformarmi, a fingere di essere ciò che non sono. Il rischio è che si perda il valore, reale, della differenza.

C’è ancora tanta strada da fare, perché una società “adulta” non può costringere un ragazzo di 27 anni a cambiare lavoro, costringerlo nell’anonimato per anni. Una società “adulta”, come una famiglia “adulta”, prende i propri figli e li accompagna verso la felicità, la propria felicità. Una società “adulta” non costringe i propri figli a nascondere la fonte delle propria felicità.

Non siamo ancora abbastanza maturi.

Mi fa rabbia ciò che ho letto, perché Robbie ha appena comunicato al mondo che smetterà di giocare al pallone e lo ha fatto  raccontando di quanto sia stato difficile ascoltare frasi come : “Non passare la palla come un frocio“. Mi fa rabbia perché non mi pare che avesse voglia di smettere.

Alcune parole pensano come macigni. Leggere alcune frasi mi ha provocato un brivido lungo la schiena, un sottile freddo dentro le ossa, un senso di nausea. Leggendo l’articolo mi son detto che come educatore, genitore e uomo ho molto lavoro da fare perché la società in cui vivo impari ad incontrare veramente gli altri. Devo lavorare perché Rogers possa fare il lavoro che desidera, perché così facendo Robbie sarà sicuramente più felice e se è felice lui magari saranno felici anche le persone che gli stanno accanto, perché felicità genera felicità.

Educare alle differenze per educare alla felicità. Credo sia questa, per i prossimi tempi, la più importante responsabilità professionale e personale che ci aspetta.

Gli adulti con cui vivo e lavoro ne saranno consapevoli e soprattutto ne saranno in grado?

Christian S.

La foto è di Marco Bottani (www.ibot.it)

Nelle ultime settimane ho seguito in apprensione, come avevo anticipato,  questa nuova parte della carriera del mio amato maestro Zdenek  Zeman (trovate nel blog tante cose su di lui.)

L’ho seguito come sempre con la speranza che mi regalasse qualche perla, qualche spunto su cui ragionare e prontamente, quando meno me lo aspettavo,  eccolo, ecco l’idea , ecco la scintilla, ecco lo spunto.

Zeman ha già allenato in serie A , ha già allenato la Roma , ha già allenato una squadra pronta per giocarsi lo scudetto. Quello che succedeva, qualche anno indietro era che le sue squadre, giocavano bene, facevano spettacolo, ma non riuscivano a vincere. In pochi anni Zeman fu considerato un allenatore spettacolare ma perdente e così fini (anche per altri motivi) ai margini di un calcio in cui la vittoria è il valore assoluto.

Z. è tornato ad allenare la Roma dopo quasi 10 anni di serie B e C ed io ho pensato: Avrà sicuramente imparato qualche cosa da ciò che gli è successo nel passato, oggi sarà meno spettacolare , meno bello , ma più vincente.

Nulla di tutto ciò, la Roma di Zeman è bella, pratica un calcio offensivo, segna e prende una caterva di gol e come in passato naviga a metà classifica.

Z.Z. è quindi un Maestro che non impara? Come ho potuto, io,  inneggiare per tanto tempo ad un maestro così, possibile che sia stato preso da un abbaglio?

Poi ho capito.

Ho capito che Z. non è un maestro che non impara, è un maestro che non ha voluto imparare “QUELLA LEZIONE“,  che non è interessato alla vittoria, che è interessato ad altro, che non ha voluto cambiare, che ha voluto ribadire il suo modo di guardare il calcio.

Forse è un maestro che durerà poco alla guida della Roma , ma è un maestro differente.

Secondo Zdenek Zeman:

  • il calcio è uno spettacolo (quindi deve far divertire).
  • lui è un insegnate di calcio ed i giocatori sono lì per imparare, anche quelli a fine carriera.
  • il calcio è uno sport di squadra, se giochi per te stesso ti siedi in panchina.
  • nello sport la vittoria non è tutto, è solo una delle componenti , ci sono altre cose molto più importanti.
  • nel calcio si può vincere anche perdendo.

Io, francamente, non riesco a dargli torto.

Giusto per far capire cosa intendo: Domenica scorsa la Roma vinceva, dopo circa 30 minuti, per Due a Zero la partita contro l’Udinese. Un’altro allenatore avrebbe tolto due attaccanti e messo due difensori, arretrato la squadra e probabilmente portato a casa la vittoria. Doppia Zeta no, lui ha continuato a dire ai suoi giocatori che dovevano attaccare e segnare, perché per lui rispettare i tifosi vuol dire produrre spettacolo per 90 minuti  e non solo per i primi 30. Per la cronaca la  partita è finita 3 a 2 per i friulani, ma questo, anche in questo caso, non è per nulla importante.

Zeman ci insegna a difendere ciò che di differente abbiamo nel nostro modo di incontrare il mondo. Ci insegna, in qualche modo, ad insegnare il valore dell’essere diversi. Perché se essere differenti è un valore, lo si insegna proprio evitando di uniformarsi. 

Christian S.