Archivio per la categoria ‘Educazione ed Handicap’

Cose è la Capoeria?. Spiegare oggi cosa sia la capoeira e spiegarla ad un adulto che mi chiede: “Ma quindi con questa capoeira che fai…che cos’è?” richiede almeno il tempo di un buon caffè da condividere (Per me un the grazie, non bevo caffè da anni). Questo perché, di solito, sono differenti i collegamenti che la Capoeira favorisce nella mente di chi l’ha vista o sentita qualche volta in tv. La Capoeira riconduce alla danza, alla lotta, al Brasile e a qualche giocatore brasiliano che utilizza le esultanze acrobatiche (Per i cinofili riconduce a Vincent Cassel, sì, l’attore. Basta scrivere su Youtube Vincent Cassel – Capoeira e vedete cosa vi propone il web).

Ai ragazzi dico più semplicemente: “un gioco”.

Va bene, bellissimo, è un gioco. Che obiettivi ha? Cioè se nel calcio devo fare gol, nel basket/pallavolo punto, qua che devo fare?”. Nella Capoeira non si gioca tanto per muovere il corpo e basta ma ha una miriade di obiettivi in ogni momento ed in ogni fase. La Capoeria è una disciplina che rinchiude nella sua storia almeno due continenti, quello africano e quello sudamericano connessi tra loro per la tratta degli schiavi del 18° e 19° secolo. Oltre ai movimenti che la capoeira ha nel suo DNA e che sono vere e proprie mosse di arti marziali (colpi con le mani, calci, testate…), movimenti complessi del proprio corpo (flessioni, piegamenti, ponti, estensioni) o acrobazie (verticale, ruote, salti mortali), c’è tutta una parte fondamentale di movimenti che seguono la musica cantata (in portoghese) e suonata con vari strumenti alcuni esclusivi della Capoeira (berimbau). Queste due componenti (quella fisica/motoria e quella musicale e strumentale) ruotano insieme durante il gioco. Nella Capoeira ci si mette tutti in cerchio (roda), alcuni suonano gli strumenti e definiscono il tempo di ingresso dove, di volta in volta, due capoeiristi entreranno nella roda, al centro del cerchio, per giocare. Il resto delle persone accompagna “ il gioco” cantando, tenendo il ritmo  sua con le mani che con altri strumenti a percussione.

Cosa succede nella Roda?: Se sto giocando, devo tenere a mente i movimenti imparati durante l’allenamento e provarli all’interno della roda con il compagno che mi capita, cercando di renderli funzionali e tenendo a mente che questi movimenti fanno parte di una comunicazione corporea.  Nel tentativo di rendere la conversazione più ricca ed ampia possibile, io ed il mio compagno, mostreremo tutti i movimenti che la situazione di gioco creata richiederà. Alla fine del mio turno di gioco, mi rimetterò in cerchio e parteciperò al gioco accompagnando altri due caporeiristi nel gioco. “Quando finisce questo gioco?”  Finisce dopo che il maestro avrà dato l’opportunità , a tutti, di entrare nella Roda. Dopo la conclusione del gioco, non si assegnano punti, premi, medaglie, valutazioni e pagelle, ma ci si saluta e si fa, con una frase, il punto su ciò che è avvenuto e sulla lezione in generale.

Io e la Capoeira. Quando ho iniziato a far Capoeira presso la scuola che ho scelto qui a Milano (Cordao de Ouro Milano) avevo solo una vaga idea di cosa questa disciplina fosse per via di qualche manifestazione vista in piazza, qualche video visto su internet associandola come una particolarità folkloristica del Brasile. L’ho scelta, quindi, perché permette di mettere in risalto la propria individualità in relazione (questa parola è fondamentale) all’altro: il gioco che si crea, si modifica, produce opportunità, domande e soluzioni anche grazie all’incontro con l’altro giocatore.

Come si può utilizzare in ambito educativo?. Quando io ed un mio collega abbiamo deciso di proporla come attività all’interno del CDD “L’Officina delle Abilità” eravamo reduci da alcuni momenti passati in palestra che ci avevano sollecitato la possibilità di proporlo anche ai ragazzi con cui lavoriamo. Ragazzi che hanno spesso problematiche fisiche connesse a  compromissioni importanti dei gesti, dei movimenti oltre che delle funzioni connesse con la comunicazione e con la sfera relazionale.

Abbiamo deciso di iniziare con semplicità e con chiarezza proponendo ai bambini dei giochi di ruolo dove l’obiettivo fosse “trasformarsi” in animali (il leone, il ragno, il rospo, il gallo, la gallina…), in oggetti a loro noti (la forbice), in piccoli elementi della natura (la mezza luna). Gli abbiamo proposto di cantare canzoni in portoghese utilizzando poche parole, ripetute sia individualmente che in gruppo, scelta che ha permesso di arricchire il loro vocabolario e costruire piccole sequenze.  Abbiamo riadattato giochi noti ai bambini a giochi di capoeira: un due tre stella, nascondino, ce l’hai,  i percorsi motori, arricchendo sempre di più il momento dell’attività.

Con il passare delle lezioni bambini hanno preso confidenza con la struttura della lezione e ciò ha permesso di limitare alcune fatiche motorie. Il movimento poco controllato iniziava ad essere canalizzato e trovava delle valvole di sfogo funzionali; l’ecolalia di qualcuno era sì arricchita, ma di parole legate al contesto della capoeira perché iniziava a crescere la curiosità e la passione.

Parallelamente essendo prima educatori e poi Capoeiristi, abbiamo aiutato i ragazzi a fissare, tramite l’utilizzo di cartelloni visivi, ciò che era successo e gli apprendimenti avvenuti.

Ogni anno, l’abbiamo concluso con un saggio che nel gergo della Capoeira si chiama “Batizado” (inizio, ingresso nella Capoeira) o “Troca de Cordao” (cambio di corda). Questo perché anche in Capoeira esistono dei livelli di competenze che vengono evidenziati attraverso delle corde poste come cintura sui pantaloni della divisa ufficiale. Ogni saggio è stato pensato con l’idea di mostrare ciò che i bambini avevano imparato.

Quello che è successo ha permesso di far sentire i bambini protagonisti di un’esperienza non usuale, di divertirsi e prendere consapevolezza che fosse possibile riuscire a far bene anche “un gioco” complesso come la Capoeira. Anche i genitori ci hanno restituito la loro felicità e soddisfazione, sia per aver visto come il proprio figlio fosse riuscito ad essere, in modo attivo, protagonista dell’attività, sia per i tempi prolungati di attenzione prodotti durante tutto il saggio.

Il 26 Novembre 2014, l’UNESCO ha riconosciuto la capoeira come patrimonio culturale dell’umanità proprio perché fornisce un’idea di dialogo e relazione tra uomini, donne, bambini di qualsiasi età, provenienza, stato di salute, culto. Chissà quanti caffè/the si sono dovuti prendere quelli dell’Unesco per permettere questa collocazione alla capoeira!

Mirko Gallo: Educatore professionale dl 2008. Provengo dalla bellissima ed al contempo, incompleta città di Bari e vivo in Lombardia dal 2010. Da 6 anni mi occupo di minori con disabilità presso l’Associazione “L’abilità Onlus”.  Mi piace creare connessioni funzionali e di scoperta (di sé, dell’altro, del territorio/mondo) tra la gente e le cose per trovare “quello che (più) fa stare bene” (cit Michele Salvemini, alias “Caparezza”)

CiabatteIl termine “diversamente abili“ mi è sempre piaciuto poco, mi ha dato da subito la sensazione che fosse un barbatrucco per non dire altro, per non nominare e utilizzare altre parole che son sempre risultate più ostiche. Come mi disse il mio amico Giulio, sordo dalla nascita: “Io non sono diversamente udente, io non ci sento proprio”. Da quel giorno preferisco usare il termine “persone con disabilità”, perché dà l’idea che la disabilità sia una parte della persona, non la persona stessa. Igor Salomone, consulente pedagogico e mio docente, ci esortava a non aver paura ad usare la parola handicap, o meglio portatore di handicap, perché il significato della parola richiama la responsabilità sociale. La parola handicap è presa in prestito dallo sport e significa svantaggio. In questo senso richiama la responsabilità sociale perché, se non ci sono i saliscendi sui marciapiedi, l’handicap alle persone sulla carrozzina, lo abbiamo creato anche noi, che nulla abbiamo fatto con le nostre amministrazioni perché mettessero a norma le strade, i mezzi e gli spazi pubblici. Se la leggiamo in questo modo, la parola handicap non lascia sole le persone, richiama tutti ad assumersi ruolo e relative responsabilità.

La mia sfida – In questo articolo proverò a raccontarvi alcuni dei possibili modi di fare i conti con i propri limiti anche rispetto al ruolo educativo. Mi assumerò un rischio, lo so, perché parlare di persone con disabilità è delicato, si parla delle vite degli altri e il tema dei limiti è un tema caldo per tutti i genitori. Ci voglio provare, sperando che le mie parole non risultino irrispettose, so perfettamente che fare i conti con i nostri limiti, soprattutto quando sono evidenti e immutabili, è tutt’altro che facile. Ci sono tanti genitori in giro e io li osservo spesso; in rete, nei parchi, a scuola; li osservo perché i genitori mi incuriosiscono, mi interessano le nuove modalità di stare con i figli, le modalità di parlare e di prendersi cura dei bambini. Osservo soprattutto i padri, perché da anni il paterno è una mia grande passione, anche professionale. Li osservo perché, a volte, dai loro modi e dai gesti, imparo.

Diversamente Giulio (i limiti come opportunità)

Giulio è un mio caro amico. Qualche anno fa rimasi colpito dalla modalità con cui dormiva con la figlia di pochi mesi, mentre erano entrambi ospiti a casa nostra. Giulio è un insegnante di educazione fisica che spesso viaggia solo con la figlia e in una chiacchierata mi disse: “Devo tenermela accanto la notte, altrimenti se piange non la sento”. Mi aveva sorpreso, non solo perché aveva trovato una soluzione ad un potenziale problema, ma anche perché aveva trasformato un limite in una grande opportunità, quella di stare accanto a sua figlia. Lo aveva fatto, inoltre, mandando al macero almeno un centinaio di volumi di pedagogia. Quei manuali, per intendersi, che ci insegnano che non possa esistere relazione educativa sana se il figlio dorme con i genitori. Vederli dormire assieme è stata una della scene più emozionanti a cui abbia mai avuto la fortuna di assistere. La soluzione trovata da Giulio mi aveva insegnato a guardare oltre. Un limite diventava una possibilità, si trasformava, non senza fatica ovviamente, in una bellissima opportunità. La soluzione di Giulio aveva anche provocato in me un pizzico di invidia, perché per un certo verso mi avrebbe fatto comodo essere stato obbligato a dormire accanto alle mie figlie, cosa che non ho praticamente mai fatto, se non durante le simpaticissime nottate di febbre. Giulio ha regalato a sua figlia un bellissimo spazio di condivisione e un messaggio, quello di un padre che senza alibi si occupa di sua figlia. Non c’è lavoro, non c’è scusa, non c’è handicap che tenga: io son qui con te. Altri avrebbero potuto tranquillamente delegare alla madre, usando il proprio limite per scaricare la responsabilità. Giulio no.

Diversamente Lele (i limiti come punto di partenza)

Anni dopo ho incontrato Lele, Diversamente padre anche lui. Da una parte è un padre come tanti, uno di quei padri che accompagna i figli a scuola, li veste, li coccola e li fa giocare. Dall’altra parte è un padre differente perché fa tutto questo senza una gamba che gli è stata amputata a causa di un incidente stradale. Ho avuto la fortuna di incontrarlo perché le nostre figlie sono in classe insieme. Ci siamo incontrati per discutere di barriere architettoniche e di servizi per i giovani, per scambiarci indirizzi utili per mangiare bene. Ma ci incontriamo anche perché il suo modo di rapportarsi con il suo limite davanti ai figli mi piace, anche se in alcuni casi mi crea anche un po’ di imbarazzo. Io che son qui che mi lamento per tutto e guarda lui cosa fa? Si butta in piscina con la carrozzina, gioca a hockey e lavora anche se potrebbe stare a casa. Insomma, non fa il “disabile”. Non si fa limitare dal suo handicap, in modo pubblico, davanti ai figli, in rete e senza paura, Lele vive la sua nuova vita. Lele regala ai figli uno dei più grandi insegnamenti possibili: il limite non è un punto di arrivo, non è un solo un ostacolo, può essere anche un punto da cui ripartire per impostare la propria vita. Quando lo incontro per raccontargli dell’articolo, mi dice: “Io son nato 7 anni fa, il giorno dell’incidente. Da quel giorno la mia vita è cambiata, forse in meglio”. Lo guardo negli occhi e non posso far altro che credergli. Non ci posso far nulla, il suo modo di pensare alla sua nuova vita mi ricorda tanto le parole di Alex Zanardi, ex pilota di formula uno, oggi pilota di handbike bi-amputato. Diversamente Alex parla così del suo percorso: “La vita è un percorso lungo, dal quale s’impara sempre qualche cosa, eppure siamo consapevoli che moriremo ignoranti perché non si può imparare tutto. Quanto mi è accaduto mi ha arricchito di esperienze che altrimenti avrei completamente ignorato. Certo ci sono state molte difficoltà, ma anche tante soddisfazioni e alla fine non ho alcun rimpianto per quello che mi è accaduto”. Credo che dalle parole di Alex e Lele ci sia molto da imparare.

Diversamente Roberta (i propri limiti per accompagnare gli altri)

Roberta è una madre che lotta da quando è giovane con una malattia rara. Una di quelle malattie che non finisce, con cui sei obbligata a convivere come se fossero un paio di occhiali spessi. Due figli, un marito, tanta fatica (che posso solo immaginare) e nessun apparente segno di condizionamento, perché ha fatto e fa quello che le interessa e le piace. E’ una madre che ha lavorato per anni come educatrice, in modo appassionato e intelligente e che oggi fa la formatrice, la mediatrice familiare e civile. Una professionista che accompagna gli altri dentro le loro difficoltà, nei loro drammi e conflitti, nelle loro scoperte e nei loro percorsi di crescita. Roberta è una madre che racconta della sua malattia, in pubblico e ai sui figli, usando il proprio percorso personale di confronto con i limiti perché sia utile ad altri. Lo usa con competenza, perché lo ha analizzato, spezzettato e ricomposto per usarlo nel suo lavoro oltre che nella sua vita. E’ una di quelle donne che ha fatto del proprio limite un propulsore. La sua storia e il suo modo di raccontarsi è estremamente interessante oltre che utile. Ogni tanto, quando penso a lei mi tornano in mente le parole con cui si descrive in uno degli articoli che ha pubblicato: “Non penso che la mia malattia sia un dono, tutt’altro, proprio una sfiga invece. Però oggi sono la donna che sono perché con me c’è anche lei. Mi ha permesso di vedere i limiti, negarli, odiarli, rifiutarli e poi cominciare a volerli conoscere meglio per “farci la pace” e provare ad aggirarli”. Quando leggo queste parole, mi sento più forte anche io. Eccovi un link in cui potete trovare il racconto da cui son tratte le parole che ho citato, vi consiglio di leggerlo. Lo trovate qui.

Diversamente noi (quelli che hanno imparato o impareranno)

Poi ci sono gli altri. Quelli che si son trovati ad affrontare i loro limiti ed hanno avuto la possibilità di posticipare la riflessione, che si son potuti permettere di pensarci poi o che son riusciti a non pensarci. Quelli che hanno faticato nel raccontare i propri limiti ai loro figli perché temevano che fosse un messaggio perdente, che non han trovato le parole e i tempi, quelli che si son convinti di non avere limiti o che fosse meglio non farli vedere. Quelli che ci han provato e ad un certo punto hanno scoperto che si poteva fare, che alcune cose si potevano dire e che dai propri limiti si può, non senza fatica, partire. Quelli che ad un certo punto han preso da parte i figli e han cominciato a raccontare, che lo faranno oggi, domani, tra un po’, ma lo faranno. Quelli che han trovato o troveranno, insomma, il modo e l’occasione per aiutare i propri figli a fare i conti con i loro limiti, perché han scoperto che ogni limite può trasformarsi in una possibilità, in un punto di partenza e in un percorso di apprendimento. Quelli che potremmo chiamare “diversamente” genitori senza che ci sembri un trucco linguistico per non dire altro. Con questo significato la parola diversamente, devo essere sincero, mi piace assai di più.

Christian S.

Hockey firmaUn ringraziamento particolare va a Giulio, Roberta e Lele. Perché incontrarli è stato per me molto importante. Forse più di quanto loro possano pensare.

A Marco Costanzo con cui collaboro da tempo, sia per Gaggiano On line che per Gaggiano Magazine (da cui è tratto l’articolo).

A chi mi legge. Perché per me rimane una gran cosa.

A Emaneuele Foieni e Alessandra Calzolaio per le foto.

Se vi interessa scaricare l’articolo per farlo leggere a chi non usa la rete lo potete fare qui: Diversamente genitori

 

Benin 2012Una mia collega, a seguito di una discussione sull’orario di lavoro, mi ha fatto pensare a quanto possa essere gravoso assumersi la responsabilità di determinare aspetti della vita altrui.

Sono coordinatore di servizi complessi in campo socio sanitario e mi capita, quotidianamente, di gestire una quota di potere che l’organizzazione ed il ruolo mi affida. Talvolta questa gestione incide significativamente nell’organizzazione di lavoro e di vita dei colleghi , come degli ospiti o delle loro famiglie.

Forse mi piacerebbe trovare qualcosa di eroico in ciò: Il duro lavoro che qualcuno, per fortuna, ha il coraggio di  svolgere; una sorta di ricompensa narcisistica per la fatica di affrontare conflitti e sentirsi quello “non buono”, ma senza il quale le cose non funzionerebbero.

Una tesi che , pur su una scala più grande, rischia di assomigliare a quanto sostenuto nei secoli dai despoti, sedicenti illuminati. Il frutto di una visione paternalistica nella gestione del potere.

Tuttavia credo che se esiste un aspetto significativo in questa questione, possa essere semmai quello di saper accogliere le conseguenze sulla propria  vita, delle scelte che compiamo su quelle altrui.

Fuori dalle ipocrisie della negazione del potere all’interno delle relazioni, aspetto su cui la categoria degli operatori sociali indulge troppo spesso,  trovo nella questione  oltre ad un risvolto squisitamente morale, un dato  intimamente legato a come soggettivamente ci poniamo nel lavoro di cura ed educativo.

In un certo senso mi sembra che possa parlare di quanto siamo pronti ad apprendere sulla questione del potere che ci troviamo a gestire.

Se Freire ci rammenta che” gli uomini si educano a vicenda in un contesto reale”, resta da capire che tipo di apprendimento può determinare una relazione di potere in chi ne rappresenta la parte prevalente, almeno dal punto di vista sostanziale.

In un certo senso, la gestione del potere è come una cartina di tornasole che evidenzia quanto nel determinare un cambiamento dell’altro, ci adoperiamo per permetterci la possibilità di cambiare noi stessi ed in particolare, il rapporto tra il nostro ruolo e la capacità di determinare il mondo e le relazioni intorno a noi.

Il paradosso è che per antonomasia, la condizione dell’avere potere dovrebbe favorire la capacità di mutare il nostro rapporto con questa facoltà, fornendoci una quota suppletiva di libertà. In realtà spesso la cartina vira sul rosso, se nella gestione del potere non sentiamo l’urgenza di capire come questo ci determini a sua volta, mutando le relazioni attorno a noi e la conoscenza  che abbiamo di noi stessi. Senza sentire questa impellenza, rischiamo di produrre una reificazione della propria posizione dominante, che ci allontana dal sentire la responsabilità delle nostre azioni sugli altri.  Assumere la fatica di questo lavoro permette perlomeno di rendere dinamica la nostra relazione con quello spicchio di potere che in un modo o nell’altro deteniamo, evitando di oggettivarlo , rendendolo immutabile e quindi rendendocene via via più indifferenti.

Non credo esistano soluzioni definitive , se non il lasciare sempre aperto il cantiere sul come avremmo potuto fare, e come potremmo fare diversamente la prossima volta. Non può risolversi una volta per tutte proprio perché accettiamo che nella relazione  c’è sempre qualcosa che ci educa, ci trasforma, in modo reciproco.

Nel processo Heicmann , come ci ricorda Hannah Arendt, la banalità del male lungi dall’essere legata ad una disposizione dell’animo  si è costruita sull’inconsapevolezza del significato delle proprie azioni e sulla lontananza dalla responsabilità del reale.  Heicmann , fino all’ultimo è sembrato non comprendere, cosa gli si imputasse: in quanto uomo, lontano dallo stereotipo dell’aguzzino, aveva solo osservato con buon senso le disposizioni e le leggi del reich, ed  osservare le leggi e l’autorità è generalmente considerato una buona cosa. Questa incapacità di implicarsi è ciò che reifica il potere, e si traduce spesso nella meccanica adesione a procedure amministrative, anche quando servono una macchina di morte.

Pur in contesti fortunatamente meno drammatici, anche noi ci troviamo nei servizi a gestire la responsabilità del potere sull’altro. Spesso in modo silente, giorno dopo giorno possiamo determinare traiettorie di vita, che solo con leggerezza possiamo non considerare. Questo riguarda ogni ruolo, anche di chi non ha incarichi di direzione. Non vale a diminuirne il significato, il fatto che molto spesso ( e per un verso, fortunatamente) i cosiddetti utenti dei dispositivi educativi/ riabilitativi risultino essere alquanto recalcitranti ,anche se sovente attraverso forme dolorose, agli ideali di formazione dei servizi e di chi vi abita.

Al contrario evitare di accogliere le conseguenze sulla propria vita delle scelte e delle valutazioni che compiamo sugli altri , realizza una operazione di depotenziamento professionale e di ruolo di cui poi risulta difficile lamentarsi.

Significa infatti determinare un rapporto con il proprio potere/poter fare/poter determinare che nel peggiore dei casi ci rende via via più autoritari , nel migliore più ininfluenti

La cognizione della gravità delle decisioni che compiamo sugli altri infatti, non è solo una questione della responsabilità che ci prendiamo, ma misura anche il valore che attribuiamo al nostro lavoro richiedendo  ogni volta di mettere a repentaglio la nostra autorevolezza con conseguenze non sempre prevedibili sulla nostra vita professionale

Il percorso di consapevolezza che, attraverso la relazione con l’altro, ci porta a comprendere la nostra relazione con il potere, pur se faticoso e pericoloso per i nostri equilibri, risulta un imprescindibile presupposto per avere la speranza che il nostro lavoro possa favorire quelle condizioni in cui le persone possano trovare una propria strada per emanciparsi, anche da noi e dai nostri servizi. Un obiettivo per cui, mi sembra, valga ancora la pena fare il nostro lavoro.

Articolo di Massimo Vicedomini.

La foto è di Marco Bottani (sito)

Rho

Quando ho letto il post di Fabrizio mi son posto due domande, entrambe trovano parziale risposta nel post di Andrea (che ringrazio), che potrete leggere sotto.

La prima domanda è: Ma come funziona il Baskin, che regole ha? Come riesce a valorizzare le differenti competenze e abilità?

La seconda domanda è relativa alla rapporto tra disabilità, competizione e agonismo.  Mi son chiesto: Possibile che anche in ambito “protetto”, in cui l’obiettivo principale parrebbe l’ inclusione delle competenze si parli di competizione, vittorie e risultati?

Possibile si, perché non dovrebbe essere così? Forse solo perché a tirare a canestro ci son persone con disabilità? Un ragazzo in carrozzina non ha il diritto di desiderare la vittoria?

Quanti preconcetti accompagnano le persone con disabilità.

La mia domanda si fonda su un preconcetto, tra l’altro pure di stampo discriminatorio e decisamente “buonista” (“Orrore”).  Il pensiero retrostante è che le persone con disabilità non si possano permettere di provare gli stessi sentimenti di un giocatore professionista. Come se la disabilità dovesse, in automatico, modificare il senso e il valore di una partita di basket. Questo è ovviamente un pensiero che non aiuta l’inclusione, che si sofferma solo sulle differenze e le banalizza, un pensiero che non tiene conto delle somiglianze e perde di vista, soprattutto, il contesto dentro cui si svolge l’incontro tra le persone. E’ un pensiero prigioniero degli schemi che sottolineano le mancanze e i limiti e non le opportunità, la forza e la potenza nascosta in alcuni giochi di squadra.

Ho sentito che fosse necessario fermare il pensiero che mi aveva attraversato. Alcuni pensieri vanno analizzati e approfonditi, perché rischiano di farci perdere di vista il reale senso di alcuni incontri. La domanda che mi son fatto, il pensiero retrostante e il preconcetto emerso nell’analisi, si concentrano tutti sulla disabilità perdendo di vista la persona e ciò che sta facendo.

Se avessi lasciato scorrere il pensiero, avrei perso l’occasione di riflettere su una delle competenze più importanti che si possono sviluppare grazie al Baskin, ovvero: imparare a costruirsi un buon rapporto con le vittorie e le sconfitte. D’altro canto, anche io ho imparato a perdere proprio grazie alla innumerevoli batoste subite nella mia ventennale carriera cestistica e non serve raccontare, quanto questa competenza mi sia stata utile nella vita, successivamente.

Il baskin è uno sport, con regole differenti, ma in cui uno degli obiettivi rimane, si gioca per vincere. Quindi, bando alla chiacchere, alziamo la palla e che vinca il migliore!

Buona lettura. Christian.

Erica al tiroBaskin . Alta tensione evitabile?                                       di Andrea Brunelli

Se vai a vedere una partita di Baskin o giochi una partita amichevole probabilmente rimarrai stupito dal clima di festa sugli spalti e dal fair play in campo.

In campionato le cose in campo cambiano. Perché tutti vogliono vincere e il Baskin soffre dei battibecchi tipici di tutti gli sport: “era fallo”, “era mia”, “era fuori” …(e meno male che non c’è il fuorigioco!). In più ha delle polemiche specifiche, di solito i motivi di attrito sono sulle deleghe* e sui ruoli**.

Se aggiungi che non c’è una classe arbitrale vera e propria ma che è la squadra di casa che deve fornire un (e di solito un solo) arbitro, e che magari c’è qualche vecchia ruggine tra le squadre, ecco che gli ingredienti una situazione incandescente ci sono tutti.

Il fischio di inizio rischia di coincidere con l’accensione della miccia.

Cosa succederà ? E’ inevitabile che la scintilla percorra tutta la sua serpentina ?

Dipende. Forse no. Di solito no.

Ci sono almeno tre fattori che abbassano la tensione.

Primo. Nel Baskin ogni squadra ha giocatori maschi e femmine per regolamento. Ogni squadra ha giocatori forti (si spera) e meno forti. Ci sono i cosiddetti normodotati e persone con qualche handicap. Questa combinazione di persone diverse sposta il baricentro dalla competitività esasperata verso qualcosa di inedito: il Baskin appunto.

Secondo. Nel Baskin c’è la bella abitudine di applaudire il tiro del pivot proprio e avversario che faccia o meno canestro. Il pivot è quel ruolo che gioca in un’area semicircolare protetta posta sulla linea laterale all’altezza della metà campo. Ha 10 secondi per effettuare un tiro da 2 o 3 punti. Da un punto di vista agonistico, il pivot avversario è l’ultimo giocatore da incoraggiare poiché di solito sono i punti dei pivot che determinano il risultato finale della partita. Ma in quell’applauso ci si ricorda che il Baskin non è uno sport come gli altri. Si applaude allo sforzo, all’impegno e all’abilità di uno per applaudire lo sforzo, l’impegno e l’abilità di tutti. Inoltre il tiro del pivot è un momento particolare della partita, il preferito dal pubblico: è quasi come un rigore nel calcio. Qualche secondo in cui compagni, avversari e pubblico sono sospesi insieme a guardare la cosa più bella e semplice di questo sport: vedere se la palla entra nel canestro. Insomma quel tiro unisce le due squadre e il pubblico.

Poi finito l’applauso, nemici come prima fino al fischio finale.

Terzo. Siccome le squadre sono miste, gli spogliatoi non sono divisi in locali – ospiti, ma maschi di qua – femmine di la. Quindi a fine della partita ti ritrovi nello spogliatoio proprio con quel tizio con cui magari hai avuto una scaramuccia in campo. Ma qui hai un’opportunità unica di fare due chiacchere e stemperare gli animi. A me è capitato durante una partita in cui avevo subito parecchi falli ed avevo chiesto di uscire prima della fine perché sentivo che ero troppo nervoso. Negli spogliatoi ho iniziato a parlare col mio marcatore (stretto) e ho trovato una persona buona che mi ha raccontato di quando giocava a basket, di come ha iniziato a giocare a Baskin con suo figlio disabile…insomma è stato un momento in cui ho potuto vedere la cose da un’altra prospettiva. Tutt’oggi quando ci affrontiamo ci salutiamo con cordialità.

Nel Baskin, come in qualsiasi sport, l’alta tensione è sempre in agguato.

Come sarà la prossima partita ? No lo so, dipende da noi.

Ogni squadra è come un vascello nei caraibi con una polveriera nella stiva: se vuoi goderti la vacanza tieni a bada la tua polveriera.

Ogni squadra la propria!

Auguri !

* La delega consente all’allenatore di chiedere ed ottenere che il proprio pivot possa tirare da più vicino rispetto alla distanza fissata dal regolamento. Di solito la si chiede per quei giocatori che non hanno il tiro abbastanza lungo per arrivare al canestro. Se poi un pivot ha percentuali di realizzazione superiore al 90%, ti chiedi se la delega fosse necessaria.

** L’allenatore assegna un ruolo ai propri giocatori in base alle loro abilità. Un giocatore forte avrà ruolo 5. Uno meno forte il ruolo 4, ecc. Il regolamento impone più limitazioni ai ruoli più forti :a d esempio non possono difendere sui ruoli più deboli. Schierare un giocatore forte come un 5 con il ruolo 4 da dei notevoli vantaggi alla propria squadra, ma è scorretto.

Se volete seguire la squadra ecco il link della pagina Facebook del Baskin Rho.

baskin 1Dicembre 2014

L’azienda per cui lavoro affida il confezionamento dei regali per clienti e dipendenti ad AGDP Onlus, associazione impegnata nel costruire insieme a ragazzi con Sindrome di Down un futuro di dignità e di autonomia professionale. Durante un pranzo organizzato con questi ragazzi, Martina, indubbiamente la “leader” della situazione, mi racconta i suoi programmi pomeridiani: “Oggi pomeriggio ho gli allenamenti di Baskin” dice con entusiasmo contagioso. “Di cosaaaa?” domando io, perplesso. “Il Baskin è uno sport come il basket, ma dove noi giochiamo insieme ai normodotati” risponde lei lasciandomi basito per la sua sorprendente padronanza del linguaggio.
Inutile dire che, raccolta la mascella, passo il pomeriggio in cerca di informazioni sul web. Mi imbatto così in un regolamento articolato, in qualche filmato sul tubo ma soprattutto nella pagina facebook del Baskin Rho. Bastano pochi click e a Gennaio eccomi pronto al mio primo allenamento di Baskin.
Siamo in una marea e ce n’è per tutti i gusti: normodotati che sanno (o pensano) di saper giocare a basket, normodotati alle prime armi e ragazzi con diversi gradi di disabilità fisica e/o mentale.
Dopo 20 minuti di esercizi vari finalizzati al coinvolgimento di tutti i giocatori, si inizia a far sul serio con la partitella. Si gioca 6 per parte, si attacca (e, almeno teoricamente, difende) sia nei canestri classici, sia in canestri di diversa altezza posti all’estremità della linea di metà campo. Il gioco così si sviluppa in maniera completamente diversa dal basket, senza il classico avanti e indietro.
Sono ovviamente disorientato, ma mi piace da matti, tutti giocano per vincere e per farlo si devono sfruttare le qualità di ogni persona, che indipendentemente dalla propria abilità, è chiamata a dare il suo fondamentale contributo.
Senza quasi rendermene conto, si arriva alla prima partita del campionato, che ci vede subito di fronte in un derby con il nostro settore giovanile (il che mi fa rendere conto che, a 33, sono ormai nella squadra dei “vecchi”). Vinciamo una bella partita di una ventina di punti, mi colpiscono in particolare:
– vedere il nostro giocatore/allenatore giocare contro i suoi due figli (uno dei quali in carrozzina) per lui è derby nel derby;
– su 56 punti totali, una buona trentina li hanno messi le persone con le disabilità più gravi (Marco, cecchino in carrozzina ed Erika, una ragazza con disabilità ma che dalla sua mattonella è più puntuale della rata del mutuo)
– sugli spalti più pubblico della maggior parte delle partite di Serie D che ho visto quest’anno, con applausi e incitamenti equamente distribuiti;
– a fine partita, foto di gruppo delle 2 squadre e grandi sorrisi per tutti.
Solo un paio di settimane di allenamenti e di nuovo in campo, questa volta a Cinisello contro le temibili “Pantere”, in una partita sentita da entrambe le parti per via di precedenti un po’ turbolenti.
Pronti via e perdiamo la bussola, lasciandoci andare ad evitabili proteste e ritrovandoci sotto 20 a 5 in un Amen. Ristabiliamo un minimo di calma ed incominciamo la lenta rimonta, che ci porta a vincere in volata 46 a 43, non senza qualche tensione in campo. Questa volta la mia attenzione è catturata soprattutto dall’intensità e dalla battaglia agonistica vista in campo, che da una parte evidenzia il carattere sportivo e competitivo di questo sport (quindi non “assistenzialista”), mentre dall’altra riporta a galla problemi e atteggiamenti che speravo di non trovare in un contesto almeno teoricamente “protetto”. E questo apre molto spazio per il dibattito su dove sia da porre il limite e quale sia il reale obiettivo dello sport a tutti i livelli.
Marco il cecchinoRimango altresì colpito dal costatare che Marco (il cecchino) ne ha messi 21, su 46… San Marco! L’indomani, 15 febbraio, è la giornata del Baskin a Cremona (dove questo sport è nato). 10 (DIECI) squadre della sola provincia di Cremona si affrontano in uno spezzatino domenicale con straordinaria cornice di pubblico e e partecipazione di cestisti di grido (uno su tutti, Daniel Hackett).
E questo è solo l’inizio…
I love this Game!
Articolo di Fabrizio Foglia