Archivio per marzo, 2015

Ovvero : Sono Gay, Sono Gay e tu pensi Ricchione” ( cit Gino e l’alfetta – Daniele Silvestri)

Ospito con grande piacere l’articolo di Riccardo. Perché credo che sia necessario, per chi si occupa di educazione, lavorare sui pregiudizi, sulle generalizzazioni, sulle banalizzazioni e sugli stereotipi. La tematica che poniamo oggi, ne è piena. Buona Lettura.

Christian S.

di Artigianamente
fear4«Quando ho capito che aleggiava lo spettro che il mio emendamento fosse un cavallo di Troia per consentire le adozioni ai gay — dichiara la senatrice del Pd Francesca Puglisi — ho preferito ritirarlo e salvare una legge che fa fare un importante passo avanti ai diritti dei bambini»

L’emendamento in questione prevedeva l’estensione dell’adozione alle persone single.

«Ritiro l’emendamento – ha concluso – perché so che l’ottimo a volte è nemico del bene e questa legge, se approvata, consente davvero di fare notevoli passi avanti in materia di diritti dei bambini».

Sia chiaro nulla è mai facile come sembra e non ritengo di aver approfondito a sufficienza la questione in modo da poter offrire il mio punto di vista. Questa vicenda ha però di certo contribuito involontariamente ad evidenziare  i diversi impliciti che sottendono al problema delle adozioni gay.

Mai fidarsi dei gay

Se solo fossimo sicuri che le coppie gay non facessero finta di essere single (cosa peraltro inevitabile già che non permettono loro di sposarsi), allora l’emendamento potrebbe essere anche approvato. Per ovviare alla questione basterebbe chiedere ai gay di fare un patto di ferro e di non camuffarsi da single, ma è una partita persa: sappiamo bene che sono talmente mefistofelici che pur di adottare i bambini si fingerebbero cuori solitari.

L’OMS ci aiuti

L’emendamento sarebbe approvabile se:

  • L’omosessualità venisse, finalmente, inserita nell’elenco delle malattie.
  • Il single, candidato alla adozione, fosse vincolato a presentare regolare certificato di buona salute.

D’altronde se l’omosessualità non è una cosa normale, dovremo pur catalogarla in qualche maniera e sottrarla dal limbo in cui vagola da tempo. Lo status di malattia le restituirebbe una collocazione certa e l’omosessuale potrebbe finalmente emanciparsi in termini di identità.

Salute

L’omosessualità se fosse una malattia sarebbe trasmissibile.

Infatti è risaputo che anche la sola assidua frequentazione – figuriamoci una famiglia con genitori gay – induce tendenzialmente alla omosessualità.

Moralità

La trasmissibilità magari non avviene in forma meccanica e deterministica ma possiamo pur dire che certo crea un ambiente favorevole allo sviluppo della omosessualità o, comunque, più permissivo sul tema della omosessualità.

L’omosessualità è perlomeno immorale e se anche una coppia gay magari non dovesse trasmettere il seme della omosessualità di certo non educherebbe a condivisibili principi morali di base.

D’altronde i gay sono anche un po’ tutti pedofili. Non per niente non è il caso nemmeno che insegnino nelle scuole primarie.

Educazione

La coppia genitoriale è un modello che il figlio apprende e riproduce. Le coppie gay vengono ritenute capaci di riprodurre modelli genitoriali positivi. Si collocano quindi tra le più competenti sul piano della genitorialità.

Oppure la famiglia gay offre un modello negativo. Come tutte le coppie devianti induce a deviare diventando omosessuali o anche solo delinquenti in genere.

Oppure offre un modello negativo. Nel senso che crea traumi poiché il figlio non distingue più ciò che è normale e ciò che non lo è.

O perlomeno un modello che desta problemi. Infatti non può che creare disagio o a traumi poiché il figlio è comunque costretto a fare una fatica in più che data la sua storia dovremmo evitargli

In generale, poi  anche senza avere chissà quale storia alle spalle, ma perché mai un figlio dovrebbe occuparsi di fare anche i conti con il disagio che produce la frequentazione quotidiana di genitori gay, ha già i suoi di problemi!!

Anormalità

Il figlio adottivo ha diritto a ristabilire un quadro di normalità genitoriale.

L’omosessualità anche se fosse tollerabile, una questione di gusti o una qualche categoria dell’essere certo non è normale. Il figlio adottivo però ha diritto a ristabilire un quadro di normalità genitoriale. E’ una questione algebrica: i genitori naturali sono due e sono “Più” e “Meno”. Tutta la numerazione successiva deve sempre essere pari e composta da due opposti. Come abbiamo imparato a contare le capienze delle chiavette usb.

La legge è uguale per tutti

Certo “Chi sono io per giudicare un gay” sia pure, quando si tratta di argomenti quali l’educazione e la famiglia, la questione si fa delicata, qualsiasi incertezza, qualsiasi dubbio, diventa sufficiente ad emendare altri punti di vista, altre ragioni, anche quelle del diritto. La legge è uguale per tutti ma alcuni sono più uguali di altri.

 gay1Dov’è il problema?  

Per aiutare provo ad articolare la domanda:

Cosa rende me, eterosessuale, migliore di un omosessuale?

Cosa rende me, eterosessuale, più genitorialmente competente di un omosessuale?

Cosa rende me, eterosessuale, meno perturbante di un omosessuale?

Benin 2012Una mia collega, a seguito di una discussione sull’orario di lavoro, mi ha fatto pensare a quanto possa essere gravoso assumersi la responsabilità di determinare aspetti della vita altrui.

Sono coordinatore di servizi complessi in campo socio sanitario e mi capita, quotidianamente, di gestire una quota di potere che l’organizzazione ed il ruolo mi affida. Talvolta questa gestione incide significativamente nell’organizzazione di lavoro e di vita dei colleghi , come degli ospiti o delle loro famiglie.

Forse mi piacerebbe trovare qualcosa di eroico in ciò: Il duro lavoro che qualcuno, per fortuna, ha il coraggio di  svolgere; una sorta di ricompensa narcisistica per la fatica di affrontare conflitti e sentirsi quello “non buono”, ma senza il quale le cose non funzionerebbero.

Una tesi che , pur su una scala più grande, rischia di assomigliare a quanto sostenuto nei secoli dai despoti, sedicenti illuminati. Il frutto di una visione paternalistica nella gestione del potere.

Tuttavia credo che se esiste un aspetto significativo in questa questione, possa essere semmai quello di saper accogliere le conseguenze sulla propria  vita, delle scelte che compiamo su quelle altrui.

Fuori dalle ipocrisie della negazione del potere all’interno delle relazioni, aspetto su cui la categoria degli operatori sociali indulge troppo spesso,  trovo nella questione  oltre ad un risvolto squisitamente morale, un dato  intimamente legato a come soggettivamente ci poniamo nel lavoro di cura ed educativo.

In un certo senso mi sembra che possa parlare di quanto siamo pronti ad apprendere sulla questione del potere che ci troviamo a gestire.

Se Freire ci rammenta che” gli uomini si educano a vicenda in un contesto reale”, resta da capire che tipo di apprendimento può determinare una relazione di potere in chi ne rappresenta la parte prevalente, almeno dal punto di vista sostanziale.

In un certo senso, la gestione del potere è come una cartina di tornasole che evidenzia quanto nel determinare un cambiamento dell’altro, ci adoperiamo per permetterci la possibilità di cambiare noi stessi ed in particolare, il rapporto tra il nostro ruolo e la capacità di determinare il mondo e le relazioni intorno a noi.

Il paradosso è che per antonomasia, la condizione dell’avere potere dovrebbe favorire la capacità di mutare il nostro rapporto con questa facoltà, fornendoci una quota suppletiva di libertà. In realtà spesso la cartina vira sul rosso, se nella gestione del potere non sentiamo l’urgenza di capire come questo ci determini a sua volta, mutando le relazioni attorno a noi e la conoscenza  che abbiamo di noi stessi. Senza sentire questa impellenza, rischiamo di produrre una reificazione della propria posizione dominante, che ci allontana dal sentire la responsabilità delle nostre azioni sugli altri.  Assumere la fatica di questo lavoro permette perlomeno di rendere dinamica la nostra relazione con quello spicchio di potere che in un modo o nell’altro deteniamo, evitando di oggettivarlo , rendendolo immutabile e quindi rendendocene via via più indifferenti.

Non credo esistano soluzioni definitive , se non il lasciare sempre aperto il cantiere sul come avremmo potuto fare, e come potremmo fare diversamente la prossima volta. Non può risolversi una volta per tutte proprio perché accettiamo che nella relazione  c’è sempre qualcosa che ci educa, ci trasforma, in modo reciproco.

Nel processo Heicmann , come ci ricorda Hannah Arendt, la banalità del male lungi dall’essere legata ad una disposizione dell’animo  si è costruita sull’inconsapevolezza del significato delle proprie azioni e sulla lontananza dalla responsabilità del reale.  Heicmann , fino all’ultimo è sembrato non comprendere, cosa gli si imputasse: in quanto uomo, lontano dallo stereotipo dell’aguzzino, aveva solo osservato con buon senso le disposizioni e le leggi del reich, ed  osservare le leggi e l’autorità è generalmente considerato una buona cosa. Questa incapacità di implicarsi è ciò che reifica il potere, e si traduce spesso nella meccanica adesione a procedure amministrative, anche quando servono una macchina di morte.

Pur in contesti fortunatamente meno drammatici, anche noi ci troviamo nei servizi a gestire la responsabilità del potere sull’altro. Spesso in modo silente, giorno dopo giorno possiamo determinare traiettorie di vita, che solo con leggerezza possiamo non considerare. Questo riguarda ogni ruolo, anche di chi non ha incarichi di direzione. Non vale a diminuirne il significato, il fatto che molto spesso ( e per un verso, fortunatamente) i cosiddetti utenti dei dispositivi educativi/ riabilitativi risultino essere alquanto recalcitranti ,anche se sovente attraverso forme dolorose, agli ideali di formazione dei servizi e di chi vi abita.

Al contrario evitare di accogliere le conseguenze sulla propria vita delle scelte e delle valutazioni che compiamo sugli altri , realizza una operazione di depotenziamento professionale e di ruolo di cui poi risulta difficile lamentarsi.

Significa infatti determinare un rapporto con il proprio potere/poter fare/poter determinare che nel peggiore dei casi ci rende via via più autoritari , nel migliore più ininfluenti

La cognizione della gravità delle decisioni che compiamo sugli altri infatti, non è solo una questione della responsabilità che ci prendiamo, ma misura anche il valore che attribuiamo al nostro lavoro richiedendo  ogni volta di mettere a repentaglio la nostra autorevolezza con conseguenze non sempre prevedibili sulla nostra vita professionale

Il percorso di consapevolezza che, attraverso la relazione con l’altro, ci porta a comprendere la nostra relazione con il potere, pur se faticoso e pericoloso per i nostri equilibri, risulta un imprescindibile presupposto per avere la speranza che il nostro lavoro possa favorire quelle condizioni in cui le persone possano trovare una propria strada per emanciparsi, anche da noi e dai nostri servizi. Un obiettivo per cui, mi sembra, valga ancora la pena fare il nostro lavoro.

Articolo di Massimo Vicedomini.

La foto è di Marco Bottani (sito)

educatore arroganteHo incontrato spesso gente arrogante nella mia vita. Ne ho incontrata da educatore, da studente e anche da cittadino.

Vedo gente arrogante tutte le volte che esco di casa, gente che sorpassa la coda nell’altra corsia e quando ti azzardi a farglielo notare, ha anche il coraggio di risponderti male.

Sono abituato ad averci a che fare, insomma.

Non riesco però a sopportare, tanto bene, l’arroganza del potere, né quando è connessa con il potere istituzionale né quando il potere si basa sul fatto che : ” sto meglio di te”, “ho studiato più di te “ oppure “ho un ruolo per te importante,”  o “ti sono necessario”.  Non riesco a sopportare chi abusa del proprio potere perché l’altro è debole, in difficoltà o in una situazione di marginalità.

Tempo fa una collega Assistente Sociale, mi racconta dell’incontro tra un’educatore e una madre.

Educatore: “Signora: …forse lei vede in me le competenze che non possiede.”

Ovviamente la Mamma in questione, non è stata in grado i difendersi e di dir nulla. Si è portata a casa, probabilmente, un grande senso di inferiorità e quella tipica sensazione che ti rimane quando sei vittima di un abuso di potere. Non è stata in grado di rispondere, anche perché, forse, mai si sarebbe aspettata un entrata di questo tipo da chi doveva essere lì ad aiutarla.

L’educatore in questione ha mostrato (anche e soprattutto nella incapacità di rileggere la durezza della sua “arrogante” comunicazione)  la mancanza di alcune competenze di base necessarie per svolgere le funzioni di aiuto, forse addirittura dei requisiti minimi per fare educazione professionale. Per fare educazione, prima (o accanto) alle competenze tecniche, servono competenze etiche, umane ed emotive. Bisogna possedere grande umiltà, rispetto e eccezionale attenzione nell’uso del proprio sapere e soprattutto del proprio potere.

La mancanza di queste competenze di base, purtroppo, vanifica anche le competenze tecniche e scientifiche.

Le vanifica perché le invalida e le tradisce.

Le vanifica perché un educatore arrogante è un educatore pericoloso. Perché facciamo un lavoro delicato, in cui mettiamo “le mani e la testa” nelle vite delle persone che accompagniamo. Perché non si può abusare in questo modo della posizione di forza che spesso ci troviamo a esercitare.

L’abuso del potere, è quindi,  un problema anche dell’educazione.

Se nell’articolo dell’ educatrice razzista ponevo una domanda, qui mi permetto un’affermazione: all’educatore arrogante non dovrebbe essere permesso di fare il suo lavoro, almeno fino a che che non decida di cambiare, di imparare ad essere un educatore.

La domanda, in questo caso è: come possiamo fermare gli educatori e le educatrici arroganti? 

Un caro saluto. Christian S.

Ps: Sabato sera, uscirà un’articolo di un collega proprio sul potere in educazione, vi consiglio di leggerlo.

La foto è di Marco Bottani (www.ibot.it)

Devo molto a Rosa, mia grande maestra di vita e al mondo dell’educazione professionale, che mi accompagna da ormai quasi vent’anni. In questo libro potete trovare entrambe le cose, alcune storie di educazione professionale e pezzi del pensiero di Rosa Ronzio, consulente pedagogica che per 25 anni, all’interno dello studio Dedalo di cui era co-titolare, ha formato tanti colleghi, compreso il sottoscritto.

Il labirinto dei destini incrociati è un libro utile per capire cosa vuol dire fare educazione professionale nei servizi alla persona. Un testo che aiuta a comprendere le fatiche, i pensieri e le domande che gli educatori e le educatrici affrontano mentre lavorano. Chi si occupa di educazione professionale si riconoscerà in molte di queste storie. Quindi, non posso che consigliarlo. Anche ai non addetti ai lavori, ovviamente.

Unico problema: non è in vendita diretta. Se lo volete, dovete contattate l’autrice (rosa.ronzio@gmail.com) e lei troverà il modo di farvelo avere, magari tramite uno dei tanti autori dei testi. Io ne ho qualche copia. Se vi serve, battete un colpo. rosa

Miti formativi

Pubblicato: marzo 6, 2015 in Sarno Pedagogia

Con grande piacere vi invito alla prima Conferenza Semiseria (ne seguiranno altre) organizzata dall’associazione Dedali, idee e reti di prassi pedagogiche. Per informazioni: info@dedali.it

Ringrazio Igor Salomone, per aver deciso di portare dentro l’associazione il suo ciclo di serate.

Dedali  Cartolina INVITO - FORMATORE CHI_ 11