Archivio per la categoria ‘Formazione ed Educazione’

Leggendo la oramai famosa storia della studentessa bendata durante un’interrogazione in didattica a distanza (Dad), ho pensato alla docente ed a cosa ha perso.

Perché un gesto del genere, rompe, drammaticamente, ogni possibilità relazionale, sana, con gli studenti. E’ l’interruzione di ciò che di più caro c’è dentro il rapporto maestro/allievo, la frantumazione della relazione formativa come atto d’amore. Perché insegnare è anche questo si, un atto d’amore.

Quello che è successo non può che indebolire ogni forma possibile di apprendimento futuro. E non importa se i genitori siano o meno d’accordo con la scelta, rimane, per me, un atto violento, di prevaricazione, quello che in termini tecnici si chiama, per alcuni i ruoli di cura: “abuso di posizione dominante”. E attenzione, non importa nemmeno l’accordo con la studentessa. Un docente, un formatore, un educatore non dovrebbe accettare, mai, di porre i propri formandi in una condizione del genere. Punto.

Ho letto molti post e commenti su questa storia e mi son preso il tempo per rifletterci. Mi son preso il tempo per ragionarci perché non mi interessa puntare il dito sulla docente in questione. A giudicare il suo operato ci son già il dirigente scolastico e chi si occuperà di indagare su ciò che è successo. Io faccio altro nella vita e mi interessa porre l’attenzione sulle possibili radici e sulle conseguenze di un gesto del genere. Soprattutto da un punto di vista educativo.

Il problema, quando si decide di bendare una studentessa sta, secondo me, più sul piano etico, nell’idea di rapporto tra esseri umani che si ha in testa. Poi probabilmente ci son di mezzo anche alcune problematiche metodologiche e connesse con l’idea di didattica che si ha in mente, ma il problema è, secondo me, connesso con la propria formazione umana, prima che professionale.

Ha ragione, in questa direzione, chi si chiede cosa farebbe, in presenza, una docente che fa una scelta del genere, perché il problema non è mica la Dad, che ha solo reso visibile ciò che avviene, a volte, all’interno delle relazioni tra studenti e docenti. In cui non sempre le vittime sono gli adulti, prevaricati dai ragazzi.

Bendando una ragazza mentre la interroghi, danneggi il tuo rapporto con gli studenti (tutti, anche chi ha solo osservato la scena e magari ha riso dietro lo schermo). Fai, soprattutto, un danno al tuo ruolo, perché dopo una scena del genere perdi di credibilità, agli occhi della studentessa e forse anche agli occhi di compagni e compagne di classe. Bendandola danneggi la studentessa e il suo rapporto con l’apprendimento, stravolgendone completamente il senso e il valore. Stravolgi, inoltre, completamente il senso più prezioso dell’azione di valutazione.

Bendando una studentessa per interrogarla in Dad (didattica a distanza), metti sul piatto il tuo limite rispetto alla capacità di essere in contatto con l’altro e con le sue emozioni e questo è un problema grosso, se ti occupi di formazione. In questo senso ciò che è avvenuto mostra un problema decisamente più generale, una crepa tipica di chi smette di interrogarsi su ciò che fa. Un problema comune a tanti adulti che formano e che educano, non solo ai docenti, ovviamente.

Sia chiaro, dato che non voglio essere frainteso. A scuola (e negli ambiti formativi) ci sono, per fortuna, anche tantissimi docenti e formatori eccezionali, preparati e attenti. Adulti che continuano a studiare e a interrogarsi rispetto al senso del proprio intervento.

Nei ultimi tempi, parlando di insegnamento, mi capita sempre più spesso di percepire una sovrapposizione tra la capacità di passare una nozione e l’insegnamento stesso, che però necessità anche di molto altro.

Formare è una funzione che si porta dietro alcune fatiche, necessarie per far bene il proprio lavoro. Una delle fatiche più importanti è connessa con la capacità empatico/relazionale. Fatica che non tutti son disponibili a fare e che spiega, almeno in parte, perché alcuni docenti e formatori preferiscano occuparsi solo del passaggio della parte nozionistica. Dimenticandosi così che la didattica non può essere scorporata dalla capacità relazionale, se non con il rischio di invalidare e/o indebolire l’apprendimento stesso.

Parlo di fatica perché so anche quanto sia complesso, a volte, tenere insieme la costruzione della relazione educativa e il passaggio di conoscenze specifiche. Ma da qui non si scappa, perché è proprio dalla connessione di questi due aspetti che deriva il tipo e la forza dell’apprendimento che produciamo.

E’ l’antico binomio educazione e didattica, che si rompe, quando bendi una studentessa, come se il bisogno di “valutare” gli apprendimenti potesse passare sopra ad ogni cosa, asfaltando anche la relazione stessa con la ragazza. Si lede così, insieme alla dignità di una studentessa anche la dignità di uno dei lavori più importanti e delicati del mondo.

Un abbraccio a tutti i ragazzi e le ragazze, vittime invisibili di questa pandemia e a tutti quei docenti, formatori ed educatori che quando han visto la ragazza bendata hanno avuto un tuffo al cuore, perché han percepito che si trovavano davanti a qualcosa che non dovrebbe capitare mai, in una scuola, senza sé e senza ma.

Un grazie a Licia Coppo e Eva Pigliapoco, che mi hanno stimolato, a loro insaputa, questa riflessione.

Christian Sarno

Ieri avete perso. Male e in modo netto. Avete perso una partita che non potevate vincere. Perché alcune sconfitte son così. In alcuni casi non si vince, nemmeno se si dà il massimo, nemmeno se le altre sbagliano partita. Si perde e basta. E’ inutile girarci intorno, sarebbe solo un modo di prendersi in giro.

Allora bisogna partire da qui, dal senso del limite. Perché alcuni limiti si possono superare, altri invece vanno solo rispettati. Compresi e rispettati. Sia quando sono individuali, sia quando son collettivi. Inutile provare a scaricare sulle altre o a prendersi tutto. Il basket è uno sport di squadra e la valutazione deve essere complessiva. Ieri non si poteva vincere, ma si poteva giocare meglio, lottare, cosa che non è successa. Sulla vittoria non potevate fare nulla, su questo invece sì, è possibile lavorare. Forse dobbiamo tutti imparare a partire da ciò che si può fare e non da ciò che vorremmo.

I limiti si compensano, si superano e alcune volte si rispettano, soprattutto quando non sono possibili le prime due opzioni. Oggi è il giorno di imparare a rispettarli, ad accettare che oltre non si poteva andare, senza che ciò possa diventare un alibi, perché questo è il rischio.

“Papà son tropo forti, è inutile”. Invece no, non è inutile, dobbiamo solo cambiare l’obbiettivo. Non si gioca più per vincere, ma per dare tutto e farle faticare. Perché loro entreranno in campo convinte che sarà facile e starà a voi fargliela sudare, la vittoria. Perché vinceranno anche la prossima volta, probabilmente, ma devono guadagnarsela, devo sbucciarsi le ginocchia, lottare, anche se son più forti. Serve anche a loro.

Si giocherà per far meglio individualmente in modo che si faccia meglio insieme, per far meglio di ieri, per far tesoro di ciò che abbiamo imparato da questa sconfitta. Si giocherà per cercare di essere lì, se dovessero sbagliarla loro, la partita, questa volta. Perché è così che funziona lo sport, se gli altri sbagliano e non sei pronto, la perdi anche quando potevi vincerla. Si giocherà per capire se avete imparato a fare i conti con l’idea che ci possa essere una squadra più forte della vostra, una quadra che sembra imbattibile. Si giocherà per verificare che quello strano senso di inferiorità non vi immobilizzi, perché può capitare, come è successo ieri.

Serve figlia mia. Serve imparare a giocare mettendo in campo la rabbia e la delusione che ti porti a casa oggi, per imparare a soffrire ancora di più e spingersi oltre i propri limiti, perché finisca con un risultato differente, perché escano dal campo sorprese per come ci avete provato. Serve, sia a voi che a loro.

Ti ho chiesto come ti sentivi, mi hai risposto che eri dispiaciuta, che non eri felice, che non eri contenta di come avevi giocato e ne abbiamo discusso. Ho sentito e sento il bisogno di aiutarti a non perderti negli alibi, perché gli alibi non servono a nulla, se non a nascondersi dietro barriere che ti lasciano dove sei. E’ una questione di rapporto con il limite. Se lo conosci e lo rispetti, diventa un tuo alleato. Se invece non ci rifletti, rischi di andare a sbatterci contro continuamente, senza accorgerti che è inutile e che stai solo sprecando energie. Che la strada per uscire, in sintesi, è un’altra.

Imparare a studiare i tuoi limiti ti permetterà di spostare lo sguardo da ciò che non puoi fare a ciò che invece puoi cambiare. Ci saranno cose che potrai modificare, non sarà il risultato finale, sarà il tuo modo di stare in campo, di giocare, di prenderti le tue responsabilità. Il tuo modo di prendere le sconfitte, per esempio.

Ho perso anche io e quando ci son passato dentro, il nonno mi ha insegnato anche a riderci sopra. Mi faceva incazzare, lo ricordo bene, ai tempi, ma ad oggi credo di doverlo ringraziare. Se riesco, a volte, a prendere le fatiche quotidiane con leggerezza lo devo anche a lui e alla sua modalità dissacrante. Si chiamano eredità, nel bene e nel male.

Ci rideremo sopra, figlia mia, questo è sicuro, senza dimenticarci che insieme alla leggerezza, c’è un lavoro da fare sui limiti. Tuoi e delle tue compagne, perché se imparerai a portare rispetto verso i tuoi limiti, lo sarai anche con quelli di chi gioca con te. Se imparerai a lavorare sui tuoi, potrai aiutare anche gli altri a farlo con i loro.

Imparare a rapportarti con i tuoi limiti è un percorso complesso che non ti toglierà la sofferenza che le sconfitte si portano dietro ma ti aiuterà a dargli un senso, un valore e ti permetterà di andare a cercare cosa c’è dietro la sofferenza che ti provoca. Succederà se ti prenderai il tempo di rifletterci su, perché dalle sconfitte si impara poco, se le lasci solo passare. Perché le esperienze di per sé son esperienze, diventano preziose se ci mettiamo pensiero, anche se ci verrebbe più semplice archiviarle e passare alla partita successiva.

Se riusciremo a fare questo, ragazzina colorata, avremo fatto un gran passo avanti, insieme. Perché il rispetto dei limiti degli altri è ciò che ci permetterà di arrabbiarci di meno con loro, spostando l’attenzione verso ciò che possiamo fare, evitando di sembrare una palla che rimbalza contro il tabellone. Perché se la palla la tiri sempre nello stesso punto e con la stessa forza, il rimbalzo è sempre lo stesso. Perché come ti dico spesso, il tabellone è tuo amico, se sai come usarlo.

Se riuscirai ad accettare i tuoi limiti un giorno riuscirai ad accettare anche i miei e forse avremo vinto in due. Anzi, avremmo vinto sicuramente, entrambi.

Christian S.

6 dicembre 2018. Scuola per educatori professionale. Io la chiamo ancora così, son della vecchia guardia. In verità mi trovo davanti agli studenti e alle studentesse del corso di laurea per educatore professionale del Don Gnocchi. Aula bella e accogliente, un bel gruppo: 40 tra studenti e studentesse che frequentano il terzo anno del percorso di studi,  un gruppo di futuri educatori professionali, alcuni forse già in servizio.

Ho avuto spesso il privilegio di parlare del mio lavoro davanti agli studenti. Io con quel taglio sporco, meticcio, non sempre elegante. Non proprio un accademico, insomma. Ancora oggi mi chiedo cosa ci trovino gli altri di interessante nel mio modo di raccontare. Ma evidentemente c’è qualche cosa che funziona. In fondo è la stessa domanda che mi faccio quando scopro che ci son persone che leggono ciò che scrivo. E’ l’effetto di un percorso di studi zoppicante, in cui le restituzioni sulle competenze son state scarse e dove ho imparato ad affrontare soprattutto le fatiche. Le competenze le ho scovate da quando lavoro.

Mi invita Paola Eginardo, docente del corso di Metodologie dell’educazione professionale III (modulo scrittura professionale). Questa volta e per la prima volta, a parlare di scritture in rete e dei post che scrivo nei miei blog. Pare che a Paola piacciano e invita a parlare di scrittura uno che con la scrittura litiga e ha litigato da anni. Ma lei non forse non lo sa, perché ciò che vede è il risultato di un lungo lavoro di autoformazione e autocorrezione avvenuto anche attraverso l’uso del blog. Sì, perché ho imparato a scrivere, anche grazie al desiderio di raccontare agli altri (la scrittura in rete ha anche questa funzione). Perché scrivere sul blog ti espone allo sguardo di centinaia, migliaia di persone e quindi ti costringe ad avere grande cura di ciò che pubblichi. Ho riletto ogni post, centinaia di volte. Alcuni post sono ancora in bozza. Alcuni a furia di leggerli son finiti nel cestino.

Inizio il mio intervento proprio parlando del mio rapporto con la scrittura. Un rapporto ambivalente. L’ho odiata per anni, perché l’attenzione per evitare errori e orrori grammaticali mi è sempre costata una gran fatica. L’ho amata tanto nella versione moderna, perché ho trovato un modo di scrivere, il mio modo.  A quarant’anni mi ha fatto impazzire di nuovo la scrittura della tesi perché sono stato costretto a scrivere in modo più formale, attento ad uno stile che non mi appartiene. Mi emoziona invece quando mi accorgo che 15mila persone hanno letto un mio post, lo han fatto girare, condiviso, usato come se fosse loro. Mi sorprende il piacere che ho oggi di scrivere e la rabbia per non poterlo fare con costanza.

Quello che racconto è la storia di un cambiamento, io che di questo mi occupo. Un cambiamento nato dalla sfida con quella vocina interna che mi rimandava continuamente di lasciar stare, di occuparmi di altro. Quella vocina figlia, anche, di quello che alcuni insegnanti incontrati mi avevano lasciato. Una sfida iniziata invece grazie alla voce di un’altra docente, incontrata in tarda età. Una di quelle docenti che, se tieni le orecchie aperte, ti cambia la vita. Una docente che ha il nome di un fiore, come mia figlia e forse non è un caso.

Parlo di me, dei colleghi incontrati nel percorso di Snodi Pedagogici, del prezioso valore dell’incontro, avvenuto tramite la scrittura in un percorso comune che non ha nessuna storia simile in rete, soprattutto in ambito educativo. Un incontro simmetrico, alla pari e per questo doppiamente di valore. Snodi Pedagogici è un percorso di scrittura contemporanea e collettiva. Una bella storia,  insomma. Un gruppo di esperti di processi educativi che scrive partendo dallo stesso tema, che invita altri a scrivere e lo fa per un anno, tutti i mesi, raccordandosi attraverso la rete, senza essersi  mai visti. Un percorso che potrebbe essere tranquillamente il tema (o il titolo) di una tesi di una laurea in scienze della comunicazione.

Racconto di quello che abbiamo scritto e della necessità e del valore dello scrivere di educazione. Del bisogno che il nostro mondo ha di raccontare lo sguardo e le pratiche educative. Della scarna bibliografia presente che racconti “storie di educazione” in un mondo pieno, invece, di saggi e manuali di pedagogia e del bisogno di far cultura dell’educazione anche attraverso il racconto di storie, pensieri e riflessioni su ciò che gli educatori fanno tutti i giorni.

Il blog è stato, per me, anche un modo di dar valore alle pratiche e ai pensieri di altri colleghi e colleghe. Non ho scritto solo io, per fortuna, ed è stata un scelta che ho provato a conservare nel tempo.

Racconto loro di quanto sia inutile confrontare la scrittura accademica con quella dei blog, di quanto siano lontane, di quanto sia possibile trovare il proprio modo di scrivere e di quanto sia importante imparare a scrivere in ambito professionale. L’uso della scrittura non giudicante, non interpretativa, il presidio di ciò che è avvenuto tra l’educatore e gli utenti. Parliamo di quanto sia possibile, attraverso la scrittura di un post dedicato ad un uomo politico, dire alcune cose ai propri colleghi, ad una categoria intera di persone e lavoratori.

Mi piace parlare agli studenti, coordinare i tirocinanti, i ragazzi e le ragazze in servizio civile. Mi piace perché credo fortemente nel valore del passaggio di competenze e soprattutto nel rapporto tra maestro ed apprendista. Amo da sempre l’idea di poter lasciare agli altri ciò che ho imparato. In questo ambito non ho nessun richiamo competitivo. Gli incontri professionali hanno sempre avuto per me il medesimo obiettivo, lasciare e prendere competenze. Sempre.

Ci salutiamo, li ringrazio. Per me non sono quasi mai ringraziamenti formali, perché dall’esperienze che faccio, soprattutto quelle che mi piacciono, nasce sempre qualche cosa. Un post, un’idea, una riflessione o un nuovo progetto professionale. Son fatto cosi. Mentre torno a casa penso alle domane che mi han fatto e mi viene in mente un’immagine, una di quella immagini che ritorna da sempre, quella che richiama il bisogno di relazione tra chi ha attraversato un percorso professionale e chi lo deve iniziare. Il maestro e l’apprendista. Immagine perfetta per chi come me ama la Saga di Star Wars.

Mi richiama fortemente una domanda che mi è tornata in mente soprattutto durante l’approvazione della Legge 205.

Di cosa hanno bisogno degli educatori?

La mia risposta è: c’è bisogno di apprendistato. Di spazi di lavoro che permettano di dar valore all’incontro tra chi lavora da anni e i giovani educatori. Uno spazio in cui si insegni a ”fare educazione” praticandola. Spazi di passaggio delle competenze, trucchi e idee, uno spazio che valorizzi l’esperienza degli educatori che son sul campo da 25 anni e che contemporaneamente non lasci soli i giovani colleghi. Uno spazio “altro” rispetto a supervisione e formazione.

Sprecare l’opportunità di poter valorizzare gli apprendimenti e le competenze maturate dagli educatori che lavorano da anni sarebbe un sacrilegio. Non riesco a trovare un’altra parola per descriverlo.

Quello che manca, però, è la formalizzazione di uno spazio di pratica del lavoro educativo fianco a fianco. Uno spazio che restituisca ai “maestri educatori” il valore prezioso di accompagnare gli “apprendisti educatori” nel loro percorso formativo, all’inizio della loro carriera professionale, in un’ottica differente da quella che abbiamo praticato fino ad ora. In un’ottica che non lasci, a livello discrezionale alle cooperative la responsabilità di farlo o meno. Il lavoro educativo è un lavoro che, in alcuni tratti, assomiglia tanto ad un lavoro artigianale e che quindi necessità del trasferimento della “scatola” degli attrezzi di lavoro. L’apprendistato andrebbe reso obbligatorio, certificato, fuori dal fastidioso utilizzo odierno, che mi pare solo un trucco per risparmiare soldi sui contratti.

Abbiamo bisogno, passatemi la analogia cinematografica, di costruire le condizioni perché i vecchi Jedi accompagnino i giovani apprendisti ad imparare l’uso della spada, altrimenti rischiamo di farci male. Tutti. E di far male il nostro lavoro.

Sarebbe interessante, accanto alle legge 205 (quella dedicata agli educatori e ai pedagogisti), provare a dare forma ad un percorso di apprendistato formativo, magari anche selettivo, che permetta ai giovani educatori di essere accompagnati nei primi anni di carriera. Una parte integrante del percorso formativo istituzionale che dia valore e ruolo anche agli educatori senior presenti nelle cooperative e negli enti locali. Un percorso che, attraverso la formalizzazione di responsabilità e ruoli, possa essere utile anche per proteggere i giovani colleghi dall’essere gettati soli dentro i servizi e di conseguenza anche per proteggere gli utenti dei servizi.

Mi chiedo se le facoltà Universitarie che formeranno gli educatori e le educatrici avranno voglia, tempo e spazio, soprattutto ora che saranno detentrici dell’ unica formazione professionale certificata,  per strutturare un percorso formativo differente?

Christian S.

PS: Grazie di cuore a Paola Eginardo per lo sguardo ampio che pone sull’educazione professionale, anche nelle sue forme non accademiche. I suoi studenti sono fortunati, spero che lo abbiano capito.

Agli studenti che si iscrivono alle facoltà che formano gli educatori e che investono tempo e fatica per continuare a fare uno dei lavori più belli del mondo.

Alle donne con i nomi dei fiori. Preziose, più di quanto immaginano, anche per giovanotti di trent’anni.

A mia moglie. Perché senza di lei alcuni di questi post non sarebbero stati mai pubblicati. Lei sa perché.

Giornata di formazione. Gruppo di capi scout. Attenti, motivati, appassionati e disponibili a mettersi in gioco. Una giornata intera di formazione di sabato. Quasi eroici, mi verrebbe da dire.

Alzi la mano chi nel suo tempo libero si è mai piazzato in un parco a parlare di prevaricazioni, cyberbullismo e regole?

Il tema centrale sono le prevaricazioni. Porto un affondo sulle regole e sulle modalità di trattarle, tematizzarle e sui rischi connessi. La discussione si sposta sulla colpa. Facilmente. Succede nel guardare i ragazzini che si accompagnano, succede riguardando le proprie azioni. Succede che il senso di colpa schiaccia e appiattisce. Sposta tutto su desiderio di scusarsi, di pentirsi e di espiare.  E’ difficile non caderci, capita anche a me, nell’analisi della azioni che faccio. Soprattutto da padre, ma anche da professionista.

Succede perché la colpa è pervasiva, culturale, vive e si annida nel profondo. Talmente profonda da immobilizzare o da portare al desiderio di chiudere. Troppo dolore.  Meglio scusarsi e finirla qui. Fa così anche mia figlia. Quando sente che non ha voglia, né spazio per andare avanti. Chiude. Si scusa e prova ad andarsene. La sua fortuna che io non la mollo. Non la mollo perché non voglio che si senta in colpa e soprattutto perché non voglio che tagli corto quando si parla invece di responsabilità.

Ecco il punto: colpa e responsabilità. Bella coppia.

Mi accorgo che la differenza tra colpa e responsabilità non è scontata. La prima, la maledetta colpa, guarda l’individuo, nella sua interezza, parla alla pancia, alle emozioni. Parla di qualche cosa che è sbagliato, mette al centro una specie di senso di tradimento della relazione. Hai sbagliato, ti devi scusare, lo devi fare con me, perché io sono la vittima. Hai trasgredito le regole. Hai tradito anche me, proprietario delle regole. Diventa una questione personale, di rapporto. Conduce in una unica strada, ad un unico modo di uscirne; le scuse. Scusarsi, anche provando a rassicurare che non succederà più. Quante volte abbiamo sentito “non lo faccio più” uscire dalla bocca dei bambini. Promettere di non farlo più vuol dire mettersi in un’ottica pericolosa, dove l’errore viene visto sono in un’ottica di non ripetizione. Ma l’errore è anche altro. E’ prezioso per conoscersi, per imparare a tollerare le imperfezioni degli altri, per scoprire strategie di risoluzione dei problemi, per imparare che siamo esseri imperfetti e che l’errore stesso non è una deviazione della strada maestra, ma parte della strada stessa. Perchè gli errori non si evitano, si affrontano.

Dall’altra parte c’è la responsabilità. Che parla del ruolo che stai attraversando, parla di un pezzo di te, di una cosa che hai o non hai fatto. Parla dell’aver fatto. Parla di qualche cosa che ci sembra cambiabile. Trasformabile. La responsabilità parla dell’azione e le azioni si possono fare in modo differente. Parla, a differenza della colpa, di qualche cosa che ci sembra più facilmente modificabile, ci fotografa l’azione che avremmo dovuto fare, magari in altro modo. Se parliamo di responsabilità diciamo ai ragazzi che devono imparare ad assumersela, che devono rispondere di ciò che han fatto. Non gli diciamo che devono scusarsi, pentirsi, insomma. Se parliamo di responsabilità parliamo di futuro, di diventar grandi, di diventar cittadini, responsabili di una parte del modo che stiamo costruendo. Se parliamo di responsabilità non gli chiediamo di fermarsi,  ma di andare avanti. 

Christian S.

PS: Parte del merito di questo post è dei capi Scout CNGEI di Cesano Maderno che mi ha aiutato a mettere a fuoco, meglio, una questione importante e preziosa, su cui ragiono da un po’. Una tema che mi sarà utile nei prossimi tempi, come uomo, padre e professionista dell’educazione.

rovereto

Sono stato al Convegno di Animazione Sociale sui giovani dal titolo Nuove Generazioni e altre generativitàIl 24 e 25 febbraio 2017.

Quando parti per andare in formazione hai sempre la speranza di tornare con qualche nuova scoperta. Non sempre accade.  Questo convegno invece, per me, è stato uno di quei casi. Sono tornato con un sacco di spunti, qualche dubbio e soprattutto con alcune domanda nuove, utili per ri-orientare il mio sguardo e per aiutare gli educatori con cui lavoro a metter pensieri nuovi.

Nuovi sguardi e nuove domande. Ecco come si apre e chiude il convegno: con il suggerimento, per chi si occupa di giovani in ambito socio-educativo di provare a cambiare modo di guardare, di guardarli. Cambiando, se possibile, anche le domande da porsi. Il convegno si chiude con una provocazione forte dell’attore Enrico Gentina. E’ una provocazione importante per chi come me spesso cerca di capire meglio le cose e cerca di capirli.

Cerchiamo sempre di capirli, ed invece…

“E se provassimo a pensare i giovani come supereroi? E invece “non ti capisco, non ti capisco, non ti capisco…”, ma è così necessario capirti? Sapere che ti ho capito? Interrogarmi continuamente perché tu possa sentirti capito, compreso, compresso, svelato…? E se invece mi preparassi al meglio di quello che posso essere e mi mettessi al tuo fianco? Perché noi siamo animali: se scappo tu mi rincorri, se mi abbasso tu ti abbassi, se alzo il livello tu alzi il tuo. L’invito è allora pensare a come mi pongo, a curare il nostro profilo: non quello di facebook ma quello che mettiamo in gioco nella relazione con loro, con i ragazzi.!” (E. Gentina)

A proposito di sguardi: chi organizza il convegno propone relatori dagli sguardi “altri”. Intervengono un pedagogista (Andrea Marchesi), una filosofa (Luigina Mortari), un’ antropologa (Vincenza Pellegrino), una sociologa (Ivana Pais) , un’economista (Roberta Carlini), un architetto (Stefano Boeri), un attore (Enrico Gentina) e la Compagnia del teatro Elfo Puccini. Tutti gli interventi provano a declinare il tema partendo dal proprio punto di vista. Diventa tutto molto interessante perché  fuori dalla deriva propria del mondo dell’educazione odierna. Deriva che spinge a parlar tra di noi, tra chi di quello si occupa, di quello si è formato, di quello vive e mangia. Propone uno sguardo “altro” ma che dell’educazione parla, perché l’educazione è fatta anche da altri. Fatta dagli urbanisti, che incidono sulla struttura delle nostre città, dagli artisti, che narrano dell’educazione, dalle strutture economiche e sociali che cambiano e condizionano anche le interazioni tra adulti e giovani. Mi torna fuori una domanda che da tempo gira per la mia testa.  Una domanda che mi pongo sempre più insistentemente, soprattutto da quando di educazione si occupano, soprattutto, educatori e pedagogisti.

E se fosse, invece, il caso di provare a farci aiutare a guardare l’educazione utilizzando altri sguardi? Se ci fosse il rischio che da dentro ci manchino alcune prospettive? Se stessimo rischiando di guardare il mondo dell’educazione da una prospettiva troppo parziale?

A proposito di giovani: nel pomeriggio, nei workshop, incontro i giovani e i ragazzi del progetto socialday. Un’esperienza che mette al centro il volontariato e la raccolta di fondi per progetti di cooperazione internazionale, dove al centro ci sono loro, i ragazzi. Loro valutano i progetti da finanziare, fanno il bando, si cercano il lavoro, stipulano il contratto e recuperano i soldi. Un progetto che è passato dai 1200 euro raccolti nel 2007 agli 82000 euro del 2016 e ha visto impegnati 8500 ragazzi delle scuole medie e superiori. Un progetto che entra a far parte del POF (Progetto dell’Offerta Formativa) delle scuole e che considera i ragazzi come costruttori di connessioni, come i reali protagonisti della costruzione della rete sul loro territorio. Non male dire.  Incontro l’esperienza e soprattutto incontro loro: 6 ragazzi dai 14 ai 19 anni, ragazzi che discutono con gli adulti, alla pari, senza indietreggiare o aver paura. Senza che la differenza di età e competenze li condizioni in alcun modo. Raccontano in modo chiaro, parlano di loro, ma parlano anche di noi. Quando parlano di noi ne parlano così: Silvia “noi abbiamo bisogno che gli adulti ci appoggino”. Penso a quel “appoggino” e alle parole che avrei usato io o alcuni dei miei colleghi educatori (accompagnamento, insegnamento, aiuto, …). Sento che Silvia ci propone qualche cosa di nuovo, rispetto alla posizione e alla funzione degli adulti e soprattutto degli adulti educanti. Gli adulti resistono all’immagine e alla posizione che i ragazzi ci attribuiscono. Spesso le domande sono connesse al ruolo degli adulti. In questo progetto dove sono gli insegnanti? Gli educatori?. La risposta che ci danno è che ci sono, camminano al loro fianco, ma  il ruolo centrale rimane quello dei ragazzi, che lentamente tessono la ragnatela e connettono tutto ciò che gli sta intorno. Formano loro i compagni, organizzano gli eventi, selezionano i progetti e li votano, raccolgono i soldi. Connettono le realtà del territorio (pubblico, privato e familiare) tutti intorno al progetto e intorno a loro. Io li osservo e mi accorgono che mi piace ciò che mi dicono, mette in discussione alcune cose che pratico, ma mi piace.

Se fosse arrivato il momento di cambiare prospettiva. Non gli adulti, quindi, che accompagnano i giovani all’incontro con il loro territorio, ma viceversa? Se ci facessimo condurre da loro provando a lasciargli la possibilità di indicarci quale è la strada che vogliono percorrere?

A proposito di simmetrie e asimmetrie: L’incontro con i ragazzi mi costringe a fare i conti con una questione per me preziosa che qui diventa assai spinosa. Il rapporto di asimmetria tra adulti e giovani. Il valore dell’asimmetria in educazione, oggetto principale della mia formazione, scricchiola. Vacilla ma non cade. Mi tocca reinterpretarlo. Mi tocca anche fare in conti con una richiesta, un desiderio dei giovani che mi arriva chiaramente nell’incontro con loro. Hanno voglia di far loro, di essere un nodo centrale. Ci chiedono di esserci ma in modo differente. Ci chiedono di non considerarli vuoti, stupidi, ci chiedono di rischiare insieme a loro. Ci dicono di esser pronti. Ci rimandano che sono in grado di aiutarci a guardarli. Ci ricordano, anche attraverso il sociaday, il valore delle altre esperienze di apprendimento peer to peer.

Se provassimo, almeno in alcuni casi, a pensare che l’apprendimento alla pari non sia solo un percorso “esotico”. Una specie di sottoprodotto dell’insegnamento tradizionale? Una questione di poco conto? Se provassimo a dargli lo stesso valore che gli danno loro?

A proposito di ascolto: Alla fine dell’incontro i ragazzi ci rimandano di essersi sentiti ascoltati, lo rimandano con grande felicità e stupore. “Avevamo paura di incontrarvi e invece …. “. Questa sorpresa dovrebbe interrogarci, tutti. Lo stupore ci lascia alcune domande sulle quali forse dovremmo lavorare.

Con quali occhi e con quali categorie di pensiero stiamo guardano i ragazzi? Con quanti e quali pregiudizi? E se fosse venuto il momento di smetterla di dire che noi sappiamo cosa sia meglio per loro e cominciassimo a chiederglielo?

A proposito di generatività: Se fosse il caso di provare a lasciarli generare? Magari noi ci potremmo occupare di costruire luoghi idonei per incontrarli, come diceva Enrico Gentina “prendendoci cura del nostro profilo”.

Christian Sarno

Ps: Ringrazio la Libera Compagnia di Arti e Mestieri Sociali che ha sollecitato, permesso e sostenuto questo mio momento formativo. Cosa che visti i tempi è proprio #tantaroba