Archivio per la categoria ‘Educazione e Vita’

Lo sguardo Geko è una metafora che userò oggi per definire un modo di guadare.

Uno sguardo che si ferma al primo livello di analisi, sfuggente, di superficie, frettoloso, che parte dall’idea che non ci sia altro da osservare, oltre il Geko stesso.

Non si cambia lo sguardo senza fatica, senza perdere ancoraggi e sicurezze, si cambia imparando a guardare altrove. Si perde lo sguardo Geko se ci si affida, se si approfondisce, se si prova ad osservare in modo differente, da altre angolature, con altri occhi. Anche con gli occhi degli altri.

E’ un modo di guardare che non accetta altri modi di vedere, altre posizioni, a cui sfuggono elementi di contesto, che si dimentica dello sfondo, che vede solo attraverso i propri occhi in una posizione stabile, statica, ferma. Uno sguardo che si mostra sicuro, definitivo, certo, ed invece è solo Geko.

Quello Geko è un punto di osservazione che non tollera dubbi, mira a rassicurare. Non prevede altro. E’ un punto di osservazione ad imbuto, applicabile sia nel lavoro che nella vita.

Lo sguardo Geko è quella modalità di osservazione che ti porta a concentrare la tua attenzione sull’assenza della zampa. Concentrarsi su ciò che manca sposta l’ottica dal Geko e riconduce la sua forza o la sua debolezza alla sua disabilità. Invece il Geko è il Geko. La sua disabilità è solo una parte di lui, non lo definisce.

Lo sguardo Geko è quello che rischia di farsi trascinare dalle emozioni che il Geko stesso ti produce. Se soffro perché mi dispiace vedere il Geko senza una zampa ne esalterò la forza, se invece mi genera rabbia urlerò conto la sorte o il dolo che hanno portato il Geko ad essere il Geko che è. In entrambi i casi mi dimenticherò che il Geko non è la sua disabilità o la sua forza. Il Geko è il Geko.

Rischia di essere Geka l’azione interpretativa, se giudichi la posizione del Geko, spiegandola attraverso la tua idea preconfezionata. Succede quando cerchi una teoria che confermi il tuo pregiudizio, in ambito psicologico si chiama Bias di Conferma. Dirai: il Geko è a testa in già perché è matto, magari proprio perché ha perso una zampa. Ma tu non lo sai quanto al Geko possa far piacere stare a testa in giù, magari. E in questo caso inoltre, non lo puoi nemmeno chiedere perché il Geko non risponde a questo tipo di domande.

E’ uno sguardo Geko, infine, quello che ti conduce a non accorgerti che il Geko è chiuso dentro un teca, in un ambiente artificiale, strumentale solo a farti vedere il Geko, che essendo educato si mostra senza pudore. Noi, nel frattempo, perdiamo il contesto, presi ad osservare ciò che manca, convinti che non ci sia altro, scambiando il valore della parzialità con il rimanere in superficie.

Succede con le persone che arrivano da altre terre, guardate in modo superficiale, dove le storie, i bisogni, le sofferenze diventano ingombro, migrante uno, migrante l’altro, punto e a capo. Succede che ci fermiamo lì, per stanchezza, per semplificazione, per non rischiare di scoprire, magari, cose che non vorremmo sapere.

Siamo vittime dello sguardo Geko se cerchiamo di semplificare un mondo complesso, indisponibili a cambiare posizione di osservazione. Ci innamoriamo di uno sguardo. Lo sguardo Geko è complesso da trasformare anche per questo, perché tende ad innamorarsi della propria visione del Geko stesso. Tende ad esaltarla, raccontandoci di quel Geko che rimane attaccato ad un vetro a testa in giù, con una zampa sola. Ne racconta le gesta in modo eccessivo, costruito, creandone un racconto finto, artificiale, quasi cinematografico. Ma il Geko, intanto, continua ad essere in una teca.

Lo sguardo Geko si può trasformare, ma serve uno spazio per farlo. Uno spazio fisico dove formare uno sguardo ampio, dove si possano moltiplicare le posizioni e le angolature di osservazione. E’ uno spazio formativo. Potrebbe essere quello di una supervisione pedagogica o psicologica, di una consulenza individuale, ma è anche uno spazio mentale, personale, una predisposizione. Per trasformare lo sguardo Geko in altro serve la necessità di creare spazi nuovi, serve spazio vuoto e la forza di poter mettere in discussione ciò che si vede. Serve il coraggio di provarci, di abbandonare porti sicuri per provare sguardi nuovi, meno rassicuranti.

E’ per questo che sono così felice quando riesco a condurre spazi di supervisione. Percorsi come quelli che ho avuto la fortuna di attraversare negli ultimi due anni, con due gruppi di educatori che hanno provato a trasformare il loro sguardo Geko, come io ho provato a trasformare il mio, mentre lavoravamo sul loro.

Son felice quando incontro educatori ed educatrici che hanno fame di lavorare sul loro sguardo Geko, che ti chiedono di farlo e che faticosamente ti permettono di entrare. Son felice quando trovo genitori che chiedono uno sguardo altro sui figli, perché sento che hanno voglia di provare a cambiare lo sguardo sul loro piccolo o grande Geko.

Per questo gli spazi di supervisione e formazione in ambito educativo non possono mancare, mai.

Sono un professionista fortunato, perché lavorare sui processi di cambiamento degli altri ti permette anche di incontrare gente così. Educatori e educatrici consapevoli di rischiare lo sguardo Geko e di doverci lavorare.

Negli ultimi tempi mi succede una cosa strana: quando incontro, anche in rete, uno sguardo Geko, mi chiedo quanto anche il mio sguardo stia rischiando di esserlo. Non sapete quanto questa domanda aiuti a tener vivo il desiderio di trasformarsi, continuamente.

Christian S.

Ieri avete perso. Male e in modo netto. Avete perso una partita che non potevate vincere. Perché alcune sconfitte son così. In alcuni casi non si vince, nemmeno se si dà il massimo, nemmeno se le altre sbagliano partita. Si perde e basta. E’ inutile girarci intorno, sarebbe solo un modo di prendersi in giro.

Allora bisogna partire da qui, dal senso del limite. Perché alcuni limiti si possono superare, altri invece vanno solo rispettati. Compresi e rispettati. Sia quando sono individuali, sia quando son collettivi. Inutile provare a scaricare sulle altre o a prendersi tutto. Il basket è uno sport di squadra e la valutazione deve essere complessiva. Ieri non si poteva vincere, ma si poteva giocare meglio, lottare, cosa che non è successa. Sulla vittoria non potevate fare nulla, su questo invece sì, è possibile lavorare. Forse dobbiamo tutti imparare a partire da ciò che si può fare e non da ciò che vorremmo.

I limiti si compensano, si superano e alcune volte si rispettano, soprattutto quando non sono possibili le prime due opzioni. Oggi è il giorno di imparare a rispettarli, ad accettare che oltre non si poteva andare, senza che ciò possa diventare un alibi, perché questo è il rischio.

“Papà son tropo forti, è inutile”. Invece no, non è inutile, dobbiamo solo cambiare l’obbiettivo. Non si gioca più per vincere, ma per dare tutto e farle faticare. Perché loro entreranno in campo convinte che sarà facile e starà a voi fargliela sudare, la vittoria. Perché vinceranno anche la prossima volta, probabilmente, ma devono guadagnarsela, devo sbucciarsi le ginocchia, lottare, anche se son più forti. Serve anche a loro.

Si giocherà per far meglio individualmente in modo che si faccia meglio insieme, per far meglio di ieri, per far tesoro di ciò che abbiamo imparato da questa sconfitta. Si giocherà per cercare di essere lì, se dovessero sbagliarla loro, la partita, questa volta. Perché è così che funziona lo sport, se gli altri sbagliano e non sei pronto, la perdi anche quando potevi vincerla. Si giocherà per capire se avete imparato a fare i conti con l’idea che ci possa essere una squadra più forte della vostra, una quadra che sembra imbattibile. Si giocherà per verificare che quello strano senso di inferiorità non vi immobilizzi, perché può capitare, come è successo ieri.

Serve figlia mia. Serve imparare a giocare mettendo in campo la rabbia e la delusione che ti porti a casa oggi, per imparare a soffrire ancora di più e spingersi oltre i propri limiti, perché finisca con un risultato differente, perché escano dal campo sorprese per come ci avete provato. Serve, sia a voi che a loro.

Ti ho chiesto come ti sentivi, mi hai risposto che eri dispiaciuta, che non eri felice, che non eri contenta di come avevi giocato e ne abbiamo discusso. Ho sentito e sento il bisogno di aiutarti a non perderti negli alibi, perché gli alibi non servono a nulla, se non a nascondersi dietro barriere che ti lasciano dove sei. E’ una questione di rapporto con il limite. Se lo conosci e lo rispetti, diventa un tuo alleato. Se invece non ci rifletti, rischi di andare a sbatterci contro continuamente, senza accorgerti che è inutile e che stai solo sprecando energie. Che la strada per uscire, in sintesi, è un’altra.

Imparare a studiare i tuoi limiti ti permetterà di spostare lo sguardo da ciò che non puoi fare a ciò che invece puoi cambiare. Ci saranno cose che potrai modificare, non sarà il risultato finale, sarà il tuo modo di stare in campo, di giocare, di prenderti le tue responsabilità. Il tuo modo di prendere le sconfitte, per esempio.

Ho perso anche io e quando ci son passato dentro, il nonno mi ha insegnato anche a riderci sopra. Mi faceva incazzare, lo ricordo bene, ai tempi, ma ad oggi credo di doverlo ringraziare. Se riesco, a volte, a prendere le fatiche quotidiane con leggerezza lo devo anche a lui e alla sua modalità dissacrante. Si chiamano eredità, nel bene e nel male.

Ci rideremo sopra, figlia mia, questo è sicuro, senza dimenticarci che insieme alla leggerezza, c’è un lavoro da fare sui limiti. Tuoi e delle tue compagne, perché se imparerai a portare rispetto verso i tuoi limiti, lo sarai anche con quelli di chi gioca con te. Se imparerai a lavorare sui tuoi, potrai aiutare anche gli altri a farlo con i loro.

Imparare a rapportarti con i tuoi limiti è un percorso complesso che non ti toglierà la sofferenza che le sconfitte si portano dietro ma ti aiuterà a dargli un senso, un valore e ti permetterà di andare a cercare cosa c’è dietro la sofferenza che ti provoca. Succederà se ti prenderai il tempo di rifletterci su, perché dalle sconfitte si impara poco, se le lasci solo passare. Perché le esperienze di per sé son esperienze, diventano preziose se ci mettiamo pensiero, anche se ci verrebbe più semplice archiviarle e passare alla partita successiva.

Se riusciremo a fare questo, ragazzina colorata, avremo fatto un gran passo avanti, insieme. Perché il rispetto dei limiti degli altri è ciò che ci permetterà di arrabbiarci di meno con loro, spostando l’attenzione verso ciò che possiamo fare, evitando di sembrare una palla che rimbalza contro il tabellone. Perché se la palla la tiri sempre nello stesso punto e con la stessa forza, il rimbalzo è sempre lo stesso. Perché come ti dico spesso, il tabellone è tuo amico, se sai come usarlo.

Se riuscirai ad accettare i tuoi limiti un giorno riuscirai ad accettare anche i miei e forse avremo vinto in due. Anzi, avremmo vinto sicuramente, entrambi.

Christian S.

Sono sempre stato affascinato dal mondo del Rugby. L’immagine e i racconti che emergono, anche dai genitori, ne restituiscono l’idea di un luogo differente. Uno mondo che pare mantenere alcuni valori di fondi che hanno sempre contraddistinto lo sport. Fatica, sudore, lealtà, competizione, vittorie, sconfitte ma soprattutto  lotta dura in campo e abbracci alla fine della partita. Elementi che sembrano sintetizzarsi bene nel Rugby, dove in campo i ragazzi si placcano rotolandosi a terre a poi finiscono a mangiare insieme durante quello che viene chiamato “Terzo tempo” (momento istituzionalizzato, in cui le due squadre, a fine partita, mangiano insieme, mischiate). Incontro il mondo del Rugby in rete, ne leggo le storie, i commenti e soprattutto i pensieri dei genitori. Me ne arriva notizia anche da alcuni colleghi educatori, mi piace. Forse ne subisco anche il fascino, anche perché da amante degli sport di squadra son sempre alla ricerca di un nuovo amore. Un amore che compensi la delusione che deriva dalla sensazione che altri sport (il calcio in primis) abbiano smarrito completamente il valore originario. Genitori che urlano dagli spalti cose inascoltabili contro bambini di altre squadre, sguardo individuale che sposta l’interesse solo sul proprio figlio e sulla possibilità o necessità che diventi un campione. Smarrimento del valore dello sport di squadra. Incapacità di stare dentro il proprio ruolo e di tollerare che altri (gli allenatori) possano decidere per tuo figlio anche perché magari ne sanno più di te. Il rugby invece mi restituisce un’immagine differente. Forse perché è uno sport di nicchia, forse perché anche io subisco il preconcetto (positivo) che gira intorno a questo sport, forse perché è ancora uno sport che pare rimanere ai margini rispetto al mondo del Business.

Poi lo incontro direttamente, il Rugby.

Incontro il RugBio. Associazione sportiva che pratica il Rugby sociale. Lo incontro perché il presidente della società mi chiede di fare una formazione per i loro allenatori, che lui chiama Educatori. Quando Incontro Alessandro Acito mi accorgo che ciò che mi racconta mi piace. Mi ferma quando provo ad elogiare il Rugby raccontandomi del preconcetto che avvolge il Rugby tutto. Mi spiega che anche li troverò alcune deformazioni sportive che di solito si trovano sugli spalti di altri sport, che anche lì troverò qualche dopato, qualche genitore che non si tiene, qualche condizionamento da fama facile. Già, perché se, come genitori abbiamo maturato un modo maldestro di approcciare agli sport, nulla diventa esente, nemmeno il Rugby ovviamente. Mi racconta anche di altro però. Mi spiega di come hanno deciso di provare ad usare il Rugby, in quali quartieri, con quali ragazzi e ragazze e soprattutto mi racconta cosa chiede ai suoi Educatori. Ecco che torna. Niente allenatori, educatori. Mi dice che vuole che siano formati, che ci tiene che sappiano cosa fare con i ragazzi. Sembra interessato soprattutto all’impatto educativo del lavoro in campo. Sembra che in primo piano, in sintesi, ci siano la questioni educative. Ovviamente la cosa non può che piacermi. Sia perché è il mio lavoro sia perché, almeno per i ragazzi e le ragazze, lo sport dovrebbe essere un’esperienza educativa, prevalentemente. Di questo sono convinto da sempre. Un’esperienza dove si imparano le tecniche di quello sport (didattica) ma soprattutto dove si imparano cose utili per la vita tutta (educativa). Il vecchio binomio didattica ed educazione che torna in primo piano. Quel binomio su cui dovrebbe tenere lo sguardo forte anche la scuola, magari provando ad orientarsi maggiormente sul valore educativo dell’esperienza scolastica, perché il valore dell’esperienza didattica, mi sembra, in generale, discretamente presidiato. Perché educazione e didattica non si possono distinguere, separare, perché si impara meglio se ci si riconosce nella relazione con gli insegnanti, con i propri compagni e soprattutto se si riconosce il valore, per la propria vita, di ciò che stiamo imparando. Orientando lo sguardo sul valore educativo dell’esperienza scolastica aiutiamo i nostri ragazzi a sperimentare e costruire relazioni significative con altri adulti al di fuori della famiglia. Li aiutiamo a costruire competenze relazionali utili e spendibili immediatamente, insomma.

Qualche settimana dopo, con grande curiosità incontri gli allenatori, che io mi ostino a chiamare così. Condizionato dalla mia esperienza, dal mio modo di vederli, da come li ho visti nella mia lunga carriera di giocatore di basket. Per me sono allenatori. Per Alessandro, Educatori e Educatrici. Quando li incontro capisco perché. Capisco perché lui ci tiene a chiamarli così, capisco come li ha scelti, capisco che davanti c’è l’educazione dei ragazzi, la capacità di imparare a stare insieme, la gestione dei fallimenti, il lavoro di squadra, la lealtà, l’uso corretto della forza. Incontro un gruppo di uomini e donne interessati ad imparare, la formazione va via veloce, bella e fluida. Tante domande, affondi, mi accorgo che sposto in alto anche l’asticella dei contenuti che porto. Mi accorgo che la formazione assomiglia sempre di più alle formazioni che faccio per gli Educatori Professionali. Ora capisco perché Alessandro li chiama così.

Mi innamoro. Son fatto così. Formare un gruppo di Educatori del genere mi fa bene. Mi vien voglia di rincontrarli (facciamo due incontri) e di progettare spazi di formazione per e con loro. Mi vien voglia di mandarci mia figlia (che però oramai è innamorata del basket) e di mandarci i figli degli altri. Mi vien voglia di raccontare di loro. Su Fb e qui in questo articolo. Non solo perché mi piacciono, ma perché il valore di quello che portano è alto. Uno sport inclusivo (c’è spazio per tutti), in cui ci si sporca e si fa fatica. Uno luogo dove imparare soprattutto a gestire la propria aggressività, ad usare la propria forza, dentro vincoli e regole definite.  Uno spazio per imparare a vivere mentre si impara a giocare a Rugby.

L’ASD RugBio nasce nel 2014, lavora nei quartieri o nelle realtà dove spesso pare più complesso lavorare. Li trovi a Cusago, Quarto Oggiaro, Besate e Abbiategrasso. Li trovi Qui e su Facebook. Li trovi soprattutto in campo, belli, sporchi, pieni di lividi e felici. Li trovi, se hai voglia di cercarli.

Da più di un anno, lavoro con loro. Alcune delle cose che abbiamo fatto le potete trovate nel Blog che abbiamo aperto. Uno spazio condiviso con gli educatori e i genitori. Un blog degli adulti del RugBio.

Christian S.

Non sono un estimatore della legge. Non mi piace. Chi mi conosce personalmente lo sa.

Perché?

Principalmente perché tiene ancora separati gli educatori che provengono da Medicina e i laureati in Scienze dell’Educazione. E’ una divisione che non condivido, che mi pare solo il frutto di una diatriba tra Università. E’ una divisione che non mi convince nemmeno dal punto di visto tecnico e scientifico, perché l’educazione professionale è una. Se si voleva “specializzare” maggiormente gli educatori bastava fare un terzo anno in cui poter scegliere l’area, l’utenza o il servizio su cui concentrarsi. Ma forse era troppo facile. Il testo della legge non mi convince fino in fondo perché è pieno di buchi, imperfetto, con alcune gravi lacune. Un legge che si presta a molte interpretazioni e ad alcune forme di ingiustizia. La principale forma di ingiustizia è quella che porta a scaricare, anche sui lavoratori, i costi degli errori e delle scelte dalle Università in sede di avvio dei corsi di formazione specifici. Un testo fatto, almeno apparentemente, senza conoscere a fondo il mondo dell’educazione. Un testo che colloca le funzioni di coordinamento, giusto per fare un esempio, dentro un percorso (Scienze Pedagogiche/Pedagogia) che non forma, almeno fino ad oggi, i coordinatori dei servizi educativi. Almeno non in modo specifico. Una testo che scritto così rischia, quindi, di tagliare fuori gli educatori e le educatrici dalle funzioni di coordinamento dei servizi, magari a discapito di laureati magistrali provenienti da triennali di altro tipo. Una legge che porta con sè, inoltre, un grave “dimenticanza”, visto che non prevede nessuna forma di tutela per chi coordina da anni e che dopo l’approvazione della legge, probabilmente, non lo potrà più fare.

Giusto per esser chiari, ad oggi ci sono in giro alcuni percorsi specifici (Parma, Roma, tempo fa anche Milano) per formare i coordinatori e le coordinatrici e forse sarebbe necessario fossero molti di più, ma dovremmo partire dalle reali competenze necessarie per coordinare un servizio socio educativo, non da un’idea di competenze. Se vogliamo stare su ciò che dice DDL 2443, andrebbe ricordato che la magistrale in scienze pedagogiche, nella maggior parte dei casi, forma professionisti e professioniste per ruoli di secondo livello, ma il coordinamento dei servizi, pur rientrando nelle funzioni di secondo livello, è altra cosa, insomma. Necessita di competenze specifiche assai differenti.

Il DDL 2443 (il ddl Iori) è una legge che cerca però di mettere ordine, dove ordine ad oggi non c’è. Una legge che permette di sanare, finalmente, chi da anni lavora come educatore senza una formazione accademica specifica. Una legge che traccia una linea di pensiero (quando chiede alle università di lavorare per il profilo unico) e che potrebbe essere un punto di partenza per andare nella direzione che io auspico. Se dovesse passara, il DDL 2443 cambierà sicuramente il settore dell’educazione professionale. In meglio? Io lo spero, vivamente.

Ho un rapporto distante da questa legge. Chi mi conosce lo avrà capito e magari si sarà anche chiesto il perché. E’ una legge di cui personalmente non ho mai sentito la necessità, perché da 20 anni lavoro, insieme a molti colleghi e colleghe, per far cultura educativa, dando valore allo sguardo degli educatori e delle educatrici. Dove lavoro io la legge è già arrivata, si assumono educatori per far gli educatori, i bandi son fatti così, chiedono educatori per far gli educatori e psicologi per fare gli psicologi. Gli educatori si inquadrano al livello corretto (D2), poi se qualche cooperativa fa qualche furbata, questo è un altro discorso. Dove lavoro io si fa formazione, supervisione, anche e soprattutto con taglio pedagogico. Non abbiamo aspettato il DDL 2443, abbiamo lavorato con i dirigenti e le dirigenti degli enti locali per dar valore agli sguardi multi professionali, per integrarli e differenziarli. Abbiamo costruito servizi in cui gli educatori hanno un ruolo importante, sempre di più. Dove lavoro io si fa formazione sull’identità professionale degli educatori e delle educatrici, ciclicamente, perché l’identità si trasforma continuamente. Perché un’identità esiste anche in assenza della legge, il problema è imparare a riconoscerla e nominarla.

Non mi piacciono i movimenti di alcune associazioni di categoria, più interessate a mostrarsi per raccogliere soci che a lavorare per gli interessi di chi fa educazione. Non mi piacciono perché dove lavoro io la cultura educativa l’han fatta gli educatori e le educatrici, i coordinatori, le coordinatrici, i dirigenti e le dirigenti degli enti locali e il terzo settore, senza bisogno di nessuna associazione. Non mi piace chi rappresenta 250 persone e si pone come se ne rappresentasse 200 mila. Gente che si è permessa di chiamare “abusivi” i colleghi e le colleghe che per anni han tenuto in piedi i servizi educativi quando le Università e le istituzioni ancora non si erano accorti del mondo degli educatori. Questa gente non mi rappresenta. Dove lavoro io le associazioni di categoria non si son mai viste, eppure gli educatori e le educatrici godono di grande rispetto. Prima di rappresentare “gli altri” bisognerebbe imparare a rispettarli “gli altri”. Non mi piacciono, infine, le Associazioni che sembrano Sindacati. E’ un barbatrucco troppo evidente, insomma. Non mi piace chi cerca di appropriarsi di una legge, come se fosse una proprietà individuale.

Ci sono persone, dentro le associazioni, che mi piacciono, alcune anche parecchio. Ma questo è un altro discorso. Mi piacciono questi colleghi e colleghe perché non hanno aspettato la legge. Han fatto cultura, scritto di educazione, gestito gruppi, impegnato tempo, parlato di educazione, senza aspettare il DDL 2443. Son colleghi e colleghe che sono dentro le associazioni ma non “sono” le associazioni. Colleghi e colleghe che hanno una visione critica di ciò che osservano, fuori dalle visioni ideologiche.

Non mi piace la legge ma spero sia approvata, perché in questo caso credo sia meglio una legge “imperfetta” a nessuna legge. Di solito non sono uno che si accontenta, ma in questo caso sento che sia necessario partire da qui, da questa legge, per come è fatta. Sperando, ovviamente, di poterci mettere mano in un secondo momento. Spero sia approvata anche se la mia fiducia verso i parlamentari odierni è bassa e non per una posizione ideologica o qualunquista, ma per gli effetti di ciò che vedo. Un gruppo di senatori e senatrici che ha aspettato l’ultima settimana per cercare di approvare una legge importante per una intera categoria di professionisti e professioniste. Una legge che è in Parlamento da oltre 3 anni, approvata alla camera a giugno 2016 e che arriva solo oggi in Senato, è il segno di un ritardo imbarazzante. Fidarsi in futuro di chi ha posto così poca attenzione verso una legge così importante è un atto di coraggio, di fede o di follia. Scegliete voi.

Spero che il decreto venga approvato nonostante rimangano aperte alcune domande:

  • Saremo poi capaci di cambiarla?
  • Saremo capaci di sanare la frattura tra educatori socio-sanitari e socio-educativi?
  • Saremo capaci di non cedere alle derive di  specializzazione che l’educazione professionale sta prendendo?

Mi porto dietro questi dubbi, perché ho la sensazione che l’approvazione della legge rischi di frenare ogni altro impulso. Saremo capaci di continuare a far cultura dell’educazione quando la legge sarà approvata, perché l’identità di un popolo la fa il popolo stesso, non una legge.

Come dicevo tempo fa ad un collega che stimo, da cui ho preso la foto che trovate nel post, spero che la legge sia approvata anche perché son curioso di vedere cosa avranno da dire i colleghi e le colleghe che in questi anni han parlato solo del DDL 2443; quei colleghi che ne hanno parlato usandolo spesso come alibi, raccontando che senza un riconoscimento sembrava non si potesse fare nulla, utilizzando la mancata formalizzazione della legge Iori per posticipare il loro pezzo di responsabilità nella produzione di cultura dell’educazione. Parlare solo della legge è stato un modo per scaricare la responsabilità su altro fuori da se stessi.

Spero che sia approvata perché so di essere stato anche fortunato, di essere capitato in un territorio e dentro una cooperativa che crede e ha creduto nel valore dell’educazione professionale. Spero nell’approvazione perché altri colleghi non son stati altrettanto fortunati e credo che la legge possa aiutarli ad avere una cornice dentro cui muoversi.

Spero sia approvata, anche se penso che la legge, da sola, non ci proteggerà. Non ci proteggerà se non avremo altro da dire al mondo dell’educazione, se continueremo a cercare alibi, il prossimo sarà l’albo. La legge non ci darà, da sola, il riconoscimento, soprattutto se non saremo nelle condizioni di mostrare chi siamo e quello che sappiamo fare.  La legge non ci aiuterà a lavorare meglio, forse aiuterà a lavorare. La qualità di ciò che faremo dipenderà da noi. Nel mondo educativo ciò che abbiamo imparato a scuola o in Università non basta.  La dignità del lavoro educativo la si guadagna con la qualità del lavoro. Il resto, secondo me, sono alibi.

Fatemi un piacere, approvate il DDL 2443, così magari possiamo tornare a parlare anche di altro.

Per chi avesse voglia di approfondire, sul numero 311 di Animazione sociale c’è un’intervista di Ota De Leonardis che apre alcune interessanti riflessioni in merito. Vi consiglio di leggerla.

Christian S.

Giornata di formazione. Gruppo di capi scout. Attenti, motivati, appassionati e disponibili a mettersi in gioco. Una giornata intera di formazione di sabato. Quasi eroici, mi verrebbe da dire.

Alzi la mano chi nel suo tempo libero si è mai piazzato in un parco a parlare di prevaricazioni, cyberbullismo e regole?

Il tema centrale sono le prevaricazioni. Porto un affondo sulle regole e sulle modalità di trattarle, tematizzarle e sui rischi connessi. La discussione si sposta sulla colpa. Facilmente. Succede nel guardare i ragazzini che si accompagnano, succede riguardando le proprie azioni. Succede che il senso di colpa schiaccia e appiattisce. Sposta tutto su desiderio di scusarsi, di pentirsi e di espiare.  E’ difficile non caderci, capita anche a me, nell’analisi della azioni che faccio. Soprattutto da padre, ma anche da professionista.

Succede perché la colpa è pervasiva, culturale, vive e si annida nel profondo. Talmente profonda da immobilizzare o da portare al desiderio di chiudere. Troppo dolore.  Meglio scusarsi e finirla qui. Fa così anche mia figlia. Quando sente che non ha voglia, né spazio per andare avanti. Chiude. Si scusa e prova ad andarsene. La sua fortuna che io non la mollo. Non la mollo perché non voglio che si senta in colpa e soprattutto perché non voglio che tagli corto quando si parla invece di responsabilità.

Ecco il punto: colpa e responsabilità. Bella coppia.

Mi accorgo che la differenza tra colpa e responsabilità non è scontata. La prima, la maledetta colpa, guarda l’individuo, nella sua interezza, parla alla pancia, alle emozioni. Parla di qualche cosa che è sbagliato, mette al centro una specie di senso di tradimento della relazione. Hai sbagliato, ti devi scusare, lo devi fare con me, perché io sono la vittima. Hai trasgredito le regole. Hai tradito anche me, proprietario delle regole. Diventa una questione personale, di rapporto. Conduce in una unica strada, ad un unico modo di uscirne; le scuse. Scusarsi, anche provando a rassicurare che non succederà più. Quante volte abbiamo sentito “non lo faccio più” uscire dalla bocca dei bambini. Promettere di non farlo più vuol dire mettersi in un’ottica pericolosa, dove l’errore viene visto sono in un’ottica di non ripetizione. Ma l’errore è anche altro. E’ prezioso per conoscersi, per imparare a tollerare le imperfezioni degli altri, per scoprire strategie di risoluzione dei problemi, per imparare che siamo esseri imperfetti e che l’errore stesso non è una deviazione della strada maestra, ma parte della strada stessa. Perchè gli errori non si evitano, si affrontano.

Dall’altra parte c’è la responsabilità. Che parla del ruolo che stai attraversando, parla di un pezzo di te, di una cosa che hai o non hai fatto. Parla dell’aver fatto. Parla di qualche cosa che ci sembra cambiabile. Trasformabile. La responsabilità parla dell’azione e le azioni si possono fare in modo differente. Parla, a differenza della colpa, di qualche cosa che ci sembra più facilmente modificabile, ci fotografa l’azione che avremmo dovuto fare, magari in altro modo. Se parliamo di responsabilità diciamo ai ragazzi che devono imparare ad assumersela, che devono rispondere di ciò che han fatto. Non gli diciamo che devono scusarsi, pentirsi, insomma. Se parliamo di responsabilità parliamo di futuro, di diventar grandi, di diventar cittadini, responsabili di una parte del modo che stiamo costruendo. Se parliamo di responsabilità non gli chiediamo di fermarsi,  ma di andare avanti. 

Christian S.

PS: Parte del merito di questo post è dei capi Scout CNGEI di Cesano Maderno che mi ha aiutato a mettere a fuoco, meglio, una questione importante e preziosa, su cui ragiono da un po’. Una tema che mi sarà utile nei prossimi tempi, come uomo, padre e professionista dell’educazione.