Archivio per gennaio, 2012

Ospito, con grande felicità e per la prima volta, un articolo di una collega, grazie Alice.

Christian Sarno

di Alice Tentori

Uno dei tratti che contraddistingue il nostro tempo è l’onnipresenza della musica in ogni contesto quotidiano: è impossibile, nell’arco di una giornata di un qualsiasi mese di un qualsiasi anno, non imbattersi nelle note e nella voce di una canzone; possiamo incontrarla attraverso un ascolto casuale in radio, sullo schermo di una tv tramite un videoclip o una pubblicità, o ancora grazie ad un supporto audio predisposto.

Per cercare di cogliere una grammatica semantico-musicale che rappresenti la nostra contemporaneità, ci siamo soffermati in particolare sul messaggio della canzone italiana, come metodo privilegiato per osservare il contesto in cui viviamo. La società d’oggi è infatti caratterizzata da una forte alienazione e da un valore sempre minore del rapporto con sè stessi e la riconquista della capacità di riflettere su di sé, sulla propria storia e sulle proprie relazioni è diventata un esigenza primaria: la diffusione nel mercato mediale di un brano musicale consente così continue costruzioni di senso differenti di sè e del mondo circostante e, grazie ai brani musicali, è possibile interrogare l’esperienza del mondo riattivando la possibilità di vedere e scoprire nuove dimensioni di senso per liberare gli atti e i gesti quotidiani dalle incrostazioni che l’abitudine ha steso su di essi.

La canzone italiana può così «insegnare a guardare fissamente negli interstizi del mondo» e radicare l’educazione e la formazione in una materialità soggettiva ed oggettiva, diventando un campo potenzialmente formativo in grado di costituire oggetti di esperienza dotati di intenzionalità educativa: è solo individuando nei testi cantati un medium in grado di promuovere un attività di creazione di concetti che diviene possibile leggere gli snodi del nostro tempo per fermare presso di noi il presente, in vista di un altro futuro.

Con questo non vogliamo intendere che tutte le canzoni in tutto il panorama discografico italiano abbiano compiti educativi, ma semmai che l’educazione latente che essi in qualche modo disimpegnano sia sottoposta ad analisi e critica da parte delle scienze pedagogiche all’interno di una società videocratica.

Questa strategia non ufficiale del pensiero consente di far uscire la pedagogia dagli steccati istituzionali in cui è stata relegata affinchè torni a svolgere la sua funzione ontologica di “direzionare lo sguardo” e trasformare la realtà circostante per realizzare un mondo possibile e diverso dall’esistente.

L’esperienza del canto risulta perciò essere depositaria di un sapere inatteso che, per le peculiarità della sua logosfera, può aprire uno spiraglio nella rete globale del nostro tempo e dispiegare una reinterpretazione del testo contemporaneo partendo da quello che emerge da quest’approccio interpretativo. Se è vero che tutta l’esistenza di tutte le persone è potenzialmente interessabile dal pensiero e dall’azione dell’educatore professionale, è anche vero che le pratiche educative depositarie di un sapere calato dell’alto risultano essere oggi insufficienti per far fronte a questa crisi ecologica delle coscienze. Ecco allora che emerge sempre più la necessità di individuare una politica dell’educazione che posi lo sguardo anche in quelle zone misconosciute che stanno ai margini del sistema, ricche però di possibilità educative.

E’ solo utilizzando un “pensiero nomade” che sia in grado di inglobare il rimosso, il difetto presente nel cortocircuito della rete, che diviene possibile proporre un “educazione impensata”, in vista della costruzione di una Pop Pedagogia, la quale ricerchi il valore formativo presente nella popular culture e non perché, come si potrebbe affermare un po’ troppo frettolosamente, il mondo della cultura di massa è il nostro mondo, ma perché anche la pedagogia si trova immersa in questo contesto e deve prendere parte attiva alla sua trasformazione confrontandosi con la cultura pop attraverso giochi mentali che sappiano essere  “fughe di pensiero” in vista della costruzione di un altro presente.

Questo post si ispira ad uno dei capitoli della tesi di Laurea di Alice Tentori (tentorialice@gmail.com), che trovate linkata qui sotto, buona lettura …

L’Homo consumens e l’uomo artigiano

Si parla spesso di titoli, competenze, capacità e poi ciò che succede è che dietro al professionista, agli educatori professionali e agli insegnanti ci sono le persone , con le loro debolezze, le loro fragilità, le loro violenze e le loro ” brutture”.

Dietro e dentro i professionisti ci sono le loro voragini.

Ma di chi è la responsabilità di “osservare” le voragini  e di fermare il professionista?

ecco l’articolo…

http://brescia.corriere.it/brescia/notizie/cronaca/12_gennaio_30/anfo.asilochiuso-1903063474931.shtml

Forse alcune persone dovrebbero essere fermate prima.


Gennaio 2012, equipe educativa, scherzando con una collega sulle fatiche del nostro lavoro :

” …è un lavoro duro, ma qualcuno lo deve pur fare…”

Ho sempre pensato che il lavoro educativo fosse uno dei più bei lavori del mondo, certamente meno faticoso del lavoro in miniera (almeno fisicamente), più faticoso per la testa che per il corpo insomma. Ho sempre pensato (fin dal lontano nel 1996 ) che fosse il mio lavoro. Ho sempre pensato che per me, fosse meglio fare l’educatore che l’impiegato. Non vi è nulla di male, ovviamente, nel lavorare in posta o in uno dei tanti uffici sparsi sul territorio, ma io ho scelto altro, ho scelto di fare educazione.

Ho scelto di insegnare, sia quando faccio l”educatore, sia quando faccio il consulente pedagogico, insomma. Mi piace e mi alleggerisce, da un pò, attraversare entrambi i ruoli.

Ho sempre pensato che fosse un lavoro strano, artigianale, un lavoro complesso, prezioso, atipico, anomalo, un lavoro diverso dagli altri. Penso che sia un lavoro ingrato, sottopagato e spesso poco compreso (“…cosa fai nella vita, l’educatore, bello, ma di lavoro?…”).

Non è un lavoro eroico, ma è un lavoro difficile e faticoso.

Ho scelto di lavorare con chi mi paga e soprattutto con chi mi paga in modo equo, con chi paga le mie competenze e non i miei titoli, con chi paga, anche, la mia capacità di imparare. Ho scelto di lavorare con chi apprezza lo sforzo di ricerca che faccio dal lontano 1996, di lavorare con chi ha voglia di valorizzare ciò che porto nei gruppi di lavoro.

Ho sempre pensato che i lavori duri fossero “altri”, quelli in cui ci si sporcava letteralmente le mani (il minatore, il meccanico, il muratore, ecc) e in cui si faticava fisicamente. Mi sono accorto, nel corso del tempo,  che ci  si  può stancare anche di fare l’educatore. Ci si usura lavorando in comunità, facendo turni di 24 ore, anche fisicamente. Ci si usura ascoltando gli altri, ci si satura dei problemi che si accolgono, ci si stanca della violenza che si subisce, degli stipendi bassi, delle poche gratificazioni e soprattutto ci si stanca quando si smette di imparare.

Quando si smette di imparare, si smette di fare l’educatore. Quando si smette di imparare si rischia di non riuscire più a sopportare la fatica che il lavoro educativo ti chiede. Se si smette di imparare si smette di insegnare. Se si smette di insegnare si smette di essere utili e forse sarebbe meglio, a quel punto, pensare di cambiare lavoro.

Cambiare lavoro, a volte, non è una sconfitta, è una scelta di salute. Tornare ad imparare, se si vuole insegnare, è una necessità.

Christian S.