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rovereto

Sono stato al Convegno di Animazione Sociale sui giovani dal titolo Nuove Generazioni e altre generativitàIl 24 e 25 febbraio 2017.

Quando parti per andare in formazione hai sempre la speranza di tornare con qualche nuova scoperta. Non sempre accade.  Questo convegno invece, per me, è stato uno di quei casi. Sono tornato con un sacco di spunti, qualche dubbio e soprattutto con alcune domanda nuove, utili per ri-orientare il mio sguardo e per aiutare gli educatori con cui lavoro a metter pensieri nuovi.

Nuovi sguardi e nuove domande. Ecco come si apre e chiude il convegno: con il suggerimento, per chi si occupa di giovani in ambito socio-educativo di provare a cambiare modo di guardare, di guardarli. Cambiando, se possibile, anche le domande da porsi. Il convegno si chiude con una provocazione forte dell’attore Enrico Gentina. E’ una provocazione importante per chi come me spesso cerca di capire meglio le cose e cerca di capirli.

Cerchiamo sempre di capirli, ed invece…

“E se provassimo a pensare i giovani come supereroi? E invece “non ti capisco, non ti capisco, non ti capisco…”, ma è così necessario capirti? Sapere che ti ho capito? Interrogarmi continuamente perché tu possa sentirti capito, compreso, compresso, svelato…? E se invece mi preparassi al meglio di quello che posso essere e mi mettessi al tuo fianco? Perché noi siamo animali: se scappo tu mi rincorri, se mi abbasso tu ti abbassi, se alzo il livello tu alzi il tuo. L’invito è allora pensare a come mi pongo, a curare il nostro profilo: non quello di facebook ma quello che mettiamo in gioco nella relazione con loro, con i ragazzi.!” (E. Gentina)

A proposito di sguardi: chi organizza il convegno propone relatori dagli sguardi “altri”. Intervengono un pedagogista (Andrea Marchesi), una filosofa (Luigina Mortari), un’ antropologa (Vincenza Pellegrino), una sociologa (Ivana Pais) , un’economista (Roberta Carlini), un architetto (Stefano Boeri), un attore (Enrico Gentina) e la Compagnia del teatro Elfo Puccini. Tutti gli interventi provano a declinare il tema partendo dal proprio punto di vista. Diventa tutto molto interessante perché  fuori dalla deriva propria del mondo dell’educazione odierna. Deriva che spinge a parlar tra di noi, tra chi di quello si occupa, di quello si è formato, di quello vive e mangia. Propone uno sguardo “altro” ma che dell’educazione parla, perché l’educazione è fatta anche da altri. Fatta dagli urbanisti, che incidono sulla struttura delle nostre città, dagli artisti, che narrano dell’educazione, dalle strutture economiche e sociali che cambiano e condizionano anche le interazioni tra adulti e giovani. Mi torna fuori una domanda che da tempo gira per la mia testa.  Una domanda che mi pongo sempre più insistentemente, soprattutto da quando di educazione si occupano, soprattutto, educatori e pedagogisti.

E se fosse, invece, il caso di provare a farci aiutare a guardare l’educazione utilizzando altri sguardi? Se ci fosse il rischio che da dentro ci manchino alcune prospettive? Se stessimo rischiando di guardare il mondo dell’educazione da una prospettiva troppo parziale?

A proposito di giovani: nel pomeriggio, nei workshop, incontro i giovani e i ragazzi del progetto socialday. Un’esperienza che mette al centro il volontariato e la raccolta di fondi per progetti di cooperazione internazionale, dove al centro ci sono loro, i ragazzi. Loro valutano i progetti da finanziare, fanno il bando, si cercano il lavoro, stipulano il contratto e recuperano i soldi. Un progetto che è passato dai 1200 euro raccolti nel 2007 agli 82000 euro del 2016 e ha visto impegnati 8500 ragazzi delle scuole medie e superiori. Un progetto che entra a far parte del POF (Progetto dell’Offerta Formativa) delle scuole e che considera i ragazzi come costruttori di connessioni, come i reali protagonisti della costruzione della rete sul loro territorio. Non male dire.  Incontro l’esperienza e soprattutto incontro loro: 6 ragazzi dai 14 ai 19 anni, ragazzi che discutono con gli adulti, alla pari, senza indietreggiare o aver paura. Senza che la differenza di età e competenze li condizioni in alcun modo. Raccontano in modo chiaro, parlano di loro, ma parlano anche di noi. Quando parlano di noi ne parlano così: Silvia “noi abbiamo bisogno che gli adulti ci appoggino”. Penso a quel “appoggino” e alle parole che avrei usato io o alcuni dei miei colleghi educatori (accompagnamento, insegnamento, aiuto, …). Sento che Silvia ci propone qualche cosa di nuovo, rispetto alla posizione e alla funzione degli adulti e soprattutto degli adulti educanti. Gli adulti resistono all’immagine e alla posizione che i ragazzi ci attribuiscono. Spesso le domande sono connesse al ruolo degli adulti. In questo progetto dove sono gli insegnanti? Gli educatori?. La risposta che ci danno è che ci sono, camminano al loro fianco, ma  il ruolo centrale rimane quello dei ragazzi, che lentamente tessono la ragnatela e connettono tutto ciò che gli sta intorno. Formano loro i compagni, organizzano gli eventi, selezionano i progetti e li votano, raccolgono i soldi. Connettono le realtà del territorio (pubblico, privato e familiare) tutti intorno al progetto e intorno a loro. Io li osservo e mi accorgono che mi piace ciò che mi dicono, mette in discussione alcune cose che pratico, ma mi piace.

Se fosse arrivato il momento di cambiare prospettiva. Non gli adulti, quindi, che accompagnano i giovani all’incontro con il loro territorio, ma viceversa? Se ci facessimo condurre da loro provando a lasciargli la possibilità di indicarci quale è la strada che vogliono percorrere?

A proposito di simmetrie e asimmetrie: L’incontro con i ragazzi mi costringe a fare i conti con una questione per me preziosa che qui diventa assai spinosa. Il rapporto di asimmetria tra adulti e giovani. Il valore dell’asimmetria in educazione, oggetto principale della mia formazione, scricchiola. Vacilla ma non cade. Mi tocca reinterpretarlo. Mi tocca anche fare in conti con una richiesta, un desiderio dei giovani che mi arriva chiaramente nell’incontro con loro. Hanno voglia di far loro, di essere un nodo centrale. Ci chiedono di esserci ma in modo differente. Ci chiedono di non considerarli vuoti, stupidi, ci chiedono di rischiare insieme a loro. Ci dicono di esser pronti. Ci rimandano che sono in grado di aiutarci a guardarli. Ci ricordano, anche attraverso il sociaday, il valore delle altre esperienze di apprendimento peer to peer.

Se provassimo, almeno in alcuni casi, a pensare che l’apprendimento alla pari non sia solo un percorso “esotico”. Una specie di sottoprodotto dell’insegnamento tradizionale? Una questione di poco conto? Se provassimo a dargli lo stesso valore che gli danno loro?

A proposito di ascolto: Alla fine dell’incontro i ragazzi ci rimandano di essersi sentiti ascoltati, lo rimandano con grande felicità e stupore. “Avevamo paura di incontrarvi e invece …. “. Questa sorpresa dovrebbe interrogarci, tutti. Lo stupore ci lascia alcune domande sulle quali forse dovremmo lavorare.

Con quali occhi e con quali categorie di pensiero stiamo guardano i ragazzi? Con quanti e quali pregiudizi? E se fosse venuto il momento di smetterla di dire che noi sappiamo cosa sia meglio per loro e cominciassimo a chiederglielo?

A proposito di generatività: Se fosse il caso di provare a lasciarli generare? Magari noi ci potremmo occupare di costruire luoghi idonei per incontrarli, come diceva Enrico Gentina “prendendoci cura del nostro profilo”.

Christian Sarno

Ps: Ringrazio la Libera Compagnia di Arti e Mestieri Sociali che ha sollecitato, permesso e sostenuto questo mio momento formativo. Cosa che visti i tempi è proprio #tantaroba

tdo. locandina boal“Buonasera a tutte e a tutti! Stiamo per entrare nel mondo del teatro, un teatro “strano”, non canonico, decisamente un teatro che proverà a coinvolgervi e a farvi alzare dalle sedie…benvenuti al Teatro dell’Oppresso!”.

Con queste parole il conduttore (il jolly) di Teatro dell’Oppresso è solito aprire una sessione di Teatro Forum, forse la tecnica più famosa e praticata dell’intero arsenale ideato da Augusto Boal e dai suoi collaboratori in Brasile a partire dagli anni ’60.

L’esperienza di Teatro dell’Oppresso (TdO) è innanzitutto un’esperienza corporea. Quante volte accade di giocare corpo a corpo con le persone che abbiamo vicino, con i colleghi di lavoro o con chi condividiamo verbosissimi progetti? Ecco, il TdO per prima cosa riporta i partecipanti alla dimensione corporea essenziale, e il lavoro sull’espressività del corpo è una delle fasi più importanti di un percorso di TdO, che ci permette di traslarci in quel mondo altro che è la finzione teatrale.  Il profondo e prolifico nesso tra teatro ed educazione è ormai stato scandagliato dai maestri pedagogici nostrani e non, possiamo forse condensarlo in una riflessione di R.Massa: “Dunque la specificità del lavoro educativo sarebbe proprio la possibilità di istituire un campo di esperienza in cui l’esperienza stessa possa essere metaforizzata, rielaborata. Non si tratterebbe allora di rappresentare la vita, ma di acquisire consapevolezza, mentre si rappresenta la vita, delle rappresentazioni che la guidano”. Ed ecco che compare una parola, consapevolezza, che insieme ad esperienza ci rimanda all’idea di una consapevolezza intimamente legata all’esperienza vissuta con noi stessi tutti, non solo “la pancia” e neppure solo “la testa” ma, come da più parti si continua imperterriti a ricordare – e ne abbiamo bisogno data la nostra storica smemoratezza – come un insieme di dimensioni interconnesse che hanno a che fare con il cognitivo, l’emotivo, il corporeo, la sfera relazionale ed espressiva.  Insomma, con tutto il teatro che siamo.

TdO  perchè? Il nome di questa metodologia teatrale, sociale e partecipativa, ci trasporta immediatamente in una dimensione sinistra, cupa, gonfia di presagi inquietanti…Eppure, chi  per la prima volta si spinge a sperimentare un laboratorio di TdO probabilmente  ricorderà il lieve imbarazzo nell’iniziare a prendersi ironicamente gioco di sè e degli altri, le risate, il divertimento, la forza del gruppo e la meraviglia di un vero e proprio processo di conoscenza. Il TdO si basa su dei semplici assunti, che per chi bazzica il mondo dell’educazione professionale e naturale dovrebbero essere basilari e assodati:

-l’idea della modificabilità dell’uomo;

-l’idea che l’assunzione di consapevolezza – razionale ma anche incarnata, emozionata – mediante il teatro può provocare azioni mirate al cambiamento;

-il conflitto non viene risolto a tutti i costi ma si pone l’accento sulla possibilità di sostare nella dimensione conflittuale.

Parole come trasformazione, conflitto, consapevolezza non sono neutre, e tantomeno lo erano quando, influenzatissimo dalla Pedagogia degli Oppressi di Paulo Freire, A.Boal decise di utilizzare, con le masse di contadini analfabeti peruviani e con i lavoratori di tutto il Sud America, le sue tecniche per non-attori. Nel TdO tutti possono fare gli attori, perchè l’esperienza teatrale è qui concepita come connaturata all’essere umano che da sempre re-cita, interagisce e prova a guardarsi da fuori per appropriarsi di se stesso e attribuire significato al mondo in cui è immerso. Per il TdO, “il teatro è essenzialmente comunicazione, è un vero e proprio linguaggio e in quanto tale appartiene a tutti gli uomini, senza distinzioni (…). L’essere umano non fa teatro, è teatro”. Per questa ragione il TdO è anzitutto qualcosa che possono fare tutti, che si può almeno provare a fare, proprio perchè attinge dall’esperienza umana di ciascuno di noi. Così come l’educazione non si può dire neutra, così il teatro, che Boal ha utilizzato con le categorie più sfruttate ma anche più combattive del Sud America, non può essere neutro e anzi si mette al servizio di un’idea di cambiamento sociale, di trasformazione e di maggiore partecipazione politica dei cittadini.

Articolo di Giusy Baldanza

serata TDO -CasarileSettimana prossima il capitolo due

Se vi interessa capire come funziona. Eccovi l’occasione giusta per scoprirlo.

Grazie a Giusy, preziosa collega e EducAttrice appassionata.

Christian S.

Qui trovate il Capitolo Uno

boal2Nel tentativo di cogliere il profondo legame tra TdO ed educazione in senso ampio, ci viene in soccorso il Teatro Forum, forse la tecnica più emblematica tra quelle proposte da A. Boal: un gruppo di non attori prepara una scena di conflitto che metta in luce non solo l’aspetto psicologico dei personaggi ma anche la dimensione sociale, economica o politica che contribuisce a determinare la scena come situazione-problema. I non attori attingono alla loro viva esperienza per preparare la scena, incarnano problematiche reali e urgenti per loro e per altri che costituiranno il pubblico di spett-attori; la scena terminerà  nel momento di massimo conflitto tra le parti e non verrà risolta. Ed ecco il perchè di un nome strano, “spett-attori”: il conduttore (Jolly) prova a interrogare il pubblico su ciò che ha visto (poichè l’immagine è polisemica e vi si attribuiscono significati differenti) e a lasciare che si coinvolga profondamente in quella storia che si auspica possa essere anche un pò la sua.

IMG_8865 L’identificazione o il riconoscimento che si crea tra spett-attori e scena costituiscono la ragione per cui il pubblico si alzerà dalle sedie, per provare -nella bolla magica e protetta del teatro- a trasformare una situazione che nella realtà è davvero avvertita come penosa, bloccata, di difficile cambiamento. Gli interventi del pubblico permettono a tutta la comunità di imparare qualcosa osservando il susseguirsi di tentativi di liberazione dalle oppressioni anche se, per Boal e prima ancora per Freire, l’oppressore non è una entità separata ma spesso presente internamente allo stesso oppresso…e di cui occorre, mediante il gesto creativo del teatro, prendere consapevolezza. La comunità coinvolta in un processo di Teatro Forum si riconosce nella vicenda presentata dai non-attori, ha forse vissuto le stesse dinamiche e si muove irrequieto sulla sedia perchè “qui è tutto un disastro! Bisogna fare qualcosa…”come disse un bambino venuto ad assistere ad un Forum ambientato nel contesto famigliare.

tdo 1L’empatia stimolata dal confronto con gli attori o, meglio ancora, da una sessione di giochi-esercizi di TdO in cui si impara ad entrare in relazione con la propria corporeità in modo emancipante e solidale con gli altri corpi, funge da motore trainante l’azione, così come la consapevolezza di un sistema che produce ingiustizie e schiavitù, di cui noi pure siamo attori non sempre consapevoli. In questo senso il conflitto è inteso come un processo di esplicitazione di bisogni diversi, di chiarificazione e de-mistificazione delle dinamiche di potere in cui siamo immersi e che noi stessi agiamo, visibili a partire dalla postura spaziale e corporea, dalle sue meccanizzazioni e chiusure, dai suoi tic e aperture. Qualsiasi contesto sociale abitato da dinamiche di potere, di lotta e di volontà di cambiamento è una potenziale scena di Teatro Forum, dunque una potenziale scena di gioco teatrale. Maggiore è l’urgenza -personale, comunitaria, sociale- della situazione conflittuale messa in scena, maggiore sarà la partecipazione del pubblico/comunità partecipante a cui viene riconosciuto l’essere competente sulla propria vita e, a partire da questa competenza, la possibilità di costruire singolarmente e collettivamente ipotesi di cambiamento, in un processo di educazione reciproca e diffusa.

tdo 2Ad esempio, una classe quinta della scuola primaria porterà in scena delle storie di quotidiana fatica scolastica, o di bullismo o ancora di conflitti familiari comuni; un gruppo di adolescenti dell’Irlanda del Nord rifletterà teatralmente sui modelli adulti di riferimento o sulle domande tipiche della loro età, un gruppo di donne senegalesi sceglierà magari una storia legata alla propria condizione di donne e così via…Ci permettiamo di dire che un utile accorgimento, nel TdO così come nel mondo dell’educazione, è quello di porsi in ascolto delle storie degli altri e avere fiducia nelle capacità del singolo e del gruppo di determinare la propria vita, il proprio percorso di liberazione che, inutile dirlo, si configura come un percorso collettivo.

Articolo di Giusy Baldanza

*Se volete contattare Giusy (giuseppina.baldanza@artiemestierisociali.org)

Fonti: R.Massa “Il teatro, la peste, l’educazione”  – Boal “Il Teatro degli oppressi”

Foto di Angelo Miramonti