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FIORI-NEI-CANNONIIl 13 novembre 2015 rimarrà per molto tempo nella mente di tutti gli europei, rimarrà nella mia, che ho tremato per la sorte di due persone care. Rimarrà nella mia testa perché una volta saputo che erano salve, mi son sentito in colpa, perché ero felice. “Come si puoi essere felice”, mi son chiesto, “non pensi agli altri?”. In quel momento non ci ho pensato, mi è bastato quello. Poi ragionandoci, mi son anche detto che in fondo è ciò che ci succede continuamente quando leggiamo le orrende notizie che i media ci narrano. Notizie che solo la lontananza può rendere sostenibili, altrimenti il dolore dei continui drammi a cui assistiamo potrebbe distruggerci.

La possibile vicinanza, non solo geografica, di alcuni dolori ci spinge invece maggiormente a cercare soluzioni, ci obbliga a scavare nelle ipotesi per cercare quelle che ci sembrano più efficaci. La vicinanza degli avvenimenti francesi e la successiva mobilitazione degli europei non va vista quindi, solo, come una questione egoistica (“il pericolo è più vicino e quindi mi muovo, protesto, mi indigno…”). E’ una reazione alla vicinanza del dolore. Più lo sentiamo vicino più ci attiviamo. Ovviamente non sempre nella direzione migliore. La vicinanza delle emozioni non è sempre di aiuto alla riflessione, la condizione, la modifica, la mette in uno stato di pressione che spesso rischia di dar luce anche a delle pessime idee. Allora ho preso tempo, anche quando una collega mi ha sollecitato a trovare le parole, perché come dice lei, chi si occupa di educazione “deve trovare delle parole per dire”, per indicare strade.  Perché una strade c’è sempre, di questo sono sicuro.

Non ho scritto nulla, fino ad ora, nessuna candela accesa, nessuna colorazione del profilo di facebook con i colori della bandiere francese, nessun commento a nessun post. Silenzio. Lo stesso silenzio di cui ho avuto bisogno per mettere a posto i pensieri che la paura aveva sparpagliato nella mente, come “metaforicamente” dopo l’esplosione di una bomba. Ho avuto paura degli effetti dell’attacco, soprattutto dopo. Paura di farmi prendere dalla sensazione di impotenza e ingovernabilità. Paura di cercare soluzioni protettive o individuali, quel tipo di protezioni che spesso rischiano di risultare inutili “case di paglia” davanti al lupo cattivo.

Monica però ha ragione, dobbiamo trovare le parole per dire. Ne abbiamo la responsabilità.

Ho cercato “le parole per dire” e le ho trovate in un percorso di formazione fatto proprio venerdì 13 novembre, poche ore prima della strage di Parigi. Il percorso, condotto dal professor prof. Gian Piero Turchi, docente di Psicologia delle Differenze Culturali e direttore del Master in Mediazione presso il Dipartimento FISPPA dell’università di Padova, mi ha permesso di rintracciare uno degli aspetti e delle responsabilità che hanno i servizi in cui lavoriamo o che gestiamo. Uno e forse il più importante degli obiettivi che anche il mio ruolo professionale mi consegna, ovvero; produrre benessere per le persone che incontriamo.

Cosa dobbiamo fare come servizio? Quale obiettivo abbiamo? Risolvere problemi? Raccogliere domande? Forse si. Forse no.

E se invece la responsabilità più importante fosse quella di produrre “interazioni” ed incontri? La produzione di interazioni e la capacità di anticipare e governare le interazioni che produciamo, in sintesi. Il governo delle interazioni e degli incontri può produrre coesione sociale, maggiore è la coesione minore la distanza tra le persone, maggiore è la coesione sociale, maggiore è il benessere, minori o più gestibili, probabilmente, i conflitti. Maggiore è il governo del processo di coesione sociale, meno il contesto tende a autoregolamentarsi.

Provo a spiegarmi meglio. Gli incontri dentro un sistema di relazioni (un paese, una città, una regione, una comunità, ecc), se non governati da altri, trovano il modo di autoregolamentarsi. Per potersi autoregolamentare le persone pescano nelle loro competenze. Aumenta quindi, soprattutto se la comunità è in uno stato di fragilità (emotivo, economico o sociale) , la possibilità che per farlo si possa cedere alla legge del più forte, che dice:“Se non sappiamo, possiamo o riusciamo a stare insieme, allora che vinca il più forte.”

Questo vale sempre, non solo nell’incontro tra culture lontane, per intenderci.

Se la guardiamo da quest’angolazione forse una strada possibile è rintracciabile. Se lavoriamo, come educatori, sul processo di coesione (e non solo di integrazione) aiutiamo le comunità a costruirsi in un’identità condivisa, aiutandola a tenere insieme anche le identità individuali. Aiutando, in sintesi, la comunità ad imparare a stare insieme, la aiutiamo ad avere più strumenti per incontrarsi e quindi per star meglio.

Vista così, il problema, quindi, non è se ci piace o meno integrare, accogliere, ma come lo facciamo, come governiamo l’incontro tra culture, persone, religioni e modi di intendere il mondo. Il problema, in sintesi, non è se il modo di vivere dei Rom (giusto per fare un esempio sempre di moda) ci piaccia o meno, il problema è che se lasciamo che le comunità si incontrino senza che nessuno governi il processo di incontro, il rischio è che le persone lo gestiscano con le competenze che hanno, magari anche cedendo a questioni emotive, alle paure, al desiderio di difendersi o di mostrarsi più forti. E come raccontavo sopra, la paura non aiuta per nulla ad incontrare gli altri. Il problema, in sintesi, non è se ci piace o meno l’idea che altri preghino un dio differente o vivano tradizioni differenti dalle nostre, il problema è che se non impariamo a governare questi incontri ciò che è avvenuto a Parigi avverrà ancora, in altri modi, in altri luoghi, ma avverrà.

Perché l’esempio di Parigi è differente da altri, dall’attentato nell’albergo in Mali o dai missili turchi sull’aereo russo? Perché ci racconta di giovani attentatori cresciuti in Francia, che probabilmente son stati seduti a scuola con alcuni dei ragazzi uccisi al Bataclan. Giovani che quando hanno aperto il fuoco non han sentito nessuna vicinanza, nessun senso di appartenenza, nessuna identità comune e quindi, probabilmente, nessun rimorso.

In questo senso, rispondendo a Monica. Ecco cosa dovrebbero fare gli educatori e i servizi educativi: Governare le relazioni e gli incontri, produrre coesione sociale, produrre regole che aiutino le persone a stare insieme.

Cosa dovrebbero fare i cittadini e il mondo dell’educazione professionale quindi? Chiedere meno risorse per interventi individuali, e molti di più per lavorare sulla coesione sociale, sulle comunità e sul governo dei processi di incontro.

La domanda diventa quindi: ne abbiamo il coraggio, la forza e la voglia?. Forse solo se ci crediamo veramente. Altrimenti, come spesso ci capita, invece di provare a lavorare in anticipo, lavoriamo sui cocci rotti, tanto siamo ormai diventati degli esperti. Ed allora l’educazione professionale continuerà a lavorare soprattutto accompagnando le persone, dopo che le cose saranno già avvenute, dopo che la bomba sarà già scoppiata, il proiettile arrivato e il dramma consumato.

Vi siete mai chiesti quante risorse di comuni, regioni e stato finiscono in coesione sociale?

La risposta è semplice: Un numero molto vicino allo zero.

Buona coesione a tutti.

Christian S.

ps: Il merito di questo articolo lo devo dividere con Monica Cristina Massola, che ringrazio. Senza la sua sollecitazione, forse, questo articolo non esisterebbe.

 

Tortona 2012Da un po’ di tempo scrivo su questo blog, son più di due anni oramai. In questi due anni e passa in rete ho incontrato un sacco di persone, alcune passate dal blog magari solo per un commento, altre rimaste, abbonandosi al blog, altri rimasti perché l’incontro è andato oltre. Questi “altri” sono uomini e donne che partecipano a vario titolo al progetto di Snodi pedagogici.

In questi mesi abbiamo iniziato un progetto interessante, un progetto che si chiama Blogging day. Un progetto che ha portato a scivere all’interno del mio blog diverse persone. Genitori, insegnanti, educatori e cittadini interessati ai temi connessi con l’educazione che abbiamo proposto.

Anna dice “La costruzione di luoghi in cui prevale l’attenzione per la cura, per l’ordine, per la necessaria riappropriazione di uno spazio individuale perso durante il viaggio lo sbarco, l’accoglienza in grandi centri è oggi l’unica direzione in cui guardare per non sprofondare nell’idea che la violenza sia ormai definitivamente affermata.”

Mentre lo leggevo ho pensato: come è difficile in questa epoca di grande fatica economica aiutare le persone a non rinchiudersi in se stessi a non rifiutare l’incontro con quegli “altri” che ci sembrano sempre e maggiormente degli invasori.

A marzo ho pubblicato anche Il post di Luca Giangiacomi.

Luca dice: “Accostare la pedagogia alla politica, è un po’ come cercare di far fare all’amore l’acqua con l’olio, purtroppo  non ci si riesce. O quantomeno io non ci riesco”. 

Leggendolo ho pensato anche io la stessa cosa, come si può oggi accostare la parola Politica con la parola Educazione. Io non so come fare, sinceramente, ma sento che dobbiamo trovare il modo, in qualche modo dobbiamo ritrovare il senso stretto della connessione che i significati delle due parole si portano dietro da migliaia di anni.

-A febbraio abbiamo parlato di Scuola. Con il post di Federica Vergani

Federica ad un certo punto si domanda: “Come valutiamo? Anche il colorare ora è esercizio di coloritura e segue una valutazione (questa domanda sarà anche sarcastica… ma ora l’ho scritta)? Come è vissuto dai bambini il colorare?”

Il pezzo di Federica mi ha rimandato ad un pezzo a cui sono molto legato, connesso con la questione della valutazione. Che si chiama : La cultura dei voti.

-A gennaio il primo Blogging Day con il tema: educazione naturale.

Ho ospitato due genitori, la prima Alessandra Tracogna, moglie di un educatore da cui è nato questo bellissimo e provocatorio post.

Alessandra dice : “E sapere che anche l’altro (nonostante sia un educatore professionale) vada a letto con la domanda “avrò fatto bene?” mi rasserena…”

Quanto mi è piaciuto il suo pezzo, dissacrante, ironico, provocatorio. Un affondo sul rapporto tra educazione professionale e naturale, una finta competizione in cui a vincere sono i figli.

E poi il bel racconto di Enrico, in cui il box dei nonni si trasforma in un castello e in cui l’educazione si guarda attraverso le due magiche lenti : il gioco e la fantasia.

Che dire allora. La rete propone, a volte, degli incontri straordinari.

  • Incontri faticosi – Scrivere in rete chiede di imparare un nuovo modo di comunicare, di scherzare, di stare insieme. Ti chiede di ri- inventare il tuo modo di parlare. Chiede sintesi, chiarezza, chiede di  imparare a stare in stanze che esistono solo lì, che in altri luoghi non sono nemmeno riproducibili.
  • Incontri al buio,  dove il primo interfaccia è una piccola foto ed un nome e dove la fiducia nasce testandosi, guardando ciò che si scrive come ci si rapporta con gli altri. Incontri che a volte diventano fisici , come successo per le due assemblee del 21 settembre e del 16 novembre 2013.
  • Incontri dove ciò che dici è ciò che sei. Punto e basta.
  • Incontri vivi, di vita. Incontri di passaggio (perché alcuni son solo passati). Incontri che narrano anche un possibile futuro comune.

Buona fortuna Gente Snodata. Per le cose che faremo insieme e per le cose che ogni uno di voi farà nella sua vita professionale e personale. Per la strada percorsa e per la strada che percorreremo insieme. Buona fortuna qualsiasi cosa dovesse succedere nei prossimi mesi.

Incontrarvi è stato bello, utile e pedagogico.

Christian S.

L’immagine è di Marco Bottani ( il sito)