Archivio per la categoria ‘Consulenza Pedagogica’

Lo sguardo Geko è una metafora che userò oggi per definire un modo di guadare.

Uno sguardo che si ferma al primo livello di analisi, sfuggente, di superficie, frettoloso, che parte dall’idea che non ci sia altro da osservare, oltre il Geko stesso.

Non si cambia lo sguardo senza fatica, senza perdere ancoraggi e sicurezze, si cambia imparando a guardare altrove. Si perde lo sguardo Geko se ci si affida, se si approfondisce, se si prova ad osservare in modo differente, da altre angolature, con altri occhi. Anche con gli occhi degli altri.

E’ un modo di guardare che non accetta altri modi di vedere, altre posizioni, a cui sfuggono elementi di contesto, che si dimentica dello sfondo, che vede solo attraverso i propri occhi in una posizione stabile, statica, ferma. Uno sguardo che si mostra sicuro, definitivo, certo, ed invece è solo Geko.

Quello Geko è un punto di osservazione che non tollera dubbi, mira a rassicurare. Non prevede altro. E’ un punto di osservazione ad imbuto, applicabile sia nel lavoro che nella vita.

Lo sguardo Geko è quella modalità di osservazione che ti porta a concentrare la tua attenzione sull’assenza della zampa. Concentrarsi su ciò che manca sposta l’ottica dal Geko e riconduce la sua forza o la sua debolezza alla sua disabilità. Invece il Geko è il Geko. La sua disabilità è solo una parte di lui, non lo definisce.

Lo sguardo Geko è quello che rischia di farsi trascinare dalle emozioni che il Geko stesso ti produce. Se soffro perché mi dispiace vedere il Geko senza una zampa ne esalterò la forza, se invece mi genera rabbia urlerò conto la sorte o il dolo che hanno portato il Geko ad essere il Geko che è. In entrambi i casi mi dimenticherò che il Geko non è la sua disabilità o la sua forza. Il Geko è il Geko.

Rischia di essere Geka l’azione interpretativa, se giudichi la posizione del Geko, spiegandola attraverso la tua idea preconfezionata. Succede quando cerchi una teoria che confermi il tuo pregiudizio, in ambito psicologico si chiama Bias di Conferma. Dirai: il Geko è a testa in già perché è matto, magari proprio perché ha perso una zampa. Ma tu non lo sai quanto al Geko possa far piacere stare a testa in giù, magari. E in questo caso inoltre, non lo puoi nemmeno chiedere perché il Geko non risponde a questo tipo di domande.

E’ uno sguardo Geko, infine, quello che ti conduce a non accorgerti che il Geko è chiuso dentro un teca, in un ambiente artificiale, strumentale solo a farti vedere il Geko, che essendo educato si mostra senza pudore. Noi, nel frattempo, perdiamo il contesto, presi ad osservare ciò che manca, convinti che non ci sia altro, scambiando il valore della parzialità con il rimanere in superficie.

Succede con le persone che arrivano da altre terre, guardate in modo superficiale, dove le storie, i bisogni, le sofferenze diventano ingombro, migrante uno, migrante l’altro, punto e a capo. Succede che ci fermiamo lì, per stanchezza, per semplificazione, per non rischiare di scoprire, magari, cose che non vorremmo sapere.

Siamo vittime dello sguardo Geko se cerchiamo di semplificare un mondo complesso, indisponibili a cambiare posizione di osservazione. Ci innamoriamo di uno sguardo. Lo sguardo Geko è complesso da trasformare anche per questo, perché tende ad innamorarsi della propria visione del Geko stesso. Tende ad esaltarla, raccontandoci di quel Geko che rimane attaccato ad un vetro a testa in giù, con una zampa sola. Ne racconta le gesta in modo eccessivo, costruito, creandone un racconto finto, artificiale, quasi cinematografico. Ma il Geko, intanto, continua ad essere in una teca.

Lo sguardo Geko si può trasformare, ma serve uno spazio per farlo. Uno spazio fisico dove formare uno sguardo ampio, dove si possano moltiplicare le posizioni e le angolature di osservazione. E’ uno spazio formativo. Potrebbe essere quello di una supervisione pedagogica o psicologica, di una consulenza individuale, ma è anche uno spazio mentale, personale, una predisposizione. Per trasformare lo sguardo Geko in altro serve la necessità di creare spazi nuovi, serve spazio vuoto e la forza di poter mettere in discussione ciò che si vede. Serve il coraggio di provarci, di abbandonare porti sicuri per provare sguardi nuovi, meno rassicuranti.

E’ per questo che sono così felice quando riesco a condurre spazi di supervisione. Percorsi come quelli che ho avuto la fortuna di attraversare negli ultimi due anni, con due gruppi di educatori che hanno provato a trasformare il loro sguardo Geko, come io ho provato a trasformare il mio, mentre lavoravamo sul loro.

Son felice quando incontro educatori ed educatrici che hanno fame di lavorare sul loro sguardo Geko, che ti chiedono di farlo e che faticosamente ti permettono di entrare. Son felice quando trovo genitori che chiedono uno sguardo altro sui figli, perché sento che hanno voglia di provare a cambiare lo sguardo sul loro piccolo o grande Geko.

Per questo gli spazi di supervisione e formazione in ambito educativo non possono mancare, mai.

Sono un professionista fortunato, perché lavorare sui processi di cambiamento degli altri ti permette anche di incontrare gente così. Educatori e educatrici consapevoli di rischiare lo sguardo Geko e di doverci lavorare.

Negli ultimi tempi mi succede una cosa strana: quando incontro, anche in rete, uno sguardo Geko, mi chiedo quanto anche il mio sguardo stia rischiando di esserlo. Non sapete quanto questa domanda aiuti a tener vivo il desiderio di trasformarsi, continuamente.

Christian S.

Sono sempre stato affascinato dal mondo del Rugby. L’immagine e i racconti che emergono, anche dai genitori, ne restituiscono l’idea di un luogo differente. Uno mondo che pare mantenere alcuni valori di fondi che hanno sempre contraddistinto lo sport. Fatica, sudore, lealtà, competizione, vittorie, sconfitte ma soprattutto  lotta dura in campo e abbracci alla fine della partita. Elementi che sembrano sintetizzarsi bene nel Rugby, dove in campo i ragazzi si placcano rotolandosi a terre a poi finiscono a mangiare insieme durante quello che viene chiamato “Terzo tempo” (momento istituzionalizzato, in cui le due squadre, a fine partita, mangiano insieme, mischiate). Incontro il mondo del Rugby in rete, ne leggo le storie, i commenti e soprattutto i pensieri dei genitori. Me ne arriva notizia anche da alcuni colleghi educatori, mi piace. Forse ne subisco anche il fascino, anche perché da amante degli sport di squadra son sempre alla ricerca di un nuovo amore. Un amore che compensi la delusione che deriva dalla sensazione che altri sport (il calcio in primis) abbiano smarrito completamente il valore originario. Genitori che urlano dagli spalti cose inascoltabili contro bambini di altre squadre, sguardo individuale che sposta l’interesse solo sul proprio figlio e sulla possibilità o necessità che diventi un campione. Smarrimento del valore dello sport di squadra. Incapacità di stare dentro il proprio ruolo e di tollerare che altri (gli allenatori) possano decidere per tuo figlio anche perché magari ne sanno più di te. Il rugby invece mi restituisce un’immagine differente. Forse perché è uno sport di nicchia, forse perché anche io subisco il preconcetto (positivo) che gira intorno a questo sport, forse perché è ancora uno sport che pare rimanere ai margini rispetto al mondo del Business.

Poi lo incontro direttamente, il Rugby.

Incontro il RugBio. Associazione sportiva che pratica il Rugby sociale. Lo incontro perché il presidente della società mi chiede di fare una formazione per i loro allenatori, che lui chiama Educatori. Quando Incontro Alessandro Acito mi accorgo che ciò che mi racconta mi piace. Mi ferma quando provo ad elogiare il Rugby raccontandomi del preconcetto che avvolge il Rugby tutto. Mi spiega che anche li troverò alcune deformazioni sportive che di solito si trovano sugli spalti di altri sport, che anche lì troverò qualche dopato, qualche genitore che non si tiene, qualche condizionamento da fama facile. Già, perché se, come genitori abbiamo maturato un modo maldestro di approcciare agli sport, nulla diventa esente, nemmeno il Rugby ovviamente. Mi racconta anche di altro però. Mi spiega di come hanno deciso di provare ad usare il Rugby, in quali quartieri, con quali ragazzi e ragazze e soprattutto mi racconta cosa chiede ai suoi Educatori. Ecco che torna. Niente allenatori, educatori. Mi dice che vuole che siano formati, che ci tiene che sappiano cosa fare con i ragazzi. Sembra interessato soprattutto all’impatto educativo del lavoro in campo. Sembra che in primo piano, in sintesi, ci siano la questioni educative. Ovviamente la cosa non può che piacermi. Sia perché è il mio lavoro sia perché, almeno per i ragazzi e le ragazze, lo sport dovrebbe essere un’esperienza educativa, prevalentemente. Di questo sono convinto da sempre. Un’esperienza dove si imparano le tecniche di quello sport (didattica) ma soprattutto dove si imparano cose utili per la vita tutta (educativa). Il vecchio binomio didattica ed educazione che torna in primo piano. Quel binomio su cui dovrebbe tenere lo sguardo forte anche la scuola, magari provando ad orientarsi maggiormente sul valore educativo dell’esperienza scolastica, perché il valore dell’esperienza didattica, mi sembra, in generale, discretamente presidiato. Perché educazione e didattica non si possono distinguere, separare, perché si impara meglio se ci si riconosce nella relazione con gli insegnanti, con i propri compagni e soprattutto se si riconosce il valore, per la propria vita, di ciò che stiamo imparando. Orientando lo sguardo sul valore educativo dell’esperienza scolastica aiutiamo i nostri ragazzi a sperimentare e costruire relazioni significative con altri adulti al di fuori della famiglia. Li aiutiamo a costruire competenze relazionali utili e spendibili immediatamente, insomma.

Qualche settimana dopo, con grande curiosità incontri gli allenatori, che io mi ostino a chiamare così. Condizionato dalla mia esperienza, dal mio modo di vederli, da come li ho visti nella mia lunga carriera di giocatore di basket. Per me sono allenatori. Per Alessandro, Educatori e Educatrici. Quando li incontro capisco perché. Capisco perché lui ci tiene a chiamarli così, capisco come li ha scelti, capisco che davanti c’è l’educazione dei ragazzi, la capacità di imparare a stare insieme, la gestione dei fallimenti, il lavoro di squadra, la lealtà, l’uso corretto della forza. Incontro un gruppo di uomini e donne interessati ad imparare, la formazione va via veloce, bella e fluida. Tante domande, affondi, mi accorgo che sposto in alto anche l’asticella dei contenuti che porto. Mi accorgo che la formazione assomiglia sempre di più alle formazioni che faccio per gli Educatori Professionali. Ora capisco perché Alessandro li chiama così.

Mi innamoro. Son fatto così. Formare un gruppo di Educatori del genere mi fa bene. Mi vien voglia di rincontrarli (facciamo due incontri) e di progettare spazi di formazione per e con loro. Mi vien voglia di mandarci mia figlia (che però oramai è innamorata del basket) e di mandarci i figli degli altri. Mi vien voglia di raccontare di loro. Su Fb e qui in questo articolo. Non solo perché mi piacciono, ma perché il valore di quello che portano è alto. Uno sport inclusivo (c’è spazio per tutti), in cui ci si sporca e si fa fatica. Uno luogo dove imparare soprattutto a gestire la propria aggressività, ad usare la propria forza, dentro vincoli e regole definite.  Uno spazio per imparare a vivere mentre si impara a giocare a Rugby.

L’ASD RugBio nasce nel 2014, lavora nei quartieri o nelle realtà dove spesso pare più complesso lavorare. Li trovi a Cusago, Quarto Oggiaro, Besate e Abbiategrasso. Li trovi Qui e su Facebook. Li trovi soprattutto in campo, belli, sporchi, pieni di lividi e felici. Li trovi, se hai voglia di cercarli.

Da più di un anno, lavoro con loro. Alcune delle cose che abbiamo fatto le potete trovate nel Blog che abbiamo aperto. Uno spazio condiviso con gli educatori e i genitori. Un blog degli adulti del RugBio.

Christian S.

educatore arroganteHo incontrato spesso gente arrogante nella mia vita. Ne ho incontrata da educatore, da studente e anche da cittadino.

Vedo gente arrogante tutte le volte che esco di casa, gente che sorpassa la coda nell’altra corsia e quando ti azzardi a farglielo notare, ha anche il coraggio di risponderti male.

Sono abituato ad averci a che fare, insomma.

Non riesco però a sopportare, tanto bene, l’arroganza del potere, né quando è connessa con il potere istituzionale né quando il potere si basa sul fatto che : ” sto meglio di te”, “ho studiato più di te “ oppure “ho un ruolo per te importante,”  o “ti sono necessario”.  Non riesco a sopportare chi abusa del proprio potere perché l’altro è debole, in difficoltà o in una situazione di marginalità.

Tempo fa una collega Assistente Sociale, mi racconta dell’incontro tra un’educatore e una madre.

Educatore: “Signora: …forse lei vede in me le competenze che non possiede.”

Ovviamente la Mamma in questione, non è stata in grado i difendersi e di dir nulla. Si è portata a casa, probabilmente, un grande senso di inferiorità e quella tipica sensazione che ti rimane quando sei vittima di un abuso di potere. Non è stata in grado di rispondere, anche perché, forse, mai si sarebbe aspettata un entrata di questo tipo da chi doveva essere lì ad aiutarla.

L’educatore in questione ha mostrato (anche e soprattutto nella incapacità di rileggere la durezza della sua “arrogante” comunicazione)  la mancanza di alcune competenze di base necessarie per svolgere le funzioni di aiuto, forse addirittura dei requisiti minimi per fare educazione professionale. Per fare educazione, prima (o accanto) alle competenze tecniche, servono competenze etiche, umane ed emotive. Bisogna possedere grande umiltà, rispetto e eccezionale attenzione nell’uso del proprio sapere e soprattutto del proprio potere.

La mancanza di queste competenze di base, purtroppo, vanifica anche le competenze tecniche e scientifiche.

Le vanifica perché le invalida e le tradisce.

Le vanifica perché un educatore arrogante è un educatore pericoloso. Perché facciamo un lavoro delicato, in cui mettiamo “le mani e la testa” nelle vite delle persone che accompagniamo. Perché non si può abusare in questo modo della posizione di forza che spesso ci troviamo a esercitare.

L’abuso del potere, è quindi,  un problema anche dell’educazione.

Se nell’articolo dell’ educatrice razzista ponevo una domanda, qui mi permetto un’affermazione: all’educatore arrogante non dovrebbe essere permesso di fare il suo lavoro, almeno fino a che che non decida di cambiare, di imparare ad essere un educatore.

La domanda, in questo caso è: come possiamo fermare gli educatori e le educatrici arroganti? 

Un caro saluto. Christian S.

Ps: Sabato sera, uscirà un’articolo di un collega proprio sul potere in educazione, vi consiglio di leggerlo.

La foto è di Marco Bottani (www.ibot.it)

Devo molto a Rosa, mia grande maestra di vita e al mondo dell’educazione professionale, che mi accompagna da ormai quasi vent’anni. In questo libro potete trovare entrambe le cose, alcune storie di educazione professionale e pezzi del pensiero di Rosa Ronzio, consulente pedagogica che per 25 anni, all’interno dello studio Dedalo di cui era co-titolare, ha formato tanti colleghi, compreso il sottoscritto.

Il labirinto dei destini incrociati è un libro utile per capire cosa vuol dire fare educazione professionale nei servizi alla persona. Un testo che aiuta a comprendere le fatiche, i pensieri e le domande che gli educatori e le educatrici affrontano mentre lavorano. Chi si occupa di educazione professionale si riconoscerà in molte di queste storie. Quindi, non posso che consigliarlo. Anche ai non addetti ai lavori, ovviamente.

Unico problema: non è in vendita diretta. Se lo volete, dovete contattate l’autrice (rosa.ronzio@gmail.com) e lei troverà il modo di farvelo avere, magari tramite uno dei tanti autori dei testi. Io ne ho qualche copia. Se vi serve, battete un colpo. rosa

loveRispondo ad un bel post di un collega e mi viene fuori una strana riflessione. La rileggo e mi piace. Potevo evitare di pubblicarla (con qualche leggera modifica) anche sul mio blog? Non ho potuto evitare. Buona lettura.

Se si vuol difendere la pedagogia si deve imparare a rispettare chi la pedagogia la fa, bene e con passione. Prescindendo dalla provenienza della sua competenza.

Chi la fa da pedagogista, da filosofo, da laureato in sociologia, in lettere, con il diploma di animatore sociale e di puericultrice. Rimettere al centro la pedagogia vuol dire rimettere al centro chi la fa. Chi ha imparato a farla e chi sta imparando. Chi la fa con competenza.

Dovremmo rispettare l’idea che fare educazione sia una delle cose più preziose che abbiamo. Rimettere al centro le educatrici dei nidi, che si sono formate con 35 anni di riflessioni e di lavoro sui bambini, domandandosi costantemente cosa fosse meglio per i nostri figli. Rispettare chi faceva educazione quando gli odierni pedagogisti nemmeno erano nati. Rispettare chi ha lavorato negli ospedali psichiatrici costruendo un ruolo, piano piano, con la passione di chi amava i “matti” e il proprio lavoro. Rispettare che avrebbe da spiegare delle cose ai docenti delle nostre università.

Dobbiamo rispettare la fatica che hanno fatto i nuovi educatori nel laurearsi e pretendere che non si fermino lì a guardare la loro laurea.

Rispettare le educatrici dei servizi per l’infanzia, che negli ultimi 30 anni si sono occupate di trasformare il loro ruolo da assistenziale ad educativo producendo materiale, idee e spunti utili per i nuovi pedagogisti. Rispettarle anche se non sono laureate.

Rispettare chi la consulenza pedagogica la faceva prima che le università si “inventassero” il biennio da consulenti pedagogici. Rispettare l’idea che la pedagogia non è stata inventata nelle aule universitarie, rispettare Don Milani e gli uomini e le donne che da anni portano avanti progetti educativi nei Quartieri Spagnoli o nelle favelas in Brasile senza titoli, onorificenze e senza portare a casa lo stipendio.

Io ho rispetto per la formazione universitaria. Rispetto chi ha studiato, letto, approfondito e amato i libri di pedagogia, anche se non lo ha fatto in università.

Rimettere al centro la pedagogia per me vuol dire difenderla dagli attacchi di chi non la sa fare a prescindere dalla provenienza della sua competenza, perché non c’è attacco peggiore di quello sferrato da chi forma senza passione, competenza ed attenzione.

Per rimettere al centro al pedagogia è necessario guardarla in modo aperto. E’ necessario non chiudersi in arroccamenti ideologici e preconcettuali. Per rimetterla al centro, in qualche modo, bisognerebbe guardarla con amore.

Se la sui vuol difendere converrebbe occuparsi di proteggere chi la fa bene, perché questo è l’unico modo di dar valore alle competenze, ai titoli, alle passioni e alle storie professionali contemporaneamente.

L’unico modo di difendere la pedagogia è difenderne la qualità.

Io, comunque sia, preferisco rispettarla.

Christian S.

La foto , come sempre è di Marco Bottani ( http://www.ibot.it)