Leggendo la oramai famosa storia della studentessa bendata durante un’interrogazione in didattica a distanza (Dad), ho pensato alla docente ed a cosa ha perso.

Perché un gesto del genere, rompe, drammaticamente, ogni possibilità relazionale, sana, con gli studenti. E’ l’interruzione di ciò che di più caro c’è dentro il rapporto maestro/allievo, la frantumazione della relazione formativa come atto d’amore. Perché insegnare è anche questo si, un atto d’amore.

Quello che è successo non può che indebolire ogni forma possibile di apprendimento futuro. E non importa se i genitori siano o meno d’accordo con la scelta, rimane, per me, un atto violento, di prevaricazione, quello che in termini tecnici si chiama, per alcuni i ruoli di cura: “abuso di posizione dominante”. E attenzione, non importa nemmeno l’accordo con la studentessa. Un docente, un formatore, un educatore non dovrebbe accettare, mai, di porre i propri formandi in una condizione del genere. Punto.

Ho letto molti post e commenti su questa storia e mi son preso il tempo per rifletterci. Mi son preso il tempo per ragionarci perché non mi interessa puntare il dito sulla docente in questione. A giudicare il suo operato ci son già il dirigente scolastico e chi si occuperà di indagare su ciò che è successo. Io faccio altro nella vita e mi interessa porre l’attenzione sulle possibili radici e sulle conseguenze di un gesto del genere. Soprattutto da un punto di vista educativo.

Il problema, quando si decide di bendare una studentessa sta, secondo me, più sul piano etico, nell’idea di rapporto tra esseri umani che si ha in testa. Poi probabilmente ci son di mezzo anche alcune problematiche metodologiche e connesse con l’idea di didattica che si ha in mente, ma il problema è, secondo me, connesso con la propria formazione umana, prima che professionale.

Ha ragione, in questa direzione, chi si chiede cosa farebbe, in presenza, una docente che fa una scelta del genere, perché il problema non è mica la Dad, che ha solo reso visibile ciò che avviene, a volte, all’interno delle relazioni tra studenti e docenti. In cui non sempre le vittime sono gli adulti, prevaricati dai ragazzi.

Bendando una ragazza mentre la interroghi, danneggi il tuo rapporto con gli studenti (tutti, anche chi ha solo osservato la scena e magari ha riso dietro lo schermo). Fai, soprattutto, un danno al tuo ruolo, perché dopo una scena del genere perdi di credibilità, agli occhi della studentessa e forse anche agli occhi di compagni e compagne di classe. Bendandola danneggi la studentessa e il suo rapporto con l’apprendimento, stravolgendone completamente il senso e il valore. Stravolgi, inoltre, completamente il senso più prezioso dell’azione di valutazione.

Bendando una studentessa per interrogarla in Dad (didattica a distanza), metti sul piatto il tuo limite rispetto alla capacità di essere in contatto con l’altro e con le sue emozioni e questo è un problema grosso, se ti occupi di formazione. In questo senso ciò che è avvenuto mostra un problema decisamente più generale, una crepa tipica di chi smette di interrogarsi su ciò che fa. Un problema comune a tanti adulti che formano e che educano, non solo ai docenti, ovviamente.

Sia chiaro, dato che non voglio essere frainteso. A scuola (e negli ambiti formativi) ci sono, per fortuna, anche tantissimi docenti e formatori eccezionali, preparati e attenti. Adulti che continuano a studiare e a interrogarsi rispetto al senso del proprio intervento.

Nei ultimi tempi, parlando di insegnamento, mi capita sempre più spesso di percepire una sovrapposizione tra la capacità di passare una nozione e l’insegnamento stesso, che però necessità anche di molto altro.

Formare è una funzione che si porta dietro alcune fatiche, necessarie per far bene il proprio lavoro. Una delle fatiche più importanti è connessa con la capacità empatico/relazionale. Fatica che non tutti son disponibili a fare e che spiega, almeno in parte, perché alcuni docenti e formatori preferiscano occuparsi solo del passaggio della parte nozionistica. Dimenticandosi così che la didattica non può essere scorporata dalla capacità relazionale, se non con il rischio di invalidare e/o indebolire l’apprendimento stesso.

Parlo di fatica perché so anche quanto sia complesso, a volte, tenere insieme la costruzione della relazione educativa e il passaggio di conoscenze specifiche. Ma da qui non si scappa, perché è proprio dalla connessione di questi due aspetti che deriva il tipo e la forza dell’apprendimento che produciamo.

E’ l’antico binomio educazione e didattica, che si rompe, quando bendi una studentessa, come se il bisogno di “valutare” gli apprendimenti potesse passare sopra ad ogni cosa, asfaltando anche la relazione stessa con la ragazza. Si lede così, insieme alla dignità di una studentessa anche la dignità di uno dei lavori più importanti e delicati del mondo.

Un abbraccio a tutti i ragazzi e le ragazze, vittime invisibili di questa pandemia e a tutti quei docenti, formatori ed educatori che quando han visto la ragazza bendata hanno avuto un tuffo al cuore, perché han percepito che si trovavano davanti a qualcosa che non dovrebbe capitare mai, in una scuola, senza sé e senza ma.

Un grazie a Licia Coppo e Eva Pigliapoco, che mi hanno stimolato, a loro insaputa, questa riflessione.

Christian Sarno

Lo sguardo Geko è una metafora che userò oggi per definire un modo di guadare.

Uno sguardo che si ferma al primo livello di analisi, sfuggente, di superficie, frettoloso, che parte dall’idea che non ci sia altro da osservare, oltre il Geko stesso.

Non si cambia lo sguardo senza fatica, senza perdere ancoraggi e sicurezze, si cambia imparando a guardare altrove. Si perde lo sguardo Geko se ci si affida, se si approfondisce, se si prova ad osservare in modo differente, da altre angolature, con altri occhi. Anche con gli occhi degli altri.

E’ un modo di guardare che non accetta altri modi di vedere, altre posizioni, a cui sfuggono elementi di contesto, che si dimentica dello sfondo, che vede solo attraverso i propri occhi in una posizione stabile, statica, ferma. Uno sguardo che si mostra sicuro, definitivo, certo, ed invece è solo Geko.

Quello Geko è un punto di osservazione che non tollera dubbi, mira a rassicurare. Non prevede altro. E’ un punto di osservazione ad imbuto, applicabile sia nel lavoro che nella vita.

Lo sguardo Geko è quella modalità di osservazione che ti porta a concentrare la tua attenzione sull’assenza della zampa. Concentrarsi su ciò che manca sposta l’ottica dal Geko e riconduce la sua forza o la sua debolezza alla sua disabilità. Invece il Geko è il Geko. La sua disabilità è solo una parte di lui, non lo definisce.

Lo sguardo Geko è quello che rischia di farsi trascinare dalle emozioni che il Geko stesso ti produce. Se soffro perché mi dispiace vedere il Geko senza una zampa ne esalterò la forza, se invece mi genera rabbia urlerò conto la sorte o il dolo che hanno portato il Geko ad essere il Geko che è. In entrambi i casi mi dimenticherò che il Geko non è la sua disabilità o la sua forza. Il Geko è il Geko.

Rischia di essere Geka l’azione interpretativa, se giudichi la posizione del Geko, spiegandola attraverso la tua idea preconfezionata. Succede quando cerchi una teoria che confermi il tuo pregiudizio, in ambito psicologico si chiama Bias di Conferma. Dirai: il Geko è a testa in già perché è matto, magari proprio perché ha perso una zampa. Ma tu non lo sai quanto al Geko possa far piacere stare a testa in giù, magari. E in questo caso inoltre, non lo puoi nemmeno chiedere perché il Geko non risponde a questo tipo di domande.

E’ uno sguardo Geko, infine, quello che ti conduce a non accorgerti che il Geko è chiuso dentro un teca, in un ambiente artificiale, strumentale solo a farti vedere il Geko, che essendo educato si mostra senza pudore. Noi, nel frattempo, perdiamo il contesto, presi ad osservare ciò che manca, convinti che non ci sia altro, scambiando il valore della parzialità con il rimanere in superficie.

Succede con le persone che arrivano da altre terre, guardate in modo superficiale, dove le storie, i bisogni, le sofferenze diventano ingombro, migrante uno, migrante l’altro, punto e a capo. Succede che ci fermiamo lì, per stanchezza, per semplificazione, per non rischiare di scoprire, magari, cose che non vorremmo sapere.

Siamo vittime dello sguardo Geko se cerchiamo di semplificare un mondo complesso, indisponibili a cambiare posizione di osservazione. Ci innamoriamo di uno sguardo. Lo sguardo Geko è complesso da trasformare anche per questo, perché tende ad innamorarsi della propria visione del Geko stesso. Tende ad esaltarla, raccontandoci di quel Geko che rimane attaccato ad un vetro a testa in giù, con una zampa sola. Ne racconta le gesta in modo eccessivo, costruito, creandone un racconto finto, artificiale, quasi cinematografico. Ma il Geko, intanto, continua ad essere in una teca.

Lo sguardo Geko si può trasformare, ma serve uno spazio per farlo. Uno spazio fisico dove formare uno sguardo ampio, dove si possano moltiplicare le posizioni e le angolature di osservazione. E’ uno spazio formativo. Potrebbe essere quello di una supervisione pedagogica o psicologica, di una consulenza individuale, ma è anche uno spazio mentale, personale, una predisposizione. Per trasformare lo sguardo Geko in altro serve la necessità di creare spazi nuovi, serve spazio vuoto e la forza di poter mettere in discussione ciò che si vede. Serve il coraggio di provarci, di abbandonare porti sicuri per provare sguardi nuovi, meno rassicuranti.

E’ per questo che sono così felice quando riesco a condurre spazi di supervisione. Percorsi come quelli che ho avuto la fortuna di attraversare negli ultimi due anni, con due gruppi di educatori che hanno provato a trasformare il loro sguardo Geko, come io ho provato a trasformare il mio, mentre lavoravamo sul loro.

Son felice quando incontro educatori ed educatrici che hanno fame di lavorare sul loro sguardo Geko, che ti chiedono di farlo e che faticosamente ti permettono di entrare. Son felice quando trovo genitori che chiedono uno sguardo altro sui figli, perché sento che hanno voglia di provare a cambiare lo sguardo sul loro piccolo o grande Geko.

Per questo gli spazi di supervisione e formazione in ambito educativo non possono mancare, mai.

Sono un professionista fortunato, perché lavorare sui processi di cambiamento degli altri ti permette anche di incontrare gente così. Educatori e educatrici consapevoli di rischiare lo sguardo Geko e di doverci lavorare.

Negli ultimi tempi mi succede una cosa strana: quando incontro, anche in rete, uno sguardo Geko, mi chiedo quanto anche il mio sguardo stia rischiando di esserlo. Non sapete quanto questa domanda aiuti a tener vivo il desiderio di trasformarsi, continuamente.

Christian S.

Ieri avete perso. Male e in modo netto. Avete perso una partita che non potevate vincere. Perché alcune sconfitte son così. In alcuni casi non si vince, nemmeno se si dà il massimo, nemmeno se le altre sbagliano partita. Si perde e basta. E’ inutile girarci intorno, sarebbe solo un modo di prendersi in giro.

Allora bisogna partire da qui, dal senso del limite. Perché alcuni limiti si possono superare, altri invece vanno solo rispettati. Compresi e rispettati. Sia quando sono individuali, sia quando son collettivi. Inutile provare a scaricare sulle altre o a prendersi tutto. Il basket è uno sport di squadra e la valutazione deve essere complessiva. Ieri non si poteva vincere, ma si poteva giocare meglio, lottare, cosa che non è successa. Sulla vittoria non potevate fare nulla, su questo invece sì, è possibile lavorare. Forse dobbiamo tutti imparare a partire da ciò che si può fare e non da ciò che vorremmo.

I limiti si compensano, si superano e alcune volte si rispettano, soprattutto quando non sono possibili le prime due opzioni. Oggi è il giorno di imparare a rispettarli, ad accettare che oltre non si poteva andare, senza che ciò possa diventare un alibi, perché questo è il rischio.

“Papà son tropo forti, è inutile”. Invece no, non è inutile, dobbiamo solo cambiare l’obbiettivo. Non si gioca più per vincere, ma per dare tutto e farle faticare. Perché loro entreranno in campo convinte che sarà facile e starà a voi fargliela sudare, la vittoria. Perché vinceranno anche la prossima volta, probabilmente, ma devono guadagnarsela, devo sbucciarsi le ginocchia, lottare, anche se son più forti. Serve anche a loro.

Si giocherà per far meglio individualmente in modo che si faccia meglio insieme, per far meglio di ieri, per far tesoro di ciò che abbiamo imparato da questa sconfitta. Si giocherà per cercare di essere lì, se dovessero sbagliarla loro, la partita, questa volta. Perché è così che funziona lo sport, se gli altri sbagliano e non sei pronto, la perdi anche quando potevi vincerla. Si giocherà per capire se avete imparato a fare i conti con l’idea che ci possa essere una squadra più forte della vostra, una quadra che sembra imbattibile. Si giocherà per verificare che quello strano senso di inferiorità non vi immobilizzi, perché può capitare, come è successo ieri.

Serve figlia mia. Serve imparare a giocare mettendo in campo la rabbia e la delusione che ti porti a casa oggi, per imparare a soffrire ancora di più e spingersi oltre i propri limiti, perché finisca con un risultato differente, perché escano dal campo sorprese per come ci avete provato. Serve, sia a voi che a loro.

Ti ho chiesto come ti sentivi, mi hai risposto che eri dispiaciuta, che non eri felice, che non eri contenta di come avevi giocato e ne abbiamo discusso. Ho sentito e sento il bisogno di aiutarti a non perderti negli alibi, perché gli alibi non servono a nulla, se non a nascondersi dietro barriere che ti lasciano dove sei. E’ una questione di rapporto con il limite. Se lo conosci e lo rispetti, diventa un tuo alleato. Se invece non ci rifletti, rischi di andare a sbatterci contro continuamente, senza accorgerti che è inutile e che stai solo sprecando energie. Che la strada per uscire, in sintesi, è un’altra.

Imparare a studiare i tuoi limiti ti permetterà di spostare lo sguardo da ciò che non puoi fare a ciò che invece puoi cambiare. Ci saranno cose che potrai modificare, non sarà il risultato finale, sarà il tuo modo di stare in campo, di giocare, di prenderti le tue responsabilità. Il tuo modo di prendere le sconfitte, per esempio.

Ho perso anche io e quando ci son passato dentro, il nonno mi ha insegnato anche a riderci sopra. Mi faceva incazzare, lo ricordo bene, ai tempi, ma ad oggi credo di doverlo ringraziare. Se riesco, a volte, a prendere le fatiche quotidiane con leggerezza lo devo anche a lui e alla sua modalità dissacrante. Si chiamano eredità, nel bene e nel male.

Ci rideremo sopra, figlia mia, questo è sicuro, senza dimenticarci che insieme alla leggerezza, c’è un lavoro da fare sui limiti. Tuoi e delle tue compagne, perché se imparerai a portare rispetto verso i tuoi limiti, lo sarai anche con quelli di chi gioca con te. Se imparerai a lavorare sui tuoi, potrai aiutare anche gli altri a farlo con i loro.

Imparare a rapportarti con i tuoi limiti è un percorso complesso che non ti toglierà la sofferenza che le sconfitte si portano dietro ma ti aiuterà a dargli un senso, un valore e ti permetterà di andare a cercare cosa c’è dietro la sofferenza che ti provoca. Succederà se ti prenderai il tempo di rifletterci su, perché dalle sconfitte si impara poco, se le lasci solo passare. Perché le esperienze di per sé son esperienze, diventano preziose se ci mettiamo pensiero, anche se ci verrebbe più semplice archiviarle e passare alla partita successiva.

Se riusciremo a fare questo, ragazzina colorata, avremo fatto un gran passo avanti, insieme. Perché il rispetto dei limiti degli altri è ciò che ci permetterà di arrabbiarci di meno con loro, spostando l’attenzione verso ciò che possiamo fare, evitando di sembrare una palla che rimbalza contro il tabellone. Perché se la palla la tiri sempre nello stesso punto e con la stessa forza, il rimbalzo è sempre lo stesso. Perché come ti dico spesso, il tabellone è tuo amico, se sai come usarlo.

Se riuscirai ad accettare i tuoi limiti un giorno riuscirai ad accettare anche i miei e forse avremo vinto in due. Anzi, avremmo vinto sicuramente, entrambi.

Christian S.

Sono sempre stato affascinato dal mondo del Rugby. L’immagine e i racconti che emergono, anche dai genitori, ne restituiscono l’idea di un luogo differente. Uno mondo che pare mantenere alcuni valori di fondi che hanno sempre contraddistinto lo sport. Fatica, sudore, lealtà, competizione, vittorie, sconfitte ma soprattutto  lotta dura in campo e abbracci alla fine della partita. Elementi che sembrano sintetizzarsi bene nel Rugby, dove in campo i ragazzi si placcano rotolandosi a terre a poi finiscono a mangiare insieme durante quello che viene chiamato “Terzo tempo” (momento istituzionalizzato, in cui le due squadre, a fine partita, mangiano insieme, mischiate). Incontro il mondo del Rugby in rete, ne leggo le storie, i commenti e soprattutto i pensieri dei genitori. Me ne arriva notizia anche da alcuni colleghi educatori, mi piace. Forse ne subisco anche il fascino, anche perché da amante degli sport di squadra son sempre alla ricerca di un nuovo amore. Un amore che compensi la delusione che deriva dalla sensazione che altri sport (il calcio in primis) abbiano smarrito completamente il valore originario. Genitori che urlano dagli spalti cose inascoltabili contro bambini di altre squadre, sguardo individuale che sposta l’interesse solo sul proprio figlio e sulla possibilità o necessità che diventi un campione. Smarrimento del valore dello sport di squadra. Incapacità di stare dentro il proprio ruolo e di tollerare che altri (gli allenatori) possano decidere per tuo figlio anche perché magari ne sanno più di te. Il rugby invece mi restituisce un’immagine differente. Forse perché è uno sport di nicchia, forse perché anche io subisco il preconcetto (positivo) che gira intorno a questo sport, forse perché è ancora uno sport che pare rimanere ai margini rispetto al mondo del Business.

Poi lo incontro direttamente, il Rugby.

Incontro il RugBio. Associazione sportiva che pratica il Rugby sociale. Lo incontro perché il presidente della società mi chiede di fare una formazione per i loro allenatori, che lui chiama Educatori. Quando Incontro Alessandro Acito mi accorgo che ciò che mi racconta mi piace. Mi ferma quando provo ad elogiare il Rugby raccontandomi del preconcetto che avvolge il Rugby tutto. Mi spiega che anche li troverò alcune deformazioni sportive che di solito si trovano sugli spalti di altri sport, che anche lì troverò qualche dopato, qualche genitore che non si tiene, qualche condizionamento da fama facile. Già, perché se, come genitori abbiamo maturato un modo maldestro di approcciare agli sport, nulla diventa esente, nemmeno il Rugby ovviamente. Mi racconta anche di altro però. Mi spiega di come hanno deciso di provare ad usare il Rugby, in quali quartieri, con quali ragazzi e ragazze e soprattutto mi racconta cosa chiede ai suoi Educatori. Ecco che torna. Niente allenatori, educatori. Mi dice che vuole che siano formati, che ci tiene che sappiano cosa fare con i ragazzi. Sembra interessato soprattutto all’impatto educativo del lavoro in campo. Sembra che in primo piano, in sintesi, ci siano la questioni educative. Ovviamente la cosa non può che piacermi. Sia perché è il mio lavoro sia perché, almeno per i ragazzi e le ragazze, lo sport dovrebbe essere un’esperienza educativa, prevalentemente. Di questo sono convinto da sempre. Un’esperienza dove si imparano le tecniche di quello sport (didattica) ma soprattutto dove si imparano cose utili per la vita tutta (educativa). Il vecchio binomio didattica ed educazione che torna in primo piano. Quel binomio su cui dovrebbe tenere lo sguardo forte anche la scuola, magari provando ad orientarsi maggiormente sul valore educativo dell’esperienza scolastica, perché il valore dell’esperienza didattica, mi sembra, in generale, discretamente presidiato. Perché educazione e didattica non si possono distinguere, separare, perché si impara meglio se ci si riconosce nella relazione con gli insegnanti, con i propri compagni e soprattutto se si riconosce il valore, per la propria vita, di ciò che stiamo imparando. Orientando lo sguardo sul valore educativo dell’esperienza scolastica aiutiamo i nostri ragazzi a sperimentare e costruire relazioni significative con altri adulti al di fuori della famiglia. Li aiutiamo a costruire competenze relazionali utili e spendibili immediatamente, insomma.

Qualche settimana dopo, con grande curiosità incontri gli allenatori, che io mi ostino a chiamare così. Condizionato dalla mia esperienza, dal mio modo di vederli, da come li ho visti nella mia lunga carriera di giocatore di basket. Per me sono allenatori. Per Alessandro, Educatori e Educatrici. Quando li incontro capisco perché. Capisco perché lui ci tiene a chiamarli così, capisco come li ha scelti, capisco che davanti c’è l’educazione dei ragazzi, la capacità di imparare a stare insieme, la gestione dei fallimenti, il lavoro di squadra, la lealtà, l’uso corretto della forza. Incontro un gruppo di uomini e donne interessati ad imparare, la formazione va via veloce, bella e fluida. Tante domande, affondi, mi accorgo che sposto in alto anche l’asticella dei contenuti che porto. Mi accorgo che la formazione assomiglia sempre di più alle formazioni che faccio per gli Educatori Professionali. Ora capisco perché Alessandro li chiama così.

Mi innamoro. Son fatto così. Formare un gruppo di Educatori del genere mi fa bene. Mi vien voglia di rincontrarli (facciamo due incontri) e di progettare spazi di formazione per e con loro. Mi vien voglia di mandarci mia figlia (che però oramai è innamorata del basket) e di mandarci i figli degli altri. Mi vien voglia di raccontare di loro. Su Fb e qui in questo articolo. Non solo perché mi piacciono, ma perché il valore di quello che portano è alto. Uno sport inclusivo (c’è spazio per tutti), in cui ci si sporca e si fa fatica. Uno luogo dove imparare soprattutto a gestire la propria aggressività, ad usare la propria forza, dentro vincoli e regole definite.  Uno spazio per imparare a vivere mentre si impara a giocare a Rugby.

L’ASD RugBio nasce nel 2014, lavora nei quartieri o nelle realtà dove spesso pare più complesso lavorare. Li trovi a Cusago, Quarto Oggiaro, Besate e Abbiategrasso. Li trovi Qui e su Facebook. Li trovi soprattutto in campo, belli, sporchi, pieni di lividi e felici. Li trovi, se hai voglia di cercarli.

Da più di un anno, lavoro con loro. Alcune delle cose che abbiamo fatto le potete trovate nel Blog che abbiamo aperto. Uno spazio condiviso con gli educatori e i genitori. Un blog degli adulti del RugBio.

Christian S.

6 dicembre 2018. Scuola per educatori professionale. Io la chiamo ancora così, son della vecchia guardia. In verità mi trovo davanti agli studenti e alle studentesse del corso di laurea per educatore professionale del Don Gnocchi. Aula bella e accogliente, un bel gruppo: 40 tra studenti e studentesse che frequentano il terzo anno del percorso di studi,  un gruppo di futuri educatori professionali, alcuni forse già in servizio.

Ho avuto spesso il privilegio di parlare del mio lavoro davanti agli studenti. Io con quel taglio sporco, meticcio, non sempre elegante. Non proprio un accademico, insomma. Ancora oggi mi chiedo cosa ci trovino gli altri di interessante nel mio modo di raccontare. Ma evidentemente c’è qualche cosa che funziona. In fondo è la stessa domanda che mi faccio quando scopro che ci son persone che leggono ciò che scrivo. E’ l’effetto di un percorso di studi zoppicante, in cui le restituzioni sulle competenze son state scarse e dove ho imparato ad affrontare soprattutto le fatiche. Le competenze le ho scovate da quando lavoro.

Mi invita Paola Eginardo, docente del corso di Metodologie dell’educazione professionale III (modulo scrittura professionale). Questa volta e per la prima volta, a parlare di scritture in rete e dei post che scrivo nei miei blog. Pare che a Paola piacciano e invita a parlare di scrittura uno che con la scrittura litiga e ha litigato da anni. Ma lei non forse non lo sa, perché ciò che vede è il risultato di un lungo lavoro di autoformazione e autocorrezione avvenuto anche attraverso l’uso del blog. Sì, perché ho imparato a scrivere, anche grazie al desiderio di raccontare agli altri (la scrittura in rete ha anche questa funzione). Perché scrivere sul blog ti espone allo sguardo di centinaia, migliaia di persone e quindi ti costringe ad avere grande cura di ciò che pubblichi. Ho riletto ogni post, centinaia di volte. Alcuni post sono ancora in bozza. Alcuni a furia di leggerli son finiti nel cestino.

Inizio il mio intervento proprio parlando del mio rapporto con la scrittura. Un rapporto ambivalente. L’ho odiata per anni, perché l’attenzione per evitare errori e orrori grammaticali mi è sempre costata una gran fatica. L’ho amata tanto nella versione moderna, perché ho trovato un modo di scrivere, il mio modo.  A quarant’anni mi ha fatto impazzire di nuovo la scrittura della tesi perché sono stato costretto a scrivere in modo più formale, attento ad uno stile che non mi appartiene. Mi emoziona invece quando mi accorgo che 15mila persone hanno letto un mio post, lo han fatto girare, condiviso, usato come se fosse loro. Mi sorprende il piacere che ho oggi di scrivere e la rabbia per non poterlo fare con costanza.

Quello che racconto è la storia di un cambiamento, io che di questo mi occupo. Un cambiamento nato dalla sfida con quella vocina interna che mi rimandava continuamente di lasciar stare, di occuparmi di altro. Quella vocina figlia, anche, di quello che alcuni insegnanti incontrati mi avevano lasciato. Una sfida iniziata invece grazie alla voce di un’altra docente, incontrata in tarda età. Una di quelle docenti che, se tieni le orecchie aperte, ti cambia la vita. Una docente che ha il nome di un fiore, come mia figlia e forse non è un caso.

Parlo di me, dei colleghi incontrati nel percorso di Snodi Pedagogici, del prezioso valore dell’incontro, avvenuto tramite la scrittura in un percorso comune che non ha nessuna storia simile in rete, soprattutto in ambito educativo. Un incontro simmetrico, alla pari e per questo doppiamente di valore. Snodi Pedagogici è un percorso di scrittura contemporanea e collettiva. Una bella storia,  insomma. Un gruppo di esperti di processi educativi che scrive partendo dallo stesso tema, che invita altri a scrivere e lo fa per un anno, tutti i mesi, raccordandosi attraverso la rete, senza essersi  mai visti. Un percorso che potrebbe essere tranquillamente il tema (o il titolo) di una tesi di una laurea in scienze della comunicazione.

Racconto di quello che abbiamo scritto e della necessità e del valore dello scrivere di educazione. Del bisogno che il nostro mondo ha di raccontare lo sguardo e le pratiche educative. Della scarna bibliografia presente che racconti “storie di educazione” in un mondo pieno, invece, di saggi e manuali di pedagogia e del bisogno di far cultura dell’educazione anche attraverso il racconto di storie, pensieri e riflessioni su ciò che gli educatori fanno tutti i giorni.

Il blog è stato, per me, anche un modo di dar valore alle pratiche e ai pensieri di altri colleghi e colleghe. Non ho scritto solo io, per fortuna, ed è stata un scelta che ho provato a conservare nel tempo.

Racconto loro di quanto sia inutile confrontare la scrittura accademica con quella dei blog, di quanto siano lontane, di quanto sia possibile trovare il proprio modo di scrivere e di quanto sia importante imparare a scrivere in ambito professionale. L’uso della scrittura non giudicante, non interpretativa, il presidio di ciò che è avvenuto tra l’educatore e gli utenti. Parliamo di quanto sia possibile, attraverso la scrittura di un post dedicato ad un uomo politico, dire alcune cose ai propri colleghi, ad una categoria intera di persone e lavoratori.

Mi piace parlare agli studenti, coordinare i tirocinanti, i ragazzi e le ragazze in servizio civile. Mi piace perché credo fortemente nel valore del passaggio di competenze e soprattutto nel rapporto tra maestro ed apprendista. Amo da sempre l’idea di poter lasciare agli altri ciò che ho imparato. In questo ambito non ho nessun richiamo competitivo. Gli incontri professionali hanno sempre avuto per me il medesimo obiettivo, lasciare e prendere competenze. Sempre.

Ci salutiamo, li ringrazio. Per me non sono quasi mai ringraziamenti formali, perché dall’esperienze che faccio, soprattutto quelle che mi piacciono, nasce sempre qualche cosa. Un post, un’idea, una riflessione o un nuovo progetto professionale. Son fatto cosi. Mentre torno a casa penso alle domane che mi han fatto e mi viene in mente un’immagine, una di quella immagini che ritorna da sempre, quella che richiama il bisogno di relazione tra chi ha attraversato un percorso professionale e chi lo deve iniziare. Il maestro e l’apprendista. Immagine perfetta per chi come me ama la Saga di Star Wars.

Mi richiama fortemente una domanda che mi è tornata in mente soprattutto durante l’approvazione della Legge 205.

Di cosa hanno bisogno degli educatori?

La mia risposta è: c’è bisogno di apprendistato. Di spazi di lavoro che permettano di dar valore all’incontro tra chi lavora da anni e i giovani educatori. Uno spazio in cui si insegni a ”fare educazione” praticandola. Spazi di passaggio delle competenze, trucchi e idee, uno spazio che valorizzi l’esperienza degli educatori che son sul campo da 25 anni e che contemporaneamente non lasci soli i giovani colleghi. Uno spazio “altro” rispetto a supervisione e formazione.

Sprecare l’opportunità di poter valorizzare gli apprendimenti e le competenze maturate dagli educatori che lavorano da anni sarebbe un sacrilegio. Non riesco a trovare un’altra parola per descriverlo.

Quello che manca, però, è la formalizzazione di uno spazio di pratica del lavoro educativo fianco a fianco. Uno spazio che restituisca ai “maestri educatori” il valore prezioso di accompagnare gli “apprendisti educatori” nel loro percorso formativo, all’inizio della loro carriera professionale, in un’ottica differente da quella che abbiamo praticato fino ad ora. In un’ottica che non lasci, a livello discrezionale alle cooperative la responsabilità di farlo o meno. Il lavoro educativo è un lavoro che, in alcuni tratti, assomiglia tanto ad un lavoro artigianale e che quindi necessità del trasferimento della “scatola” degli attrezzi di lavoro. L’apprendistato andrebbe reso obbligatorio, certificato, fuori dal fastidioso utilizzo odierno, che mi pare solo un trucco per risparmiare soldi sui contratti.

Abbiamo bisogno, passatemi la analogia cinematografica, di costruire le condizioni perché i vecchi Jedi accompagnino i giovani apprendisti ad imparare l’uso della spada, altrimenti rischiamo di farci male. Tutti. E di far male il nostro lavoro.

Sarebbe interessante, accanto alle legge 205 (quella dedicata agli educatori e ai pedagogisti), provare a dare forma ad un percorso di apprendistato formativo, magari anche selettivo, che permetta ai giovani educatori di essere accompagnati nei primi anni di carriera. Una parte integrante del percorso formativo istituzionale che dia valore e ruolo anche agli educatori senior presenti nelle cooperative e negli enti locali. Un percorso che, attraverso la formalizzazione di responsabilità e ruoli, possa essere utile anche per proteggere i giovani colleghi dall’essere gettati soli dentro i servizi e di conseguenza anche per proteggere gli utenti dei servizi.

Mi chiedo se le facoltà Universitarie che formeranno gli educatori e le educatrici avranno voglia, tempo e spazio, soprattutto ora che saranno detentrici dell’ unica formazione professionale certificata,  per strutturare un percorso formativo differente?

Christian S.

PS: Grazie di cuore a Paola Eginardo per lo sguardo ampio che pone sull’educazione professionale, anche nelle sue forme non accademiche. I suoi studenti sono fortunati, spero che lo abbiano capito.

Agli studenti che si iscrivono alle facoltà che formano gli educatori e che investono tempo e fatica per continuare a fare uno dei lavori più belli del mondo.

Alle donne con i nomi dei fiori. Preziose, più di quanto immaginano, anche per giovanotti di trent’anni.

A mia moglie. Perché senza di lei alcuni di questi post non sarebbero stati mai pubblicati. Lei sa perché.

roberta18 anni è l’età dei sogni è l’età del desiderio, che si fa concreto, di spiccare il volo.

Ma non i miei 18 anni bruscamente e maldestramente interrotti da parole inaspettate. Parole mediche che sentenziano senza lasciare spazio alle speranze. Senza lasciare alcuno spazio alla mia gioia quotidiana, lo sport.

Lo sport praticato diventa solo rimpianto o a tratti uno sbiadito ricordo.

Poi tanti, tanti anni dopo,  mi sorprendo a vivere  il mio corpo… quasi come una parte “altra” da me… si modifica, non risponde più ai pensieri della mia mente, fatica. E insieme a lui fatico anch’io a riconoscerlo , a gestirlo e a domarlo nei momenti più difficili. Non mi piace, mi infastidisce!

Mi ritrovo un corpo che sento  estraneo, un corpo che va accudito. Per lo meno, nella dimensione più pubblica in alcuni casi e in quella più privata negli altri. Un corpo che viene sorretto, accompagnato, protetto, aiutato, sostenuto, curato… un corpo con disabilità che quindi attiva sguardi e allontana contatti.

Lo sport rientra dalla finestra attraverso la gioia e la passione di mio figlio, non posso farne a meno mi piace, riaffiorano i ricordi, le emozioni e le sensazioni vitali. Penso che poter tifare sia già una grande opportunità. Passano i giorni, le settimane, i mesi e  anche qualche anno.

E’ sempre più complesso restare a guardare ma, la mia vocina interna, ad ogni barlume di desiderio impellente, mi riporta al corpo, al mio corpo… bloccato, stanco, incapace… impaurito.

Per caso…chissà se proprio per caso… scopro che nella mia città comincia un progetto di basket in carrozzina per bambini, mi sembra un sogno che si realizza anche se quella mia fastidiosa vocina non si lascia desiderare “ma dove vai? Sono tutti bimbi…cosa c’entri tu… e poi cosa ne diranno Maja e Leo si vergogneranno? …”

Insomma decido di imbavagliare la vocina e osare.

Basta poco per sorprendermi, per riscoprire anche altre proprietà del mio corpo. La sedia mi permette di correre come una matta da una parte all’altra del campo in piena autonomia , veloce o piano… come voglio, per quanto voglio e se lo voglio! Sono sola senza sostegni, accompagnamenti, protezioni… Sono io che finalmente incontro altri corpi che tornano ad essere parte delle persone stesse.

E così il basket in carrozzina compie la magia…  mente e corpo si ritrovano. La mente pensa, propone , incoraggia …il corpo risponde.

Si potrebbe forse pensare che con ogni sport questo sia possibile … no, non credo. Il basket in carrozzina ti impone di andare verso l’altro…di cercarlo, di inseguirlo, di attenderlo ma soprattutto   di scontrarti. Va a recuperare e ripropone simbolicamente attraverso il rumore e i contraccolpi delle carrozzine l’incontro tra i corpi… Non più solo sorretti, accompagnati, protetti ma lanciati uno verso l’altro in modo spericolatamente meraviglioso.

Di Roberta Di Martino.

“Compagna di Davide e mamma di Maja e Leo. Educatrice, pedagogista, mediatrice familiare e formatrice, insomma “in viaggio”. Ho una caratteristica rara, la malattia di Pompe. Ho così l’opportunità di esplorare contemporaneamente due sguardi della relazione di aiuto, sono al tempo stesso utente ed operatore dell’agire educativo. Fortuna o sfortuna? Non so, però è sicuramente una grande occasione.”

Non sono un estimatore della legge. Non mi piace. Chi mi conosce personalmente lo sa.

Perché?

Principalmente perché tiene ancora separati gli educatori che provengono da Medicina e i laureati in Scienze dell’Educazione. E’ una divisione che non condivido, che mi pare solo il frutto di una diatriba tra Università. E’ una divisione che non mi convince nemmeno dal punto di visto tecnico e scientifico, perché l’educazione professionale è una. Se si voleva “specializzare” maggiormente gli educatori bastava fare un terzo anno in cui poter scegliere l’area, l’utenza o il servizio su cui concentrarsi. Ma forse era troppo facile. Il testo della legge non mi convince fino in fondo perché è pieno di buchi, imperfetto, con alcune gravi lacune. Un legge che si presta a molte interpretazioni e ad alcune forme di ingiustizia. La principale forma di ingiustizia è quella che porta a scaricare, anche sui lavoratori, i costi degli errori e delle scelte dalle Università in sede di avvio dei corsi di formazione specifici. Un testo fatto, almeno apparentemente, senza conoscere a fondo il mondo dell’educazione. Un testo che colloca le funzioni di coordinamento, giusto per fare un esempio, dentro un percorso (Scienze Pedagogiche/Pedagogia) che non forma, almeno fino ad oggi, i coordinatori dei servizi educativi. Almeno non in modo specifico. Una testo che scritto così rischia, quindi, di tagliare fuori gli educatori e le educatrici dalle funzioni di coordinamento dei servizi, magari a discapito di laureati magistrali provenienti da triennali di altro tipo. Una legge che porta con sè, inoltre, un grave “dimenticanza”, visto che non prevede nessuna forma di tutela per chi coordina da anni e che dopo l’approvazione della legge, probabilmente, non lo potrà più fare.

Giusto per esser chiari, ad oggi ci sono in giro alcuni percorsi specifici (Parma, Roma, tempo fa anche Milano) per formare i coordinatori e le coordinatrici e forse sarebbe necessario fossero molti di più, ma dovremmo partire dalle reali competenze necessarie per coordinare un servizio socio educativo, non da un’idea di competenze. Se vogliamo stare su ciò che dice DDL 2443, andrebbe ricordato che la magistrale in scienze pedagogiche, nella maggior parte dei casi, forma professionisti e professioniste per ruoli di secondo livello, ma il coordinamento dei servizi, pur rientrando nelle funzioni di secondo livello, è altra cosa, insomma. Necessita di competenze specifiche assai differenti.

Il DDL 2443 (il ddl Iori) è una legge che cerca però di mettere ordine, dove ordine ad oggi non c’è. Una legge che permette di sanare, finalmente, chi da anni lavora come educatore senza una formazione accademica specifica. Una legge che traccia una linea di pensiero (quando chiede alle università di lavorare per il profilo unico) e che potrebbe essere un punto di partenza per andare nella direzione che io auspico. Se dovesse passara, il DDL 2443 cambierà sicuramente il settore dell’educazione professionale. In meglio? Io lo spero, vivamente.

Ho un rapporto distante da questa legge. Chi mi conosce lo avrà capito e magari si sarà anche chiesto il perché. E’ una legge di cui personalmente non ho mai sentito la necessità, perché da 20 anni lavoro, insieme a molti colleghi e colleghe, per far cultura educativa, dando valore allo sguardo degli educatori e delle educatrici. Dove lavoro io la legge è già arrivata, si assumono educatori per far gli educatori, i bandi son fatti così, chiedono educatori per far gli educatori e psicologi per fare gli psicologi. Gli educatori si inquadrano al livello corretto (D2), poi se qualche cooperativa fa qualche furbata, questo è un altro discorso. Dove lavoro io si fa formazione, supervisione, anche e soprattutto con taglio pedagogico. Non abbiamo aspettato il DDL 2443, abbiamo lavorato con i dirigenti e le dirigenti degli enti locali per dar valore agli sguardi multi professionali, per integrarli e differenziarli. Abbiamo costruito servizi in cui gli educatori hanno un ruolo importante, sempre di più. Dove lavoro io si fa formazione sull’identità professionale degli educatori e delle educatrici, ciclicamente, perché l’identità si trasforma continuamente. Perché un’identità esiste anche in assenza della legge, il problema è imparare a riconoscerla e nominarla.

Non mi piacciono i movimenti di alcune associazioni di categoria, più interessate a mostrarsi per raccogliere soci che a lavorare per gli interessi di chi fa educazione. Non mi piacciono perché dove lavoro io la cultura educativa l’han fatta gli educatori e le educatrici, i coordinatori, le coordinatrici, i dirigenti e le dirigenti degli enti locali e il terzo settore, senza bisogno di nessuna associazione. Non mi piace chi rappresenta 250 persone e si pone come se ne rappresentasse 200 mila. Gente che si è permessa di chiamare “abusivi” i colleghi e le colleghe che per anni han tenuto in piedi i servizi educativi quando le Università e le istituzioni ancora non si erano accorti del mondo degli educatori. Questa gente non mi rappresenta. Dove lavoro io le associazioni di categoria non si son mai viste, eppure gli educatori e le educatrici godono di grande rispetto. Prima di rappresentare “gli altri” bisognerebbe imparare a rispettarli “gli altri”. Non mi piacciono, infine, le Associazioni che sembrano Sindacati. E’ un barbatrucco troppo evidente, insomma. Non mi piace chi cerca di appropriarsi di una legge, come se fosse una proprietà individuale.

Ci sono persone, dentro le associazioni, che mi piacciono, alcune anche parecchio. Ma questo è un altro discorso. Mi piacciono questi colleghi e colleghe perché non hanno aspettato la legge. Han fatto cultura, scritto di educazione, gestito gruppi, impegnato tempo, parlato di educazione, senza aspettare il DDL 2443. Son colleghi e colleghe che sono dentro le associazioni ma non “sono” le associazioni. Colleghi e colleghe che hanno una visione critica di ciò che osservano, fuori dalle visioni ideologiche.

Non mi piace la legge ma spero sia approvata, perché in questo caso credo sia meglio una legge “imperfetta” a nessuna legge. Di solito non sono uno che si accontenta, ma in questo caso sento che sia necessario partire da qui, da questa legge, per come è fatta. Sperando, ovviamente, di poterci mettere mano in un secondo momento. Spero sia approvata anche se la mia fiducia verso i parlamentari odierni è bassa e non per una posizione ideologica o qualunquista, ma per gli effetti di ciò che vedo. Un gruppo di senatori e senatrici che ha aspettato l’ultima settimana per cercare di approvare una legge importante per una intera categoria di professionisti e professioniste. Una legge che è in Parlamento da oltre 3 anni, approvata alla camera a giugno 2016 e che arriva solo oggi in Senato, è il segno di un ritardo imbarazzante. Fidarsi in futuro di chi ha posto così poca attenzione verso una legge così importante è un atto di coraggio, di fede o di follia. Scegliete voi.

Spero che il decreto venga approvato nonostante rimangano aperte alcune domande:

  • Saremo poi capaci di cambiarla?
  • Saremo capaci di sanare la frattura tra educatori socio-sanitari e socio-educativi?
  • Saremo capaci di non cedere alle derive di  specializzazione che l’educazione professionale sta prendendo?

Mi porto dietro questi dubbi, perché ho la sensazione che l’approvazione della legge rischi di frenare ogni altro impulso. Saremo capaci di continuare a far cultura dell’educazione quando la legge sarà approvata, perché l’identità di un popolo la fa il popolo stesso, non una legge.

Come dicevo tempo fa ad un collega che stimo, da cui ho preso la foto che trovate nel post, spero che la legge sia approvata anche perché son curioso di vedere cosa avranno da dire i colleghi e le colleghe che in questi anni han parlato solo del DDL 2443; quei colleghi che ne hanno parlato usandolo spesso come alibi, raccontando che senza un riconoscimento sembrava non si potesse fare nulla, utilizzando la mancata formalizzazione della legge Iori per posticipare il loro pezzo di responsabilità nella produzione di cultura dell’educazione. Parlare solo della legge è stato un modo per scaricare la responsabilità su altro fuori da se stessi.

Spero che sia approvata perché so di essere stato anche fortunato, di essere capitato in un territorio e dentro una cooperativa che crede e ha creduto nel valore dell’educazione professionale. Spero nell’approvazione perché altri colleghi non son stati altrettanto fortunati e credo che la legge possa aiutarli ad avere una cornice dentro cui muoversi.

Spero sia approvata, anche se penso che la legge, da sola, non ci proteggerà. Non ci proteggerà se non avremo altro da dire al mondo dell’educazione, se continueremo a cercare alibi, il prossimo sarà l’albo. La legge non ci darà, da sola, il riconoscimento, soprattutto se non saremo nelle condizioni di mostrare chi siamo e quello che sappiamo fare.  La legge non ci aiuterà a lavorare meglio, forse aiuterà a lavorare. La qualità di ciò che faremo dipenderà da noi. Nel mondo educativo ciò che abbiamo imparato a scuola o in Università non basta.  La dignità del lavoro educativo la si guadagna con la qualità del lavoro. Il resto, secondo me, sono alibi.

Fatemi un piacere, approvate il DDL 2443, così magari possiamo tornare a parlare anche di altro.

Per chi avesse voglia di approfondire, sul numero 311 di Animazione sociale c’è un’intervista di Ota De Leonardis che apre alcune interessanti riflessioni in merito. Vi consiglio di leggerla.

Christian S.

Eccovi il post e la mia intervista per 400 Colpi. Grazie a Simone Lanza.

Parlo dei miei blog, del mio percorso in rete, di alcune scoperte fatte negli ultimi anni e soprattutto di  educazione. Professionale e Naturale.

Buon ascolto e se vi viene la voglia di darmi qualche rimando o di ragionare su qualche tema non dovete far altro che scrivere. Io ci sono.

Christian S.

https://400colpi.net/2017/05/12/paternonline/

 

Gentilissimo Matteo,

ho deciso di scriverle per aiutarla a capire, forse perché gli educatori e le educatrici partono sempre dal presupposto che ci sia spazio per cambiare, per fare un passo indietro e addirittura per ammettere di aver sbagliato. Per noi c’è sempre spazio per riparare, insomma, anche quando come nel suo caso, lo spazio pare non esserci. Siamo fatti così. Quasi tutti. Non ci arrendiamo all’idea che non ci sia nulla da fare. E’ una delle nostre forze.

Le scrivo perché martedì 2 maggio, durante l’intervento della polizia in Stazione Centrale a Milano, lei ha insultato gli educatori, una categoria intera di uomini e donne che fanno un lavoro delicato.

Un lavoro, capisce Matteo?

Uno di quei lavori per cui ci si prepara, si studia e poi si va a lavorare. Un lavoro serio. Non c’è nulla da ridere, insomma.

Le scrivo perché questa categoria di persone è preziosa, per tanti cittadini, famiglie, ma anche per lei, perché il lavoro educativo ha un impatto sociale e indirettamente produce un effetto anche su chi, da lontano e dal suo pulpito, lo svaluta come ha fatto lei.

Le scrivo perché il rispetto è importante, rispetto delle persone, delle competenze e dei ruoli. Il rispetto è ciò che portiamo noi alle persone che incontriamo, un rispetto che pare invece mancare altrove. Il rispetto per un lavoro delicato, difficile, mal pagato e a volte anche rischioso. Il rispetto per una categoria di professionisti che accompagna adulti e bambini dentro le loro difficoltà, nelle loro sofferenze e dentro esperienze che nessuno vorrebbe mai affrontare. Lo stesso rispetto che le è mancato martedì 2 maggio 2017.

Le scrivo perché la nostra società rimane in piedi, anche grazie al lavoro di tanti educatori ed educatrici, che aspettano il rinnovo di un contratto da 5 anni. Professionisti che continuano a far bene il loro lavoro nonostante altri  (lei compreso) in questi anni abbiano fatto poco per risolvere i problemi di un categoria intera, se non tagliare servizi e quindi opportunità di lavoro.

Le scrivo perché mentre lei girava i suoi video c’erano persone che si prendevano cura degli altri, di anziani, persone con disabilità, adolescenti all’interno dei circuiti penali, minori non accompagnati e minori maltrattati e abusati. Famiglie intere in situazioni di fragilità. Le scrivo perché lei non sa nulla di educazione professionale e perché uno dei nostri obiettivi è anche quello di informare e aiutare le persone a capire. Facciamo anche questo. Orientiamo le persone nei loro percorsi di vita. Ci proviamo, proprio come sto facendo io con lei. Poi sta ad ogni persona provare a capire, prendere e costruire la propria strada.

Come dire Matteo, io provo a spiegarle, poi se non capisce è tutta responsabilità sua.

Le scrivo senza giudicarla, perché è quello che facciamo noi. Non giudichiamo le vite degli altri, le ascoltiamo, le accogliamo e poi proviamo, insieme a cambiare direzione. Impariamo continuamente dagli incontri che facciamo e lo facciamo perché il nostro lavoro è prezioso e soprattutto delicato. Delicato proprio come il suo.

Scrivo a lei, ma potrei farlo con tanti suoi colleghi, gli stessi che nel silenzio di questi anni, han svalutato il nostro lavoro, occupandosi sempre di altre questioni. Gli stessi suoi colleghi che si sono assunti la responsabilità di produrre sul nostro sistema sociale ed educativo parecchi danni. Soprattutto in alcune regioni.

Scrivo a lei come potrei scrivere a quei cittadini che parlano del mio lavoro non sapendo nulla. Scrivo a lei perché la sua fragorosa risata di martedì è offensiva e credo che lei se ne debba assumere la responsabilità. Sarà in grado di farlo? Fino ad oggi pare di no.

Scrivo a lei soprattutto perché ha una responsabilità politica e quindi ha anche una grande responsabilità rispetto a ciò che fa e dice. In questo caso si è preso l’onere di insultare una categoria intera di professionisti e professioniste. Ci tenevo a farglielo sapere.

Il popolo che ha umiliato con quella risata è un popolo misto, religioso e laico, proveniente da differenti estrazioni sociali ed età. Persone che si sono formate, hanno letto, ascoltato e continuano a farlo. E’ un popolo eterogeneo, fatto forse anche di persone che avrebbero voluto votarla alle prossime elezioni. E’ un popolo che spero ricordi le sue parole e la sua risata.

Siamo però un popolo resiliente, abituato a prender botte e insulti. Abituati anche, aimè, a non essere riconosciuti e a lavorare sulla propria identità professionale. Ma siamo anche un popolo che non si fa umiliare facilmente. Le è andata male questa volta.

Le scrivo spinto da un desiderio individuale, non cerchi connessioni con associazioni di settore, partiti o movimenti. Le scrivo da educatore. Questo faccio e questo farò nei prossimi anni. Giusto per anticipare ogni possibile, suo e di altri, desiderio di strumentalizzare questo post. Non è un attacco politico. E’ un tentativo di aiutarla a capire che quando non si sa nulla di un argomento si possono fare due cose: informarsi e chiedere a chi ne sa, oppure si può anche decidere di tacere. Non è indispensabile, insomma, occuparsi di tutto.

Le scrivo, infine, perché il lavoro educativo è un lavoro bellissimo. E’ il mio lavoro e io non permetto che venga svalutato, né da lei né da altri.

Chiudo rimandandole un concetto che considero molto importante: gli educatori e le educatrici sono un popolo che si assume, tutti i giorni, responsabilità che lei nemmeno immagina. Un popolo che avrebbe da insegnarle, almeno sulla responsabilità, molte cose, questo glielo posso assicurare.

Christian Sarno – Educatore  Professionale.

Per chi se lo fosse perso. Ecco il video

Giornata di formazione. Gruppo di capi scout. Attenti, motivati, appassionati e disponibili a mettersi in gioco. Una giornata intera di formazione di sabato. Quasi eroici, mi verrebbe da dire.

Alzi la mano chi nel suo tempo libero si è mai piazzato in un parco a parlare di prevaricazioni, cyberbullismo e regole?

Il tema centrale sono le prevaricazioni. Porto un affondo sulle regole e sulle modalità di trattarle, tematizzarle e sui rischi connessi. La discussione si sposta sulla colpa. Facilmente. Succede nel guardare i ragazzini che si accompagnano, succede riguardando le proprie azioni. Succede che il senso di colpa schiaccia e appiattisce. Sposta tutto su desiderio di scusarsi, di pentirsi e di espiare.  E’ difficile non caderci, capita anche a me, nell’analisi della azioni che faccio. Soprattutto da padre, ma anche da professionista.

Succede perché la colpa è pervasiva, culturale, vive e si annida nel profondo. Talmente profonda da immobilizzare o da portare al desiderio di chiudere. Troppo dolore.  Meglio scusarsi e finirla qui. Fa così anche mia figlia. Quando sente che non ha voglia, né spazio per andare avanti. Chiude. Si scusa e prova ad andarsene. La sua fortuna che io non la mollo. Non la mollo perché non voglio che si senta in colpa e soprattutto perché non voglio che tagli corto quando si parla invece di responsabilità.

Ecco il punto: colpa e responsabilità. Bella coppia.

Mi accorgo che la differenza tra colpa e responsabilità non è scontata. La prima, la maledetta colpa, guarda l’individuo, nella sua interezza, parla alla pancia, alle emozioni. Parla di qualche cosa che è sbagliato, mette al centro una specie di senso di tradimento della relazione. Hai sbagliato, ti devi scusare, lo devi fare con me, perché io sono la vittima. Hai trasgredito le regole. Hai tradito anche me, proprietario delle regole. Diventa una questione personale, di rapporto. Conduce in una unica strada, ad un unico modo di uscirne; le scuse. Scusarsi, anche provando a rassicurare che non succederà più. Quante volte abbiamo sentito “non lo faccio più” uscire dalla bocca dei bambini. Promettere di non farlo più vuol dire mettersi in un’ottica pericolosa, dove l’errore viene visto sono in un’ottica di non ripetizione. Ma l’errore è anche altro. E’ prezioso per conoscersi, per imparare a tollerare le imperfezioni degli altri, per scoprire strategie di risoluzione dei problemi, per imparare che siamo esseri imperfetti e che l’errore stesso non è una deviazione della strada maestra, ma parte della strada stessa. Perchè gli errori non si evitano, si affrontano.

Dall’altra parte c’è la responsabilità. Che parla del ruolo che stai attraversando, parla di un pezzo di te, di una cosa che hai o non hai fatto. Parla dell’aver fatto. Parla di qualche cosa che ci sembra cambiabile. Trasformabile. La responsabilità parla dell’azione e le azioni si possono fare in modo differente. Parla, a differenza della colpa, di qualche cosa che ci sembra più facilmente modificabile, ci fotografa l’azione che avremmo dovuto fare, magari in altro modo. Se parliamo di responsabilità diciamo ai ragazzi che devono imparare ad assumersela, che devono rispondere di ciò che han fatto. Non gli diciamo che devono scusarsi, pentirsi, insomma. Se parliamo di responsabilità parliamo di futuro, di diventar grandi, di diventar cittadini, responsabili di una parte del modo che stiamo costruendo. Se parliamo di responsabilità non gli chiediamo di fermarsi,  ma di andare avanti. 

Christian S.

PS: Parte del merito di questo post è dei capi Scout CNGEI di Cesano Maderno che mi ha aiutato a mettere a fuoco, meglio, una questione importante e preziosa, su cui ragiono da un po’. Una tema che mi sarà utile nei prossimi tempi, come uomo, padre e professionista dell’educazione.

rovereto

Sono stato al Convegno di Animazione Sociale sui giovani dal titolo Nuove Generazioni e altre generativitàIl 24 e 25 febbraio 2017.

Quando parti per andare in formazione hai sempre la speranza di tornare con qualche nuova scoperta. Non sempre accade.  Questo convegno invece, per me, è stato uno di quei casi. Sono tornato con un sacco di spunti, qualche dubbio e soprattutto con alcune domanda nuove, utili per ri-orientare il mio sguardo e per aiutare gli educatori con cui lavoro a metter pensieri nuovi.

Nuovi sguardi e nuove domande. Ecco come si apre e chiude il convegno: con il suggerimento, per chi si occupa di giovani in ambito socio-educativo di provare a cambiare modo di guardare, di guardarli. Cambiando, se possibile, anche le domande da porsi. Il convegno si chiude con una provocazione forte dell’attore Enrico Gentina. E’ una provocazione importante per chi come me spesso cerca di capire meglio le cose e cerca di capirli.

Cerchiamo sempre di capirli, ed invece…

“E se provassimo a pensare i giovani come supereroi? E invece “non ti capisco, non ti capisco, non ti capisco…”, ma è così necessario capirti? Sapere che ti ho capito? Interrogarmi continuamente perché tu possa sentirti capito, compreso, compresso, svelato…? E se invece mi preparassi al meglio di quello che posso essere e mi mettessi al tuo fianco? Perché noi siamo animali: se scappo tu mi rincorri, se mi abbasso tu ti abbassi, se alzo il livello tu alzi il tuo. L’invito è allora pensare a come mi pongo, a curare il nostro profilo: non quello di facebook ma quello che mettiamo in gioco nella relazione con loro, con i ragazzi.!” (E. Gentina)

A proposito di sguardi: chi organizza il convegno propone relatori dagli sguardi “altri”. Intervengono un pedagogista (Andrea Marchesi), una filosofa (Luigina Mortari), un’ antropologa (Vincenza Pellegrino), una sociologa (Ivana Pais) , un’economista (Roberta Carlini), un architetto (Stefano Boeri), un attore (Enrico Gentina) e la Compagnia del teatro Elfo Puccini. Tutti gli interventi provano a declinare il tema partendo dal proprio punto di vista. Diventa tutto molto interessante perché  fuori dalla deriva propria del mondo dell’educazione odierna. Deriva che spinge a parlar tra di noi, tra chi di quello si occupa, di quello si è formato, di quello vive e mangia. Propone uno sguardo “altro” ma che dell’educazione parla, perché l’educazione è fatta anche da altri. Fatta dagli urbanisti, che incidono sulla struttura delle nostre città, dagli artisti, che narrano dell’educazione, dalle strutture economiche e sociali che cambiano e condizionano anche le interazioni tra adulti e giovani. Mi torna fuori una domanda che da tempo gira per la mia testa.  Una domanda che mi pongo sempre più insistentemente, soprattutto da quando di educazione si occupano, soprattutto, educatori e pedagogisti.

E se fosse, invece, il caso di provare a farci aiutare a guardare l’educazione utilizzando altri sguardi? Se ci fosse il rischio che da dentro ci manchino alcune prospettive? Se stessimo rischiando di guardare il mondo dell’educazione da una prospettiva troppo parziale?

A proposito di giovani: nel pomeriggio, nei workshop, incontro i giovani e i ragazzi del progetto socialday. Un’esperienza che mette al centro il volontariato e la raccolta di fondi per progetti di cooperazione internazionale, dove al centro ci sono loro, i ragazzi. Loro valutano i progetti da finanziare, fanno il bando, si cercano il lavoro, stipulano il contratto e recuperano i soldi. Un progetto che è passato dai 1200 euro raccolti nel 2007 agli 82000 euro del 2016 e ha visto impegnati 8500 ragazzi delle scuole medie e superiori. Un progetto che entra a far parte del POF (Progetto dell’Offerta Formativa) delle scuole e che considera i ragazzi come costruttori di connessioni, come i reali protagonisti della costruzione della rete sul loro territorio. Non male dire.  Incontro l’esperienza e soprattutto incontro loro: 6 ragazzi dai 14 ai 19 anni, ragazzi che discutono con gli adulti, alla pari, senza indietreggiare o aver paura. Senza che la differenza di età e competenze li condizioni in alcun modo. Raccontano in modo chiaro, parlano di loro, ma parlano anche di noi. Quando parlano di noi ne parlano così: Silvia “noi abbiamo bisogno che gli adulti ci appoggino”. Penso a quel “appoggino” e alle parole che avrei usato io o alcuni dei miei colleghi educatori (accompagnamento, insegnamento, aiuto, …). Sento che Silvia ci propone qualche cosa di nuovo, rispetto alla posizione e alla funzione degli adulti e soprattutto degli adulti educanti. Gli adulti resistono all’immagine e alla posizione che i ragazzi ci attribuiscono. Spesso le domande sono connesse al ruolo degli adulti. In questo progetto dove sono gli insegnanti? Gli educatori?. La risposta che ci danno è che ci sono, camminano al loro fianco, ma  il ruolo centrale rimane quello dei ragazzi, che lentamente tessono la ragnatela e connettono tutto ciò che gli sta intorno. Formano loro i compagni, organizzano gli eventi, selezionano i progetti e li votano, raccolgono i soldi. Connettono le realtà del territorio (pubblico, privato e familiare) tutti intorno al progetto e intorno a loro. Io li osservo e mi accorgono che mi piace ciò che mi dicono, mette in discussione alcune cose che pratico, ma mi piace.

Se fosse arrivato il momento di cambiare prospettiva. Non gli adulti, quindi, che accompagnano i giovani all’incontro con il loro territorio, ma viceversa? Se ci facessimo condurre da loro provando a lasciargli la possibilità di indicarci quale è la strada che vogliono percorrere?

A proposito di simmetrie e asimmetrie: L’incontro con i ragazzi mi costringe a fare i conti con una questione per me preziosa che qui diventa assai spinosa. Il rapporto di asimmetria tra adulti e giovani. Il valore dell’asimmetria in educazione, oggetto principale della mia formazione, scricchiola. Vacilla ma non cade. Mi tocca reinterpretarlo. Mi tocca anche fare in conti con una richiesta, un desiderio dei giovani che mi arriva chiaramente nell’incontro con loro. Hanno voglia di far loro, di essere un nodo centrale. Ci chiedono di esserci ma in modo differente. Ci chiedono di non considerarli vuoti, stupidi, ci chiedono di rischiare insieme a loro. Ci dicono di esser pronti. Ci rimandano che sono in grado di aiutarci a guardarli. Ci ricordano, anche attraverso il sociaday, il valore delle altre esperienze di apprendimento peer to peer.

Se provassimo, almeno in alcuni casi, a pensare che l’apprendimento alla pari non sia solo un percorso “esotico”. Una specie di sottoprodotto dell’insegnamento tradizionale? Una questione di poco conto? Se provassimo a dargli lo stesso valore che gli danno loro?

A proposito di ascolto: Alla fine dell’incontro i ragazzi ci rimandano di essersi sentiti ascoltati, lo rimandano con grande felicità e stupore. “Avevamo paura di incontrarvi e invece …. “. Questa sorpresa dovrebbe interrogarci, tutti. Lo stupore ci lascia alcune domande sulle quali forse dovremmo lavorare.

Con quali occhi e con quali categorie di pensiero stiamo guardano i ragazzi? Con quanti e quali pregiudizi? E se fosse venuto il momento di smetterla di dire che noi sappiamo cosa sia meglio per loro e cominciassimo a chiederglielo?

A proposito di generatività: Se fosse il caso di provare a lasciarli generare? Magari noi ci potremmo occupare di costruire luoghi idonei per incontrarli, come diceva Enrico Gentina “prendendoci cura del nostro profilo”.

Christian Sarno

Ps: Ringrazio la Libera Compagnia di Arti e Mestieri Sociali che ha sollecitato, permesso e sostenuto questo mio momento formativo. Cosa che visti i tempi è proprio #tantaroba

viola-scout“Se non fossi stato scout penserei che un foulard sia solo un semplice fazzoletto alla francese e che il nodo piano sia solo un nodo da fare più lentamente degli altri. Se non fossi stato scout crederei ancora che uno zaino non può contenere i ricordi di una vita e che un guidone sia solo una guida turistica più importante delle altre. Se non fossi stato scout saprei ancora vestirmi e non andrei girando in pantaloncini in pieno inverno, rispondendo a chiunque mi dica “ma dove vai vestito cosi”, con un’ espressione al limite tra una smorfia di dolore ed un sorriso: “no, ma non fa così freddo”.Se non fossi stato scout non farei la figura dello spazzino ogni volta che vedo una cartaccia a terra e non avrei le tasche piene di fogli e bustine di plastica. Se non fossi stato scout crederei che le ore 6:00 di mattina siano solo una trovata degli orologiai per riempire gli spazi vuoti di un orologio, ma non avrei idea dell’infinito che si spalanca all’orizzonte quando il sole torna nel cielo dopo una notte d’amore con la luna. Se non fossi stato scout non avrei mai conosciuto il mio più grande amore, la mia chitarra, ma avrei risparmiato i timpani dei miei fratelli del reparto durante i campeggi insieme. Se non fossi stato scout avrei passato l’estate al mare, ignorando il fatto che solo la montagna ti fa comprendere “il senso della tua piccolezza e la dimensione infinita della tua anima”. Se non fossi stato scout penserei ad arrivare prima degli altri durante un’escursione, ed ignorerei totalmente la bellezza di un sorriso che ti regala una compagna in difficoltà quando la aiuti ad andare avanti. Se non fossi stato scout me ne starei a casa al caldo quando fuori piove, ma non avrei mai ascoltato la voce della pioggia sulle foglie degli alberi ed il profumo del sottobosco dopo un temporale. Se non fossi stato scout avrei tanti amici in meno, ma in particolar modo non avrei mai conosciuto fratello fuoco che ti fa compagnia nelle notti più dure, quando la paura di non farcela ti assale la mente e le forze vanno sempre di più a svanire. Se non fossi stato scout crederei che le storie di ragazzi che, con zaino in spalla, camminano per giorni e giorni macinando decine di chilometri in montagna, siano solo leggendarie montature cinematografiche. Se non fossi stato scout non avrei mai combattuto contro Shere Kan e penserei davvero che una pantera ed un orso non possano crescere un cucciolo d’uomo. Se non fossi stato scout non avrei mai scalato una montagna con uno zaino di 10 kg in spalla, ma non saprei che quando sei su, il vento può affogare tutti i tuoi pensieri, se ne bevi abbastanza. Se non fossi stato scout non avrei mai passato notti insonni in una tenda con una pietra a tormentarmi dietro la schiena, ma non mi sarei mai divertito a nascondermi, nelle tende degli altri, dai capi. Se non fossi stato scout, la mattina, invece di fare ginnastica, sarei stato nel letto a dormire, ma non avrei mai “fatto quattro salti in su e mosso un po’ la testa in giù”. Se non fossi stato scout non avrei mai dormito all’addiaccio sobbalzando dal sacco a pelo ad ogni piccolo rumore, ma non avrei mai confidato tutti i miei segreti alle stelle e giocato ad afferrare la luna. Se non fossi stato scout non mi sarei mai innamorato in route, e non avrei mai passato le notti a cercare il coraggio di parlarle, il giorno dopo. Se non fossi stato scout non sarei un uomo con il cuore di un Lupetto, i sogni di un Esploratore e la coscienza di un Rover…”

Forse non servirebbe aggiungere nulla sugli Scout, perché nel racconto trovate già tutto ciò che può esservi utile per capire quale è il valore di un’esperienza educative del genere. Non servirebbe ribadire quanto, ancora di più per i ragazzi moderni, possa essere interessenza fare un’esperienza lontano dalla città, nella natura, un’esperienza di libertà, fatica e di incontro con il mondo. Non servirebbe rimarcare quanto potrebbe essere utile imparare a farcela senza i genitori, imparare ad aiutarsi a vicenda, imparare che le competenze si apprendono, che a volte diventar grandi costa anche gran fatica. Non servirebbe ribadire, oggi ancor di più, quanto sia importante imparare a dividere con gli altri la propria cena e il proprio sacco a pelo oppure quanto sia utile per i nostri figli imparare a prendersi le responsabilità delle scelte del gruppo che si conduce. Si impara ad accettare che i vecchi lupi (così si chiamano gli adulti nel grande gioco scout) si ascoltano in silenzio, perché in un branco (come in un gruppo), i più anziani hanno spesso delle cose interessanti ed importanti da dire. Forse risulta inutile ribadire uno degli elementi che il percorso scout sottolinea in modo costante, ovvero che la protezione dei più piccoli o dei più fragili è un valore fondamentale che permette di stare bene insieme, tutti. Un Valore (lo scrivo volontariamente in grassetto) che non sempre ritroviamo nelle menti e nei comportamenti dei nostri figli.

Solo una cosa, non emerge dal bellissimo racconto: l’esperienza scout è molto più vicina a te di quanto tu possa pensare, sia da un punto di vista culturale, sia dal punto di vista geografico. Lo scoutismo è un’esperienza che mira a produrre cittadini in grado di prendersi le proprie responsabilità nei confronti di se stessi, degli altri e nei confronti del mondo stesso. Gli scout li trovi a pulire i parchi, a costruire case sugli alberi, a cantare e a giocare. Li puoi trovare addirittura a dormire tutti insieme in uno stanzone, giovani e vecchi lupi insieme. Gli scout Cngei (Corpo Nazionale Giovani Esploratori ed Esploratrici Italiani ), se ti è venuta la voglia li trovi facilmente, sono laici, motivati, simpatici (magari non proprio tutti) e aperti ai differenti modi di guardare il mondo. Per avere informazioni ti basta fare un giro sul loro sito (CNGEI) dove trovi tutto ciò che serve scegliere, sempre che tu abbia capito (o desiderio di capire) che cosa faranno fare a tuo figlio. Sempre che tu non abbia paura che si sbucci le ginocchia, perché se è così, forse è meglio che lo tieni a casa, perché a camminare in montagna con lo zaino in spalla si torna sporchi, stanchi, graffitati e con gli occhi ancora pieni di bellezza e libertà.

La storia che avete appena letto gira in rete da tempo, non mi è stato possibile trovarne la Paternità. L’autore mi scuserà. Mi piace anche pensare, però, lasciando volare la fantasia, che sia stato un regalo di un vecchio lupo e che in puro stile scout sia volontariamente senza autore. Perché nel mondo scout non importa chi sei, ma che ruolo, nella grande libro della jungla, interpreti. Il percorso educativo dei lupetti (9-12 anni) è infatti liberamente ispirato al Libro della jungla di Kipling, un testo che consiglio di leggere a tutti i genitori perché pieno di spunti straordinari, utili anche per rafforzare il nostro ruolo genitoriale e nello specifico ciò che attiene alla responsabilità educativa. Utile a ricordarci che la nostra più grande responsabilità è quella di fare dei nostri figlie e delle nostre figlie dei cittadini e cittadine responsabili, rispettosi e solidali. Ci ricorda che abbiamo, come adulti, grandi responsabilità sul futuro della nostra società, più di quello che spesso ci attribuiamo. Il grande gioco scout è uno dei tanti modi per aiutare i nostri figli a crescere, non l’unico ovviamente. Se non ti convince non importa, ti toccherà solo cercare un altro “gioco” che insegni a tua figlia il valore della responsabilità individuale e della condivisione delle esperienze. Buona ricerca allora o come si dice tra gli scout “ Buona caccia”.

Christian S.

Questo articolo è uscito sul numero 4 di Gaggiano Magazine, sempre grazie a Marco Costanzo, che mi permette di assaporare l’odore dei miei articoli su carta stampata.

 

 

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Di Valentina Re.

Inizio a leggere “Mai più sole” con gli occhi dell’educatrice, incuriosita dai possibili spunti professionali che mi aspetto di poter cogliere. 

Nonostante i vari e ripetuti tentativi di Ginevra di boicottare la mia lettura, le parole scorrono veloci e in qualche giorno mi ritrovo ad essere già a poco più della metà. 

Pronta ad iniziare il capitolo “Nuove vite” abbandono, forse meno involontariamente di quanto credo, per circa una settimana, il mio appuntamento serale con le diverse protagoniste, prediligendo serie TV o, ahimè, le Winx. 

Sono resistente e non so esattamente a cosa. 

Cara me, non sfuggi certo a te stessa. Sai bene cosa ti mette in scacco, cosa ti fa vibrare quelle corde sempre tese e quali emozioni sei tanto brava a decantare agli altri  ma un po’ meno alla tua pelle. 

Come qualcuno mi suggerisce “e falla uscire quella lacrima”.

Fare il lavoro che faccio mi mette spesso nelle condizioni di dovermi interrogare su vari e svariati argomenti; genitorialità, solitudine, coesione, appartenenza, paura e distanza. Quella stessa distanza che ancora oggi spesso fatico a mettere tra me e chi ho di fronte ma che ho imparato benissimo a mettere tra la mia testa e la mia pancia, perché a volte quelle sensazioni così vive, sono talmente intense che fanno quasi male ed è un continuo mettere e togliere pezzi di un’ armatura che vanno costantemente incastrati e oliati tra loro.

È lo sguardo che fa la differenza. 

Il modo di guardare e la posizione da cui si guarda e la mia, nel leggere queste quattro storie, si è spostata. 

“Nuove vite”: nascono bambini, nascono mamme ed è da qui che cambio prospettiva.

Consapevole di questo riprendo da dove ho sospeso e divoro la seconda metà del mio libro.

Una storia di donne, diverse per esperienze di vita, per cultura, per ambizione e per istinto. Una storia di mamme che devono essere forti, che vogliono essere forti, che si celano dietro traballanti certezze, che convivono con timori e mancanze che incanalano sensi di colpa in troppo amore, se mai l’ amore può essere troppo, che si confrontano con stili, passioni e persone. 

Mi sono arrabbiata, intenerita, emozionata, talvolta riscoperta nel mio voler fare sempre di più, nel non sentirmi mai abbastanza pronta o in grado di fronteggiare a certe imprevedibili situazioni che accadono fuori dall’ordinario. È un libro che perdona, non con la rassegnazione ma con l’accettazione dell’ essere quello che si riesce, è un libro che dà speranza perché “I bambini sono come gli orti Ivan. E’ importante seminare bene, ma ancora più importante e’ curarli dopo che si è seminato. Innaffiare il giusto, strappare le erbacce, aggiungere concime quando serve. Sapendo che sarà qualcun altro a coglierne i frutti.”

È un libro che dà nome alle paure, prima tra tutte quella del distacco, non solo dai propri figli ma anche da quelle parti di noi che ci trasciniamo, del lasciare andare, del far fronte all’idea che “i nostri bambini diventano figli della società”.

È una storia di coraggio, ci vuole coraggio per credere che “Tutto evolve… Nel bene o nel male tutto evolve.”

Ho iniziato a leggere questo libro con gli occhi dell’educatrice, un mestiere, più che un lavoro, faticoso ed intenso che ad oggi, per me, è un meraviglioso valore aggiunto, in cui credo profondamente e che scelgo di darmi. 

Ho finito di leggere questo libro con gli occhi della madre (ammesso e non concesso che non siano gli stessi) inumiditi e commossi dalla rassicurante certezza che no, non sarò  MAI PIÙ SOLA. 

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Se desiderate comprare il libro:

Se vi interessa ecco un altro post su un libro di Alessandro Curti, Padri Imperfetti.

Christian S.

 

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Questo è un post che avrei dovuto pubblicare qualche mese fa, quando fu immesso sul mercato il gioco Pokemon Go. L’articolo esce ora, leggermente modificato rispetto a come era nato, ma il suo senso rimane e forse, leggendolo oggi, assume ancora maggior significato. E’ un post che parla di pregiudizi, banalizzazioni e superficialità. Tre azioni che quando sono contemporanee rischiano di essere un mix esplosivo.

Pokemon Go esce poco prima dell’estate, a giungo del 2016. Quasi sei mesi fa, insomma.

I commenti e soprattutto le critiche negative giungono in modo frettoloso, non importa che il gioco sia uscito in Italia da poco meno di 2 settimane. Nulla ferma gli adulti che si scatenano in avvertimenti connessi con la pericolosità del gioco, sottolineandone rischi, alla ricerca di  soluzioni e soprattutto di colpevoli. Leggerli lascia la netta sensazione di essere di fronte ad adulti che nulla sanno del gioco e che basano le loro valutazioni su pregiudizi e preconcetti tra l’altro già sentiti verso altri giochi e/o verso le nuove tecnologie. Pregiudizi per lo più basati su semplificazioni, generalizzazioni e banalizzazioni.

Io invece, da appassionato di videogiochi e di educazione,  ho preferito far tre cose prima di permettermi valutazioni in merito. Ho preso tempo, ho studiato il gioco provandolo e ho messo da parte quello strano pensiero che porta tanti adulti a dire “non ci sono più i giovani di una volta…”. Metter da parte i propri pregiudizi vuol dire provare anche a metterli in discussione. Per metterli in discussione è necessario lasciare le porte aperte per poter cambiare idea.

La dipendenza: Tranquilli. Pokemon Go, per come è pensato oggi (problemi di connessione, instabilità dell’applicazione, impossibilità di geo-localizzarvi, ecc) e per struttura del gioco (finisce) non ha nessuna possibilità di rendere i vostri figli/e o fidanzati/e dipendenti. Forse li può rendere più nervosi e infelici, ma questo può succedere anche per altri motivi. Mi colpisce sempre molto la tendenza a far diventare “patologia” tutto ciò che si muove intorno ai ragazzi. Sembriamo, in questo senso, un mondo di adulti “malati” sempre alla ricerca delle patologie a cui dovrebbero essere soggetti i nostri ragazzi. Siamo spesso talmente orientati a cercare segni di possibili malattie che non ci accorgiamo che spesso i ragazzi stanno meglio di noi. Pokemon Go, ad oggi, fa solo voglia di disinstallare l’applicazione e questo forse è un peccato. Se vi interessa sapere perché, qualche spunto lo trovate poco sotto.

La ricerca del colpevole: Mi incuriosisce molto chi inveisce contro alcuni tipi di giochi e poi magari ha comprato il cellulare al figlio di 8 anni senza nemmeno insegnargli come si usa e soprattutto pretendendo che impari ad usarlo senza sbagliare. Chi si sorprende, in sintesi, che il figliolo abbia mandato un video in mutande a tutti i compagni delle medie, scaricato applicazioni a pagamento e guardato un porno prima di aver messo piede alle scuole medie. Il problema, se vogliamo parlare di pericoli e di dipendenza “sta nel manico” come direbbe mio nonno. Il problema (sempre che lo si voglia individuare) sta nel modo di utilizzare lo strumento (lo smartphone), perché è lì che eventualmente rischiamo di perderci i figli. Il problema credo che sia il presidio delle regole di utilizzo della tecnologia, che sia cioè come insegniamo ed educhiamo i nostri figli all’utilizzo di ciò che i cellulari filtrano. Insegniamo che c’è un tempo dedicato e limitato? Presidiamo quel tempo costringendo i ragazzi a guardare oltre lo schermo e costruiamo intorno a loro opportunità di divertimento e socialità? Se non lo facciamo, se non li aiutiamo a trovare un sistema di regole per usare il cellulare, il sistema di regole lo trovano da soli e questo sì, può essere un problema, perché da soli è più facile sbagliare e non accorgersi degli errori che si stanno facendo. Da soli inoltre è più facile isolarsi e star male. Se invece vogliamo prendere la strada più semplice, possiamo sempre prendercela con Pokemon Go anche quando per catturare un Pokemon “un tizio” rischia di investirci, dimenticandoci che abbiamo fatto la stessa cosa quando sono arrivati i cellulari e ti investivano per rispondere al telefono o per mandare un messaggio, dimenticandoci che si fanno incidenti anche per seguire il navigatore, insomma.

La svalutazione degli altri: Mi incuriosisce e mi sollecita molto l’analisi delle modalità e motivazioni con cui svalutiamo gli altri, soprattutto quando fanno scelte differenti dalle nostre e nelle quali non ci riconosciamo. Nel caso delle nuove tecnologie inoltre c’è sempre quel retrogusto di “si stava meglio quando si….”. Se si parla di videogiochi siamo invece alla banalizzazione spiccia, totale. Impossibile pensare che un “giochino” (così spesso vengono definiti) possa essere fonte di apprendimento e quindi di sviluppo di competenze. Invece sì, i videogiochi (non tutti ovviamente) hanno la possibilità di insegnare ai ragazzi competenze preziose, come la risoluzione dei problemi o lo sviluppo della logica. Per chi fosse interessato a capire meglio di cosa parlo consiglio la lettura di: Video game education. Studi e percorsi di formazione (D. Felini). Un testo che spiega quante e quali opportunità si possano celare dietro alcuni videogiochi, utili anche per insegnare a cooperare, a non sprecare, a rispettare il mondo e la natura.

Mi infastidisce molto la tendenza degli adulti a ridicolizzare o banalizzare ciò che fanno i giovani. Chi ha deciso che giocare a Pokemon Go sia peggio che postare sui social le foto dei figli, i fatti personali e le citazioni? Chi ha deciso che la musica che ascoltavamo noi  sia meglio di quella odierna e che il modo di stare insieme oggi non sia meglio del nostro?

Ho sempre pensato che per parlare degli adolescenti sia necessario ricordarsi che tipo di adolescenti siamo stati. Io son cresciuto in mezzo ai paninari, a gente che litigava perché “Zio, i Duran son meglio degli Spandau”, in mezzo a gente che teneva i pantaloni arrotolati, metteva un penny nei mocassini e ascoltava i Righeira pensando che non ci sarebbe stata canzone migliore per raccontare la fine dell’estate. Ho troppo rispetto della mia adolescenza per non averne di quella dei giovani di oggi.

Il valore di un gioco: Pokemon Go probabilmente non verrà inserito nei capolavori del decennio (il suo uso non è già più una novità e così sono svanite magicamente anche tutte le paure connesse) ma ha sancito un nuovo modo di concepire i videogiochi, credo che dovremmo tenerne conto. Pokemon Go costringe, ha costretto e costringerà milioni di adolescenti ad uscire di casa. Un gioco prezioso, soprattutto se pensiamo a tutti quei ragazzi che negli ultimi anni si son rintanati davanti al computer e han filtrato la loro vita solo attraverso il monitor. Prezioso perché costringe a camminare, perché per continuare a giocare devi visitare luoghi di carattere storico e culturale e ti costringe a curiosare nei luoghi in cui vivi. Hai visto mai che mentre sto cercando un Pokemon davanti ad un edificio storico mi venga voglia di entrarci. Prezioso perché magari, girando, posso incontrare altri ragazzi che condividono la mia stessa passione e costruirci delle relazioni che potrebbero anche diventare importanti. E’ inutile, insomma, pensare ad un mondo differente, si filtra il rapporto con gli altri, anche, attraverso il cellulare e non mi pare che vi siano movimenti che spingano in altre direzioni. Allora, forse, si tratta di capire come insegnare ai nostri figli ad utilizzare il gioco e ciò che può produrre. Per far questo dobbiamo lavorare sui nostri pregiudizi, smetterla di banalizzare le vite dei nostri figli e provare a star con loro. Ad incuriosirci. Provare a capire cosa può essergli utile, dentro questo nuovo modo di stare in relazioni tra di loro. Dobbiamo osservarli e ascoltarli, ma dovremmo provare a farlo senza pensare che siano dei “Pirla” perché altrimenti non credo possa funzionare.

In conclusione: Io non so cosa ne sarà di questo gioco in futuro e nemmeno mi interessa in modo particolare. So però che mi è parsa una buona occasione per svelare alcuni dei preconcetti di cui son vittime gli adulti, in modo trasversale. Ricchi e poveri, laureati e non. Tutti (o quasi) troppo lontani dalla propria adolescenza per ricordarsi che anche noi abbiamo fatto cose che ai nostri genitori sembravano “senza valore” ma che per noi erano, invece, di grandissimo valore. Perché il valore delle cose è anche e soprattutto soggettivo.

Quando ci chiediamo come poter accompagnare, anche nella distanza generazionale, i nostri figli nei loro percorso di crescita, dovremmo iniziare imparando a non svalutare ciò che fanno, perché poi diventerebbe paradossale chiedersi come mai non vogliano parlare con noi.

Voi parlereste con uno che vi considera un cretino? Io no.

Christian S.

Un ringraziamento particolare va a Maria Antonietta Bergamasco, una collega incontrata in rete che ha sollecitato questa mia riflessione.

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Papà, a cosa servono i compiti?

Ecco come ha esordito mia figlia, appena sveglia, qualche settimana fa.

Una di quelle domande che aprono strade di spiegazione differenti, alcune sintetiche e semplici altre più complesse e che richiederebbero maggior tempo. A mia figlia, quel giorno ne ho data una molto sintetica.

Per imparare.

Ero alla prese con la vestizione di due figlie in tempi ristretti, la mia concentrazione era orientata ad evitare di produrre i soliti codini storti e gli abbinamenti estetici inguardabili. Non avevo altra possibilità.

Una domanda del genere, però, produce naturalmente altre domande, la più interessante, per me è: per imparare cosa?

Qui la strada si fa generalmente in salita soprattutto se vogliamo provare a capire veramente a cosa potrebbero servire i compiti a casa. A volerla chiudere subito, potremmo dirci che servono per imparare a fissare, ripassare, memorizzare le nozioni e informazioni apprese in classe. Guardare i compiti da questo punti di vista li riduce solo ad uno strumento connesso con ciò che si fa in classe, ed invece potrebbero diventare ben altro.

I compiti potrebbero insegnare ai nostri figli qualche cosa che la scuola, per come è strutturata, non è in grado o non ha la possibilità di fare se non in modo parziale. I compiti potrebbero insegnare ai nostri figli a far da soli. In che senso vi chiederete voi? Nel senso che fare i compiti a casa, se riusciamo a rispettare alcuni vincoli, può diventare una grande occasione per sperimentare la responsabilità di svolgere il compito in autonomia, usando e ripescando le competenze apprese durante le mattinate scolastiche.

Facile a dirsi un po’ meno a farsi, state pensando. Vero?

No, facile se riusciamo a rispettare alcuni presupposti di partenza. Ovvero: i compiti devono essere fattibili in solitudine e i genitori dovrebbero permettere ai figli di farli in autonomia.

Per far questo però, è necessario che il valore che noi diamo ai compiti risieda, soprattutto, nell’averli fatti da soli. Far da soli permette ai nostri figli e agli insegnanti di verificare a che punto si è arrivati, permette di comprendere i propri punti di forza e le proprie fragilità. Far da soli vuol dire far più fatica ma sentire poi, una volta finito il compito, di avercela fatta da soli. Questo percorso è possibile quasi esclusivamente a casa, perché a scuola c’è il compagno o l’insegnante e in qualche modo l’aiuto lo trovi. Far da soli è possibile solo se decidiamo di accettare che i quaderni possano essere pieni di errori e correzioni. Perché facendo da soli è più facile sbagliare. Far da soli è possibile, per i nostri figli, se gli adulti imparano ad orientare lo sguardo sugli apprendimenti e non sui risultati, sul percorso e non sul compito stesso. Per fare questo dobbiamo accettare che il programma scolastico non sia l’obiettivo ma lo strumento per imparare delle cose. Il programma, così pensato, assume una tripla funzione: mette in successione le lezioni, stabilisce i tempi e i modi degli apprendimenti e permette di imparare “altro”. Imparare le tabelline, in questa ottica, insegna anche a far fatica, ad essere autonomo, a sbagliare, a correggersi e così via.

Far da soli permette di imparare a rileggersi. Per poterlo fare, però, è necessario che gli adulti cambino il modo di guardare la scuola e le esperienza ad essa connesse. In questa nuova visione, il problema non sarà più se i compiti sono tanti o pochi, ma che tipo di compiti e quale valore gli viene assegnato dal punto di vista educativo.

Giusto per essere chiaro. I compiti avrebbero un valore anche se servissero solo per completare il programma, ma dovremmo poi chiederci perché ci debba essere necessità di completare, fuori dalla scuola, qualche cosa che è presidio della scuola stessa. Avrebbero un valore anche se servissero solo per fissare degli apprendimenti, ma dovremmo chiederci, nel caso in cui togliessero spazio ad altro, cosa perdono i nostri figli. Se per fare i compiti non posso andare a giocare a calcio (solo per fare un esempio), il compito impedisce un’esperienza fondamentale per imparare a stare insieme, a far fatica, a collaborare. Impedisce un’esperienza relazionale complementare all’esperienza scolastica che aiuta indirettamente, attraverso quello che insegna, anche l’esperienza scolastica stessa.

I nostri figli possono svolgere i compiti da soli se non serve l’aiuto di un adulto o addirittura di un adulto specializzato. Il compito che posso fare da solo evita inoltre di costringere i genitori a fare i conti con competenze didattiche non sempre in possesso degli adulti presenti in casa al momento dei compiti. Quelle competenze, per intenderci meglio, che spesso i genitori, anche (ma non solo) per questioni di tempo, delegano a professionisti esterni.

Se vogliamo provare ad attribuire ai compiti a casa, un valore differente, lo si può fare solo attraverso un accordo tra genitori e istituzioni scolastica. Lo si può fare se alleggeriamo tutti, genitori compresi, la pressione verso il programma per interessarci anche ad “altre” competenze da apprendere. Lo possiamo fare, in sintesi, se siamo nella condizioni di rinunciare a parte del programma per imparare a far da soligestire le sconfitte,  lavorare in gruppo,  stare insieme e imparare dai problemi che si incotrano.

Lo possiamo fare, ricordandoci che l’esperienza scolastica ha come finalità quella di produrre cittadini capaci di stare in relazione con il mondo,  capaci di differenziare i luoghi per la competizione dai luoghi per la cooperazione. Capaci di essere felici per ciò che hanno imparato e non per aver preso mezzo voto in più del compagno.

Cosa penso in conclusione? Se accetteremo la sfida e saremo in grado di cambiare il nostro modo di dar valore al percorso scolastico, valorizzeremo la scuola come una delle esperienze educative e potremo spiegare ai nostri figli che la scuola e i compiti servono per affrontare la vita e non viceversa.

Buon inizio…

Christian S.

Un ringraziamento particolare va al Professor Marco Dallari a cui devo lo spunto che mi ha permesso questa riflessione.

Il seguente articolo è uscito su Gaggiano Magazine nel mese di luglio’16. Grazie ancora a Marco Costanzo per la fiducia che mi rimanda costantemente. 

bimba orsoIntendiamoci.

Non è che non ci si possa provare, è solo praticamente impossibile oltre che doppiamente faticoso e spesso inefficace. Impossibile perché volente o nolente gli altri adulti incidono sui nostri figli. Lo fanno direttamente (insegnanti, allenatori, parenti) o indirettamente (modelli televisivi, cantanti, politici e cosi via). Insomma lo fanno e basta. Quello che potremmo fare, quindi, è provare a capire quale sia il valore che si cela dietro le azioni educative degli altri adulti sui nostri figli e le nostre figlie. Provare a capire come agevolare l’incontro con altri modelli educativi, accompagnare i ragazzi verso altri adulti, cercare spazi e esperienze che consegnino i nostri bambini all’educazione degli altri. Provare a capire, in sintesi, se vale la pena provare a non farcela da soli.

Dico spesso che educare i figli non è una funzione individuale ma una funzione sociale. Una responsabilità di tutti, non solo dei genitori. Lo è perché i figli non sono di nessuno, anche se diciamo “mia figlia o mio figlio”, i figli non sono oggetti, non si possiedono, insomma. I ragazzi, le ragazze e i loro percorsi son responsabilità della società, del paese, della comunità tutta. Lo sono sia se hanno dei genitori presenti, sia se son soli.

Ci sono diverse forme di  responsabilità educativa.

L’adozione. Scelgo di diventare genitore di un ragazzo o di una ragazza, nato in un altro posto, da un’altra madre. Me ne occupo perché ne ho bisogno io ma anche perché ne han bisogno loro. Me ne occupo perché un team di professionisti, dopo lunghi colloqui ed analisi, ha deciso che sono nelle condizioni di occuparmene.  Me ne occupo per sempre. In questi anni ho incontrato diversi genitori adottivi. Tutti, nel raccontarmi le gioie e le  fatiche del percorso di adozione, si son fatti la stessa domanda: Chissà cosa accadrebbe se la verifica che viene fatta sui genitori adottivi fosse fatta su tutti i genitori? Chissà.

Non lo sapremo mai, forse per fortuna mi vien da dire. Dico per fortuna perché, pur comprendendo la delicatezza dell’incarico di chi dà in adozione i bambini, penso che una verifica pre-adottiva sia importante ma poco indicativa. Perché? Perché si impara a far il genitore quando il bambino arriva. Perché diventare genitore è un percorso complesso, un percorso di apprendimento che inizia quando il figlio“ ti piomba in braccio” come diceva in una serata un padre adottivo. Un percorso che ha quasi nulla di teorico e molto di pratico. Alessandro Curti,  educatore ed autore del libro “Padri imperfetti”  lo descrive così:  “Perché l’arrivo di un figlio è come quando in un cartone animato, il pianoforte cade sulla testa del personaggio principale …”.

Penso che diventare genitori ti faccia sentire, oggi, anche molto solo. E qui torna l’importanza della condivisione della responsabilità.

L’adozione non è l’unica forma possibile. C’è l’affido, ovvero: mi occupo di un ragazzo o di una ragazza che potrebbe tornare in famiglia, prendendomi un pezzo, importantissimo, di responsabilità educativa in una fase della sua vita delicata e complessa. Mi prendo questa responsabilità sapendo che è parziale, anche nel tempo e che un giorno, molto probabilmente, dovremo salutarci. L’affido in questo senso è una scelta decisamente coraggiosa.

Ci sono le forme di affido temporaneo. Un esempio sono le centinaia di famiglie che da anni accolgono, per brevi periodi, i bambini di Chernobyl per permettergli di respirare aria pulita. A Milano fa quasi sorridere pensare di aver aria pulita, ma rispetto a Chernobyl ovviamente qui è come esser in alta montagna.

Adozione e affido son due forme possibili di presa in carico dei ragazzi. Non le uniche. Né migliori Né peggiori, insomma. Sono le forme che alcune famiglie hanno deciso per loro, perché le hanno sentite come sostenibili, praticabili, possibili. Perché occuparsi di un minore, in qualsiasi forma tu lo faccia, è un percorso tanto bello quanto faticoso.

Ma la responsabilità educativa viaggia parallelamente e trasversalmente alle questioni familiare. La responsabilità educativa è anche quella delle insegnanti e degli educatori. Dei capi Scout e degli allenatori. Degli anziani e dei cittadini tutti. Non solo, per intendersi, di chi fa il genitore.

Troppo facile insomma, quando un ragazzo del tuo paese finisce in carcere,  scaricare tutte le responsabilità sulla famiglia, che dovrebbe provare a “salvare il proprio figlio” da sola. Magari facendo anche i conti con i messaggi che altri adulti, i media e la società mandano direttamente o indirettamente ai ragazzi. Troppo comodo, per come la penso io, star seduti fuori dal bar a giudicar le scelte dei genitori. Facile è far finta di nulla, far finta di non aver responsabilità. Se quel ragazzo è su una strada pericolosa, un pezzettino di responsabilità è anche nostra, che nulla abbiamo fatto, magari, quando lo abbiamo visto spaccare a 12 anni, per gioco, una panchina del parco della Baronella.

Troppo semplice pensare che quando un ragazzo a scuola prende in giro un suo compagno sia un problema loro. Mia figlia, che assiste magari silente a ciò che succede, non è esente da responsabilità. Nelle situazioni di prevaricazione ci son diverse figure, Il bullo, la vittima del bullo e gli spettatori. Nel dolore che si produce in queste storie gli spettatori hanno molta più responsabilità di quanto si pensi. Ovviamente, la responsabilità di mia figlia diventerà anche e per un pezzo, affar mio.

Cosa fare allora da genitori?

Permettiamo ai ragazzi di incontrare altri adulti, mandiamolo agli scout, a far sport, dal maestro di batteria e chiediamo agli adulti che incontrano i nostri figli di non delegare la loro responsabilità. Chiediamo agli insegnanti di tenere un pezzo della responsabilità educativa e non di far solo didattica. Chiediamo agli allenatori di insegnare a star insieme, a perdere, a rispettar le regole e non solo a giocare a calcio. Chiediamo ai nostri anziani di arrabbiarsi con i ragazzi che rovinano il bene pubblico, chiediamo ai cittadini di prendersi ognuno il proprio pezzo di responsabilità sui nostri figli, perché: Nessuno si salva da solo.

Cosa vi chiedo io, per le mie figlie. Vi chiedo, quando le incontrerete in paese, di far quello che avreste fatto con i vostri figli. Poi se non sarà per me, la scelta migliore ne parleremo, tra adulti, provando a capire come tenere insieme il mio pensiero di educazione e il vostro. Nel frattempo, però, le mie figlie avranno capito di non esser sole. Nemmeno quando i genitori sono assenti.

Perché la responsabilità educativa rende meno sole le persone. E’ questo che fa.

 Christian S.

* Il titolo originale di questo articolo, uscito sul numero 3 di Gaggiano Magazine, era “Nessuno si salva da solo” titolo tratto da un libro di Margaret Mazzantini del 2012. Sul blog lo trovate leggermente modificato, anche nel titolo.

Se volete l’articolo in versione A3,  ecccolo : Nessuno si salva da solo A3

#paternoeducativo è un progetto nato anni fa grazie alle riflessioni fatte con un collega che stimo molto, Stefano Cresta. Ha assunto, in questi anni, differenti forme, quella che trovate qui è la sua forma orginale, quella con cui era nato.

#paternoeducativo è un ciclo di incontri. Quattro serate per parlare di paternità ed educazione. Quattro spazi per i padri, con i padri, sui padri.

#paternoeducativo è un luogo di confronto e di parola. Uno spazio per parlare di responsabilità e di fatiche. Uno spazio libero.

Un progetto che coltivo da anni ed amo particolarmente.  Sono particolarmente felice di proporlo in questa fase della mia vita.

Paterno Educativo

 

Un ringraziamento particolare a:

Alessandro Curti, per il pezzo di strada fatto insieme, non solo in questa occasione

Marco Costanzo, per la foto.

Mia figlia, che è finita su una locandina senza manco saperlo.

Stefano Panzeri e il comune di Settimo Milanese per il graditissimo invito.

I padri che decideranno di partecipare al percorso.

 

 

La locandina è volutamente ispirata a Léon di Luc Besson. (1994)

 

 

 

#paternoeducativo è anche un blog, fateci un giro.

Se vi interessa la connessione tra gli sguardi paterni e l’educazione e se avete voglia di scriverci, la porta è aperta.

Come fate? Basta mandare uno scritto (massimo due pagine), una breve presentazione (5 righe) e una foto (se volete).

Dove? Alla mia mail: christian.sarno@gmail.com

IMG-20151224-WA0001Per chi fa educazione, sia naturalmente che professionalmente ci sono alcuni rischi, alcune possibili deviazioni dalla strada maestra, alcune possibilità di passare al lato oscuro, citando guerre stellari. Proverò qui ad individuarne alcune, sicuro che ve ne siano altre e altrettanto sicuro che io sia caduto, almeno una volta, in tutti i lati oscuri che proverò ad evidenziare.

Capitolo 1 : Educazione VS Manipolazione

Potrebbe essere facile stabilire il confine tra educare e manipolare, ma non lo è. Quanti, nell’atto dell’educare hanno gioito per il ripetersi di un atteggiamento, per l’obbedienza di un bambino, per l’esecuzione quasi automatica di un’azione. Quanti si sono rallegrati di un richiesta apparentemente compresa, assorbita, fatta propria. Chi di noi non ha educato nell’intenzione di trasferire proprie competenze, saperi, comportamenti, valori e agiti? Dove si situa il confine tra la manipolazione, la costruzione dell’altro a nostra immagine e somiglianza e l’educare verso la ricerca della propria strada, dei propri valori, della propria identità? Il confine è labile, una sottile linea su cui camminiamo, a volte oscillando verso il lato oscuro dell’educazione, quel tentativo di “costruire” soggetti che siano come noi, che pensino come noi e che se possibile ci assomiglino anche nelle scelte valoriali. Forse però l’educazione è soprattutto altro; è spingere a cercare il proprio, il proprio modo di pensare anche se è differente dal nostro. Siamo pronti ad accettare che l’educare possa produrre anche differenze, lontananze e addirittura separazioni? Siamo pronti ad accettare che aver contribuito a crescere figli non significhi averli costretti ad aderire ai nostri valori e alle nostre modalità di vivere? A volte non siamo pronti, perché riconoscere se stessi in chi si educa è una azione antica e seducente. Perché ci dà la sensazione di essere arrivati, che sia rimasto qualche cosa di noi nell’altro. Il passo più difficile dell’educare, quello che allontana il lato oscuro, è l’accettazione dell’educare come azione orientata verso il livello più alto possibile di indipendenza del pensiero, delle azioni e dei valori dell’altro. Il più grande successo per chi educa potrebbe essere aver contribuito a far crescere esseri in grado di scegliere consapevolmente la propria strada, anche se questa strada non è quella che avevamo immaginato per loro?

Capitolo 2 : Amore VS Arroganza.

Il secondo lato oscuro è l’arroganza del sapere, quel sapere che alcuni educatori o genitori utilizzano per schiacciare, prepotentemente, gli esseri che avrebbero l’obiettivo di far crescere. Quante volte ho incontrato questa prepotenza, in ambito professionale e nella vita. Quante volte mi son chiesto se il genitore che abusava della sua posizione dominante con il proprio figlio fosse consapevole di essere nel lato oscuro dell’educazione. Qualche volta mi è capitato di ragionarci anche con gli educatori, quando ci siamo interrogati sul potere dell’educazione professionale, su quella posizione dominante che spesso assumiamo grazie alle fragilità e difficoltà delle persona che incontriamo. Il governo e la consapevolezza  di quel potere è ciò che ci permette di non cedere al lato oscuro, a quel lato che smette di dar voce alla forza dell’aiutare per cedere alla forza del dominare. Ho la fortuna di aver incontrato pochi educatori arroganti, lo devo ammettere, ma quando li ho incrociati lo ho riconosciuti subito. L’educatore arrogante è colui che non ha più nulla da imparare, che si pone nell’incontro con le fragilità come colui che sa, come l’unica possibilità di salvezza, che porta la sua competenza non per trasferirla ma per evidenziare la sua posizione di asimmetria, di dominanza. Nei parchi si incontrano anche tanti genitori che han ceduto al lato oscuro, che governano la relazione solo utilizzando la loro posizione di potere, non accorgendosi poi che via via che i figli crescono alcune asimmetrie svaniscono, diventano inefficaci, perché i ragazzi fanno di tutto per sottrarsi alle posizioni di sottomissione, per fortuna. L’educazione è un atto d’amore, un atto che dovrebbe orientare le azioni per costruire il miglior stato di benessere possibile. Educare non è solo competenza tecnica, non si impara solo nelle Università, si impara attraverso la vita, gli incontri e soprattutto attraverso la sperimentazione diretta dell’educazione stessa. Educare, per come la vedo io, non vuol dire innamorarsi dell’altro ma provare ad innamorarsi della relazione che sto costruendo con lui, provare ad innamorarsi di ciò che quella relazione produce, di ciò che possiamo generare insieme, per me e per lui. Quando incontro educatori naturali e professionali innamorati dell’educare, mi pare sia più facile tenere lontano il lato oscuro.

Capitolo 3: Obbedire VS Disobbedire

Da qualche tempo ho come la sensazione che il mondo dell’educazione sia entrato in un strano e cupo viaggio. Un viaggio che sta conducendo gli educatori e le educatrici sempre di più verso un meccanismo di omologazione. Un viaggio in cui sento forte l’assenza di contestazione. Un movimento orientato verso l’accettazione di tutto ciò che succede, dove nulla scalfisce la traiettoria degli educatori.

Si certifica? Bene certifichiamo. Ci son bisogni individuali? Rispondiamo ai bisogni individuali. I servizi (soprattutto quelli sanitari) son pieni di burocrazie, schede, codici, tutto tempo sottratto al lavoro con e per gli utenti. Compiliamo le cartelle e se possibili facciamolo anche bene.

Gli educatori diventano così ottimi compilatori, conservatori di file e cartelle, smarrendo, anche per assenza di tempo, la capacità di stare, di ideare e di rischiare, perché se smetti di far l’educatore (perché passi il tuo tempo a compilar cartelle), smetti anche di saperlo fare. Il mondo attorno a te cambia e i tuoi strumenti, anche relazionali, diventano vecchi. Passi al alto oscuro, al lato che ti porta lontano dalla felicità, verso quella strana e sconfortante sensazione che ti fa pensare che ciò stai facendo non ha nulla a che fare con quello per cui ti sei formato.

Un collega educatore, durante il convegno #assalti al cielo, ha provato a sollecitarci tutti con una provocazione che ho sentito forte e che vi ripropongo.

…e se fosse venuto il momento di disobbedire, di non certificare, di non compilare, …”

Se fosse venuto il momento, aggiungo io, di provare a tornare ad occuparci della costruzione di opportunità, di quelle occasioni che permettono all’altro di “scartare di lato” (citando Bufalo Bill di F. De Gregori). Se fosse venuto il momento di ridurre il tempo per produrre dati che dovrebbero certificare la qualità e che invece sottraggono parte del tempo proprio alle funzione educativa?

L’educazione non sta rischiando di diventare, solo, propedeutica a risolvere problemi già emersi? Di certo, in questi tutti i servizi, non si lavora né per provare ad anticipare né per deviare e spingere verso il cambiamento. Si lavora, soprattutto, per aiutare gli altri ad adattarsi.

Se così fosse, il mondo educativo, avrebbe già ampiamente ceduto al lato oscuro della forza. Se fossi così forse servirebbe un risveglio della forza. Un ritorno alla sua funzione originale. Uno spazio in cui rivendicare la necessità di “disobbedire “, di fermarsi, di provare (e forse lo si può fare solo insieme) a sottrarsi ad alcuni compiti.

Siamo sicuri, in questa direzione, che sia così necessario avere gli educatori a scuola? (giusto per fare un esempio). Siamo sicuri che la funzione educativa, all’interno della scuola, debba essere delegata ad altri e che non sia una funzione inscindibile dall’insegnamento? Siamo pronti a lavorare perché, tra qualche anno, a scuola non vi siano più educatori ed insegnanti ma solamente docenti che utilizzano le proprie discipline per educare. Siamo disponibili a rinunciare ad una “fetta della torta”, se questo porta benessere e felicità a quel soggetto o quel sistema? Per far questo è necessario esser pronti a rinunciare alla seduzione del lato oscuro. Perché il lato oscuro da potere, questo è certo.                                   

Capitolo 4. Lo spin-off (prossimamente): Titolo VS Senza titolo Vs Diversamente titolo

Il mondo dell’educazione professionale è un posto strano, una strada professionale piena di personaggi interessanti, più lo frequento più me ne convinco. Negli ultimi anni, però, si assiste al nascere di una strana sfida intestina, una sfida tra educatori. Un vera e propria battaglia tra professionisti, che attraverso differenti percorsi professionali fanno o dovrebbero fare lo stesso lavoro. Da una parte gli educatori che da anni lavorano nei servizi (con o senza i titoli adeguati) e dall’altra il nuovi laureati (con 2 titoli che vanno in conflitto tra di loro). Tutti contro tutti, in una folle lotta all’ultimo posto di lavoro, dove la voce fuori campo sembra dire: “Ne resterà uno solo”. 

Quella voce fuori campo mi ricorda il nulla che avanzadella storia infinita, altro che lato oscuro.

Christian S.

I primi due capitoli di questo articolo erano stati già pubblicati il 17 luglio 2014 sul blog di Sylvia Baldessari “Il piccolo Doge”, il terzo è fresco fresco di giornata. Lo Spin-off, un anticipazione del capitolo 4.

Ringrazio Syliva che ha custodito i primi due capitoli nel suo blog e Massimo V. caro amico e collega. E’ anche grazie a lui se a 43 anni mi faccio, ancora, un sacco di domande. E’ grazie a lui se è nato il terzo capitolo di questa storia.

CiabatteIl termine “diversamente abili“ mi è sempre piaciuto poco, mi ha dato da subito la sensazione che fosse un barbatrucco per non dire altro, per non nominare e utilizzare altre parole che son sempre risultate più ostiche. Come mi disse il mio amico Giulio, sordo dalla nascita: “Io non sono diversamente udente, io non ci sento proprio”. Da quel giorno preferisco usare il termine “persone con disabilità”, perché dà l’idea che la disabilità sia una parte della persona, non la persona stessa. Igor Salomone, consulente pedagogico e mio docente, ci esortava a non aver paura ad usare la parola handicap, o meglio portatore di handicap, perché il significato della parola richiama la responsabilità sociale. La parola handicap è presa in prestito dallo sport e significa svantaggio. In questo senso richiama la responsabilità sociale perché, se non ci sono i saliscendi sui marciapiedi, l’handicap alle persone sulla carrozzina, lo abbiamo creato anche noi, che nulla abbiamo fatto con le nostre amministrazioni perché mettessero a norma le strade, i mezzi e gli spazi pubblici. Se la leggiamo in questo modo, la parola handicap non lascia sole le persone, richiama tutti ad assumersi ruolo e relative responsabilità.

La mia sfida – In questo articolo proverò a raccontarvi alcuni dei possibili modi di fare i conti con i propri limiti anche rispetto al ruolo educativo. Mi assumerò un rischio, lo so, perché parlare di persone con disabilità è delicato, si parla delle vite degli altri e il tema dei limiti è un tema caldo per tutti i genitori. Ci voglio provare, sperando che le mie parole non risultino irrispettose, so perfettamente che fare i conti con i nostri limiti, soprattutto quando sono evidenti e immutabili, è tutt’altro che facile. Ci sono tanti genitori in giro e io li osservo spesso; in rete, nei parchi, a scuola; li osservo perché i genitori mi incuriosiscono, mi interessano le nuove modalità di stare con i figli, le modalità di parlare e di prendersi cura dei bambini. Osservo soprattutto i padri, perché da anni il paterno è una mia grande passione, anche professionale. Li osservo perché, a volte, dai loro modi e dai gesti, imparo.

Diversamente Giulio (i limiti come opportunità)

Giulio è un mio caro amico. Qualche anno fa rimasi colpito dalla modalità con cui dormiva con la figlia di pochi mesi, mentre erano entrambi ospiti a casa nostra. Giulio è un insegnante di educazione fisica che spesso viaggia solo con la figlia e in una chiacchierata mi disse: “Devo tenermela accanto la notte, altrimenti se piange non la sento”. Mi aveva sorpreso, non solo perché aveva trovato una soluzione ad un potenziale problema, ma anche perché aveva trasformato un limite in una grande opportunità, quella di stare accanto a sua figlia. Lo aveva fatto, inoltre, mandando al macero almeno un centinaio di volumi di pedagogia. Quei manuali, per intendersi, che ci insegnano che non possa esistere relazione educativa sana se il figlio dorme con i genitori. Vederli dormire assieme è stata una della scene più emozionanti a cui abbia mai avuto la fortuna di assistere. La soluzione trovata da Giulio mi aveva insegnato a guardare oltre. Un limite diventava una possibilità, si trasformava, non senza fatica ovviamente, in una bellissima opportunità. La soluzione di Giulio aveva anche provocato in me un pizzico di invidia, perché per un certo verso mi avrebbe fatto comodo essere stato obbligato a dormire accanto alle mie figlie, cosa che non ho praticamente mai fatto, se non durante le simpaticissime nottate di febbre. Giulio ha regalato a sua figlia un bellissimo spazio di condivisione e un messaggio, quello di un padre che senza alibi si occupa di sua figlia. Non c’è lavoro, non c’è scusa, non c’è handicap che tenga: io son qui con te. Altri avrebbero potuto tranquillamente delegare alla madre, usando il proprio limite per scaricare la responsabilità. Giulio no.

Diversamente Lele (i limiti come punto di partenza)

Anni dopo ho incontrato Lele, Diversamente padre anche lui. Da una parte è un padre come tanti, uno di quei padri che accompagna i figli a scuola, li veste, li coccola e li fa giocare. Dall’altra parte è un padre differente perché fa tutto questo senza una gamba che gli è stata amputata a causa di un incidente stradale. Ho avuto la fortuna di incontrarlo perché le nostre figlie sono in classe insieme. Ci siamo incontrati per discutere di barriere architettoniche e di servizi per i giovani, per scambiarci indirizzi utili per mangiare bene. Ma ci incontriamo anche perché il suo modo di rapportarsi con il suo limite davanti ai figli mi piace, anche se in alcuni casi mi crea anche un po’ di imbarazzo. Io che son qui che mi lamento per tutto e guarda lui cosa fa? Si butta in piscina con la carrozzina, gioca a hockey e lavora anche se potrebbe stare a casa. Insomma, non fa il “disabile”. Non si fa limitare dal suo handicap, in modo pubblico, davanti ai figli, in rete e senza paura, Lele vive la sua nuova vita. Lele regala ai figli uno dei più grandi insegnamenti possibili: il limite non è un punto di arrivo, non è un solo un ostacolo, può essere anche un punto da cui ripartire per impostare la propria vita. Quando lo incontro per raccontargli dell’articolo, mi dice: “Io son nato 7 anni fa, il giorno dell’incidente. Da quel giorno la mia vita è cambiata, forse in meglio”. Lo guardo negli occhi e non posso far altro che credergli. Non ci posso far nulla, il suo modo di pensare alla sua nuova vita mi ricorda tanto le parole di Alex Zanardi, ex pilota di formula uno, oggi pilota di handbike bi-amputato. Diversamente Alex parla così del suo percorso: “La vita è un percorso lungo, dal quale s’impara sempre qualche cosa, eppure siamo consapevoli che moriremo ignoranti perché non si può imparare tutto. Quanto mi è accaduto mi ha arricchito di esperienze che altrimenti avrei completamente ignorato. Certo ci sono state molte difficoltà, ma anche tante soddisfazioni e alla fine non ho alcun rimpianto per quello che mi è accaduto”. Credo che dalle parole di Alex e Lele ci sia molto da imparare.

Diversamente Roberta (i propri limiti per accompagnare gli altri)

Roberta è una madre che lotta da quando è giovane con una malattia rara. Una di quelle malattie che non finisce, con cui sei obbligata a convivere come se fossero un paio di occhiali spessi. Due figli, un marito, tanta fatica (che posso solo immaginare) e nessun apparente segno di condizionamento, perché ha fatto e fa quello che le interessa e le piace. E’ una madre che ha lavorato per anni come educatrice, in modo appassionato e intelligente e che oggi fa la formatrice, la mediatrice familiare e civile. Una professionista che accompagna gli altri dentro le loro difficoltà, nei loro drammi e conflitti, nelle loro scoperte e nei loro percorsi di crescita. Roberta è una madre che racconta della sua malattia, in pubblico e ai sui figli, usando il proprio percorso personale di confronto con i limiti perché sia utile ad altri. Lo usa con competenza, perché lo ha analizzato, spezzettato e ricomposto per usarlo nel suo lavoro oltre che nella sua vita. E’ una di quelle donne che ha fatto del proprio limite un propulsore. La sua storia e il suo modo di raccontarsi è estremamente interessante oltre che utile. Ogni tanto, quando penso a lei mi tornano in mente le parole con cui si descrive in uno degli articoli che ha pubblicato: “Non penso che la mia malattia sia un dono, tutt’altro, proprio una sfiga invece. Però oggi sono la donna che sono perché con me c’è anche lei. Mi ha permesso di vedere i limiti, negarli, odiarli, rifiutarli e poi cominciare a volerli conoscere meglio per “farci la pace” e provare ad aggirarli”. Quando leggo queste parole, mi sento più forte anche io. Eccovi un link in cui potete trovare il racconto da cui son tratte le parole che ho citato, vi consiglio di leggerlo. Lo trovate qui.

Diversamente noi (quelli che hanno imparato o impareranno)

Poi ci sono gli altri. Quelli che si son trovati ad affrontare i loro limiti ed hanno avuto la possibilità di posticipare la riflessione, che si son potuti permettere di pensarci poi o che son riusciti a non pensarci. Quelli che hanno faticato nel raccontare i propri limiti ai loro figli perché temevano che fosse un messaggio perdente, che non han trovato le parole e i tempi, quelli che si son convinti di non avere limiti o che fosse meglio non farli vedere. Quelli che ci han provato e ad un certo punto hanno scoperto che si poteva fare, che alcune cose si potevano dire e che dai propri limiti si può, non senza fatica, partire. Quelli che ad un certo punto han preso da parte i figli e han cominciato a raccontare, che lo faranno oggi, domani, tra un po’, ma lo faranno. Quelli che han trovato o troveranno, insomma, il modo e l’occasione per aiutare i propri figli a fare i conti con i loro limiti, perché han scoperto che ogni limite può trasformarsi in una possibilità, in un punto di partenza e in un percorso di apprendimento. Quelli che potremmo chiamare “diversamente” genitori senza che ci sembri un trucco linguistico per non dire altro. Con questo significato la parola diversamente, devo essere sincero, mi piace assai di più.

Christian S.

Hockey firmaUn ringraziamento particolare va a Giulio, Roberta e Lele. Perché incontrarli è stato per me molto importante. Forse più di quanto loro possano pensare.

A Marco Costanzo con cui collaboro da tempo, sia per Gaggiano On line che per Gaggiano Magazine (da cui è tratto l’articolo).

A chi mi legge. Perché per me rimane una gran cosa.

A Emaneuele Foieni e Alessandra Calzolaio per le foto.

Se vi interessa scaricare l’articolo per farlo leggere a chi non usa la rete lo potete fare qui: Diversamente genitori

 

FIORI-NEI-CANNONIIl 13 novembre 2015 rimarrà per molto tempo nella mente di tutti gli europei, rimarrà nella mia, che ho tremato per la sorte di due persone care. Rimarrà nella mia testa perché una volta saputo che erano salve, mi son sentito in colpa, perché ero felice. “Come si puoi essere felice”, mi son chiesto, “non pensi agli altri?”. In quel momento non ci ho pensato, mi è bastato quello. Poi ragionandoci, mi son anche detto che in fondo è ciò che ci succede continuamente quando leggiamo le orrende notizie che i media ci narrano. Notizie che solo la lontananza può rendere sostenibili, altrimenti il dolore dei continui drammi a cui assistiamo potrebbe distruggerci.

La possibile vicinanza, non solo geografica, di alcuni dolori ci spinge invece maggiormente a cercare soluzioni, ci obbliga a scavare nelle ipotesi per cercare quelle che ci sembrano più efficaci. La vicinanza degli avvenimenti francesi e la successiva mobilitazione degli europei non va vista quindi, solo, come una questione egoistica (“il pericolo è più vicino e quindi mi muovo, protesto, mi indigno…”). E’ una reazione alla vicinanza del dolore. Più lo sentiamo vicino più ci attiviamo. Ovviamente non sempre nella direzione migliore. La vicinanza delle emozioni non è sempre di aiuto alla riflessione, la condizione, la modifica, la mette in uno stato di pressione che spesso rischia di dar luce anche a delle pessime idee. Allora ho preso tempo, anche quando una collega mi ha sollecitato a trovare le parole, perché come dice lei, chi si occupa di educazione “deve trovare delle parole per dire”, per indicare strade.  Perché una strade c’è sempre, di questo sono sicuro.

Non ho scritto nulla, fino ad ora, nessuna candela accesa, nessuna colorazione del profilo di facebook con i colori della bandiere francese, nessun commento a nessun post. Silenzio. Lo stesso silenzio di cui ho avuto bisogno per mettere a posto i pensieri che la paura aveva sparpagliato nella mente, come “metaforicamente” dopo l’esplosione di una bomba. Ho avuto paura degli effetti dell’attacco, soprattutto dopo. Paura di farmi prendere dalla sensazione di impotenza e ingovernabilità. Paura di cercare soluzioni protettive o individuali, quel tipo di protezioni che spesso rischiano di risultare inutili “case di paglia” davanti al lupo cattivo.

Monica però ha ragione, dobbiamo trovare le parole per dire. Ne abbiamo la responsabilità.

Ho cercato “le parole per dire” e le ho trovate in un percorso di formazione fatto proprio venerdì 13 novembre, poche ore prima della strage di Parigi. Il percorso, condotto dal professor prof. Gian Piero Turchi, docente di Psicologia delle Differenze Culturali e direttore del Master in Mediazione presso il Dipartimento FISPPA dell’università di Padova, mi ha permesso di rintracciare uno degli aspetti e delle responsabilità che hanno i servizi in cui lavoriamo o che gestiamo. Uno e forse il più importante degli obiettivi che anche il mio ruolo professionale mi consegna, ovvero; produrre benessere per le persone che incontriamo.

Cosa dobbiamo fare come servizio? Quale obiettivo abbiamo? Risolvere problemi? Raccogliere domande? Forse si. Forse no.

E se invece la responsabilità più importante fosse quella di produrre “interazioni” ed incontri? La produzione di interazioni e la capacità di anticipare e governare le interazioni che produciamo, in sintesi. Il governo delle interazioni e degli incontri può produrre coesione sociale, maggiore è la coesione minore la distanza tra le persone, maggiore è la coesione sociale, maggiore è il benessere, minori o più gestibili, probabilmente, i conflitti. Maggiore è il governo del processo di coesione sociale, meno il contesto tende a autoregolamentarsi.

Provo a spiegarmi meglio. Gli incontri dentro un sistema di relazioni (un paese, una città, una regione, una comunità, ecc), se non governati da altri, trovano il modo di autoregolamentarsi. Per potersi autoregolamentare le persone pescano nelle loro competenze. Aumenta quindi, soprattutto se la comunità è in uno stato di fragilità (emotivo, economico o sociale) , la possibilità che per farlo si possa cedere alla legge del più forte, che dice:“Se non sappiamo, possiamo o riusciamo a stare insieme, allora che vinca il più forte.”

Questo vale sempre, non solo nell’incontro tra culture lontane, per intenderci.

Se la guardiamo da quest’angolazione forse una strada possibile è rintracciabile. Se lavoriamo, come educatori, sul processo di coesione (e non solo di integrazione) aiutiamo le comunità a costruirsi in un’identità condivisa, aiutandola a tenere insieme anche le identità individuali. Aiutando, in sintesi, la comunità ad imparare a stare insieme, la aiutiamo ad avere più strumenti per incontrarsi e quindi per star meglio.

Vista così, il problema, quindi, non è se ci piace o meno integrare, accogliere, ma come lo facciamo, come governiamo l’incontro tra culture, persone, religioni e modi di intendere il mondo. Il problema, in sintesi, non è se il modo di vivere dei Rom (giusto per fare un esempio sempre di moda) ci piaccia o meno, il problema è che se lasciamo che le comunità si incontrino senza che nessuno governi il processo di incontro, il rischio è che le persone lo gestiscano con le competenze che hanno, magari anche cedendo a questioni emotive, alle paure, al desiderio di difendersi o di mostrarsi più forti. E come raccontavo sopra, la paura non aiuta per nulla ad incontrare gli altri. Il problema, in sintesi, non è se ci piace o meno l’idea che altri preghino un dio differente o vivano tradizioni differenti dalle nostre, il problema è che se non impariamo a governare questi incontri ciò che è avvenuto a Parigi avverrà ancora, in altri modi, in altri luoghi, ma avverrà.

Perché l’esempio di Parigi è differente da altri, dall’attentato nell’albergo in Mali o dai missili turchi sull’aereo russo? Perché ci racconta di giovani attentatori cresciuti in Francia, che probabilmente son stati seduti a scuola con alcuni dei ragazzi uccisi al Bataclan. Giovani che quando hanno aperto il fuoco non han sentito nessuna vicinanza, nessun senso di appartenenza, nessuna identità comune e quindi, probabilmente, nessun rimorso.

In questo senso, rispondendo a Monica. Ecco cosa dovrebbero fare gli educatori e i servizi educativi: Governare le relazioni e gli incontri, produrre coesione sociale, produrre regole che aiutino le persone a stare insieme.

Cosa dovrebbero fare i cittadini e il mondo dell’educazione professionale quindi? Chiedere meno risorse per interventi individuali, e molti di più per lavorare sulla coesione sociale, sulle comunità e sul governo dei processi di incontro.

La domanda diventa quindi: ne abbiamo il coraggio, la forza e la voglia?. Forse solo se ci crediamo veramente. Altrimenti, come spesso ci capita, invece di provare a lavorare in anticipo, lavoriamo sui cocci rotti, tanto siamo ormai diventati degli esperti. Ed allora l’educazione professionale continuerà a lavorare soprattutto accompagnando le persone, dopo che le cose saranno già avvenute, dopo che la bomba sarà già scoppiata, il proiettile arrivato e il dramma consumato.

Vi siete mai chiesti quante risorse di comuni, regioni e stato finiscono in coesione sociale?

La risposta è semplice: Un numero molto vicino allo zero.

Buona coesione a tutti.

Christian S.

ps: Il merito di questo articolo lo devo dividere con Monica Cristina Massola, che ringrazio. Senza la sua sollecitazione, forse, questo articolo non esisterebbe.

 

Da qualche anno son tornato a lavorare a scuola, come all’inizio della mia carriera professionale, mischiando le mie due grandi passioni Cinema ed Educazione. Da questo incontro son nati alcuni laboratori, che ho portato , negli ultimi 4 anni, in diverse scuole. In questo caso specifico, vi propongo il video fatto con la 2F della scuola Gianni Rodari di Vermezzo, lo scorso anno. Il video è stato prodotto con i ragazzi, pensato con i ragazzi, scritto con i ragazzi e ovviamente interpretato dai ragazzi. Lavorare sui pregiudizi a scuola è possibile e lo si può fare anche attraverso strumenti, metodologie e didattiche differenti. In alcuni casi è più facile di quello che sembra. Basta provarci. In altri casi basta utilizzare la scusa delle risorse mancanti ed il gioco è fatto.

Buona Visone.

Christian S.

 

Qui trovate il resto dei video. Alcuni  possono essere utilizzati per discutere di alcune tematiche. Usateli.

parco2Parco. Un pomeriggio di sole. Potrebbe essere uno dei tanti parchi della provincia di Milano.

Due genitori commentano il ripristino di uno dei giochi. Nello specifico, una carrucola. Uno di quei nuovi giochi apparsi, negli ultimi tempi, nei nostri parchi.

Madre: “Hai visto, hanno rimesso a posto la carrucola”. Padre: “Eh già!… Fino a che non si farà male qualche altro bambino”. Madre: “Vero, ti ricordi iI bimbo piccolo caduto dalla carrucola?” Padre: “Si, proprio lui. Poi era anche piccolo, avrà avuto massimo 3 anni”. Madre: “Eh già, e pensa che la madre era lì, giusto ad una decina di metri”.

Il dialogo continua, si posta sulla sicurezza in generale, sul rischio e poi devia su altri argomenti. Dal mio punto di vista meno interessanti. Provo a fermarmi sui primi due temi che lo scambio propone.

Rischio e sicurezza.

La percezione della sicurezza è una cosa soggettiva, dipende da ognuno di noi. Per alcuni la sicurezza equivale al tentativo di costruire degli ambienti che possano proteggere, senza deroghe, il proprio figlio da ciò che possa far male. In questo senso, tutto ciò che può sfuggire al proprio controllo (la carrucola per esempio) diventa oggetto pericoloso e quindi da eliminare. In questo senso tutti i giochi di un parco possono risultare potenzialmente pericolosi. Dall’altalena si può cadere o dall’altalena si può esser colpiti. Da uno scivolo si può cadere o essere travolti durante una discesa. In questa visione la sicurezza è connessa con il controllo. Il controllo rischia di far rima con la negazione delle esperienze che non posso controllare totalmente e che quindi sento come pericolose. In questa direzione il rischio è che tutte le esperienze siano potenzialmente pericolose (perché incontrollabili) e che quindi il genitore si trovi nella condizione di non permettere al proprio figlio di poter crescere. Perché è attraverso le esperienze (anche quelle rischiose e pericolose) che si diventa grandi. Esistono altri possibili modi di percepire la sicurezza, ovviamente. Amo pensare che il rischio sia uno dei fattori di un’esperienza, un fattore importante, uno dei fattori ineliminabili, uno dei fattori da cui non ha senso, nessun senso provare a fuggire ma che dobbiamo affrontare, che ci piaccia o meno. In questa direzione, forse, il dovere da genitore, potrebbe essere quello di aiutare i figli ad affrontare i pericoli, dotandoli degli strumenti adatti per farlo. Nel caso specifico il dovere di un genitore, che fa salire il proprio figlio su una carrucola, sarà quello di aiutarlo ad imparare ad usarla, accompagnandolo ad acquisire le competenze necessarie per affrontare la sua nuova esperienza. In questo senso la competenza aumenta la possibilità di utilizzare il gioco e diminuisce il rischio, anche se non lo elimina del tutto, perché nessuna esperienza è priva di rischi e pericoli, nemmeno quelle che già abbiamo affrontato. In questa direzione, un genitore dovrebbe cercare di esercitare il proprio ruolo (educativo) proprio tenendo conto che nulla potrà mai eliminare, totalmente, il pericolo di cadere o essere colpito da una carrucola. E’ anche attraverso questa consapevolezza che nasce la possibilità di accompagnare i ragazzi dentro le proprie esperienze, nell’ottica di aiutarli ad imparare a salire, da soli, su quelle “pericolosissime” carrucole.

Sul ruolo e sulle responsabilità.

Rileggendo bene il dialogo con uno sguardo attento, quel “la madre era ad una decina di metri” ci può aiutare a capire alcune cose interessanti. Se sono a 10 metri da un bambino di 3 anni vicino ad una carrucola, mi prendo (io) un rischio grosso. Il problema poi non può essere la presenza della carrucola, altrimenti dovremmo eliminare le macchine, le strade, i terrazzi e così via. Come dire: se decido di lasciare libero di correre per un parco mio figlio, non posso pretendere che dal parco vengano tolte tutte le cose che potrebbero fargli male. Posso però decidere di stare ad una distanza ridotta. Posso accompagnarlo a guardarsi intorno, posso aiutarlo ad imparare ad osservare il posto in cui è. Chiedere di togliere la carrucola da un parco pubblico, per farvi capire, è come pretendere che mio figlio possa giocare a pallone senza che rischi di sbucciarsi le ginocchia. In questo senso, quando decidiamo di togliere le rotelle alla bici dei nostri figli decidiamo che siamo pronti (noi più di lui) a prenderci il rischio. Decidiamo anche che siamo pronti ad esercitare l’atra parte del nostro ruolo, quella, che per farla breve, aggiunge al desiderio di proteggerli anche il desiderio che possano viaggiare da soli. In questa connessione tra protezione e spinta verso l’esperienza, credo si giochi molto del delicato ruolo educativo attribuito ai genitori.

Il valore dell’esperienza, della libertà e delle opportunità.

Fare i genitori non è facile, lo so. Tante domande e poche risposte. Torna sempre la stessa domanda. Cosa vuol dire crescere, bene, un figlio? Significa aiutarli ad essere liberi, a scegliere e a farlo con la consapevolezza di ciò che fanno. Nelle loro esperienze devono fare i conti con gli ambienti reali che attraversano. Il rischio, invece, è che gli si costruiscano attorno esperienze artifi- ciali, in cui gli apprendimenti risultino poi poco esportabili. Come possono imparare ad affrontare la vita se non attraversando le esperienze della vita stessa? I nostri figli hanno necessità di provare, sbagliare e di cadere. Hanno anche bisogno di sentire che ciò che succede fa parte della vita e dell’esperienza, non che, le cadute, siano una strana e inaspettata interferenza su un tragitto che doveva essere lineare. Le cadute (come gli errori) non sono imperfezioni ma fan parte della vita, sono esperienza da cui a volte si può imparare molto e da cui non possiamo scappare. Facciamoli salire sulle carrucole, proviamo a far si che il nostro desiderio di proteggerli e tutelarli non tolga loro la possibilità di fare esperienza. Proviamoci e prima o poi, sarà possibile anche per noi accettare che anche la carrucola sia una buona opportunità di sperimentare il rischio, la paura ed imparare ad affrontarle.

parco5

Le due meravigliose creature nelle foto son le mie figlie. La piccola aveva paura di salire, la sorella più grande le ha permesso di fare un’esperienza. Mi son preso un bel rischio, potevano cadere. Ho trattenuto il fiato, ma son contento di aver rischiato.

Quindi, buona carrucola a tutti.

Christian Sarno

L’articolo che avete appena letto è stato pubblicato sul numero zero di Gaggiano Magazine, in edicola ad ottobre 2015. Ci tengo a ringraziare Marco Costanzo (per le foto), ideatore e coordinatore editoriale. Senza di lui, forse, questo articolo non sarebbe mai nato. 

 Per chi volesse scaricarsi e far girare l’eritcolo in versione originale, eccovi Carrucole pericolose in pdf e in versione A3

malgioglio«È vero, ho sempre usato le mani. E continuo a farlo. In campo come portiere e fuori: stando in mezzo alla gente che soffre, dando tutto me stesso. Perché, come dice il mio padre spirituale, le mani bisogna sporcarsele, mettendole anche nella m….” 

Ecco come parla di se stesso, il buon Astutillo (di cui ho già parlato qui), ex portiere dal nome strano, ex interista, grande uomo. Malgioglio è sempre stato un personaggio differente. Ha fatto per anni il secondo portiere, ha guardato per 5 anni (1986-1991) Walter Zenga giocare seduto su una panchina, sempre la stessa. Di lui, calcisticamente non si ricorda nessuno, se non qualche interista attento anche alle meteore passate nell’ Inter in quegli anni calcisticamente strani. Anni in cui i calciatori, ancora per poco, facevano un bel lavoro ben pagato, ma non così lontano da altri lavori. Dagli anni 90, il calcio non sarà più lo stesso, cambiando forse in modo irreversibile. Dagli anni ’90, il calcio si trasforma, definitivamente, in un vero business. Con i soldi, spesso, scompaiono tante cose, anche alcune belle storie. Nel 1992 finisce anche la carriera di Astutillo, che torna a fare altro. Torna a occuparsi, solo, di persone con disabilità, lavoro che aveva praticato parallelamente anche mentre faceva il portiere. Apre una Cooperativa (era 77) e una casa per ragazzi con disabilità. Lavora anche a domicilio. Attraversa, anche lui, una crisi psicologia forte, si risolleva. Oggi, con la moglie, lavora ancora con le persone in difficoltà. Quando parla di calcio e dei tempi dell’inter ne parla così: “Jürgen Klinsmann veniva anche due volte a settimana, evidentemente l’avevo colpito. Veniva nelle case dei ragazzi, mangiava con loro, parlava coi genitori. Una gran persona. Aveva un atteggiamento bello, senza pudori. Era libero. È stato l’unico.”

Non avevo mai pensato che si potesse definire chi si occupa degli altri; “uomo libero”, ma la cosa mi piace, parecchio. Chissà se gli educatori e le educatrici si sentono liberi per il lavoro che fanno. Buona Estate a tutti e buona ricerca della libertà, ovunque si nasconda.

Christian S.

E’ possibile parlare di cibo in modo differente? E’ possibile farlo a scuola? Lo si può fare partendo dalle idee che arrivano dai ragazzi? Io credo di si. Ecco uno dei prodotti nati grazie ad un laboratorio di Video-Educazione.

 

Se vi interessa, eccovi un po’ di video fatti con i ragazzi delle scuole medie e superiori negli scorsi anni.

Christian S.

contesaCara Viola.

Scrivo a te, a 9 anni puoi sicuramente capire cosa dico, perché come dice Janusz Korzack “Se continuiamo a stupirci per la perspicacia dei bambini, significa che non li prendiamo sul serio.” Poi, son sicuro che troverai il modo di spiegare a tua sorella quello che avrai capito. Lo farai a tuo modo e lei capirà, sicuramente.

Ti parlerò di precarietà, figlia mia. Ti parlerò quindi di: Mancanza di un reddito e di condizioni di lavoro adeguate su cui poter contare per la pianificazione della propria vita presente e futura” (fonte Wikipedia)

Te ne parlerò perché tuo padre è un precario. Coma tanti altri educatori, come tanti altri uomini e donne in questo complesso tempo. Ti parlerò di flessibilità e di me. Di punti fermi e di voi. Ti parlerò di fatica.

Che fatica fare il precario. Che fatica essere flessibile. Che fatica tentare, con scarsi risultati, di tenere fuori dal rapporto con te (e Lisa) la stanchezza e i pensieri prodotti da questi strani tempi. Che fatica fare il padre dentro un mondo che corre. Corre il mondo, corre il lavoro e quindi di conseguenza corre anche tuo padre. Che come ben sai non è in gran forma. Corre tuo padre e a volte si perde delle cose per strada. Perde pazienza, energia e volte anche lucidità. Ma sarebbe troppo facile scaricare sul mondo che corre le responsabilità dei miei errori, delle mie approssimazioni e delle comunicazioni errate. Almeno per un pezzo, queste imperfezioni, sono responsabilità mia. Il mondo che corre, rende solo impietosamente più evidenti le mie fragilità, di uomo e di padre.

In verità, amore mio, non saprei spiegarti se il tuo papà sia più precario, flessibile o per meglio dire ”piagabile”(stile sedia da campeggio per intenderci). So che ogni giorno, il ritorno a casa significa rientrare in uno dei pochi luoghi che di flessibile e precario non ha nulla. Voi ci siete. Sempre. Fisse. Ri- incontrarvi  (perché da 3 anni c’è anche tua sorella) alla sera è l’appiglio alla terra ferma, il ritorno in porto dopo una giornata di mare, spesso in burrasca, qualche volta solo mosso, raramente con mare piatto. Quando torno a casa, sento il grido : “ TERRA!”, appoggio il computer vi saluto e inizia un altro pezzo della mia giornata. Inizia forse il pezzo più difficile della mia giornata. Il pezzo della mia vita di cui sento maggiore responsabilità. Un pezzo prezioso per me e per voi che meritate tempo e spazio. Che meritate un padre tutto per voi. Che meritate energia tutta per voi. Che meritereste di non essere sfiorate dalle scorie della mia giornata da uomo flessibile e precario.

Ma questa è la vita, figlia mia, non è un videogioco in cui si può ricominciare da capo, non è uno spettacolo di teatro dove, aperta la nuova scena l’attore si cambia di abito, interpretando un nuovo ruolo. La vita è fatta così, ciò che succede in un luogo contamina ciò che succede altrove. Sarà poi responsabilità mia, che son “quello grande”, provare a far ricadere su di voi solo parte del mondo che corre. Un parte della corsa, figlia mia, invece, dovremo farla insieme.

Vista da questo punto di vista, la precarietà assumerebbe solo una connotazione negativa. Ma vostro padre, che è un personaggio strano, ha provato in questi anni a cercare anche il valore positivo (e pedagogico) del mondo precario e flessibile. La flessibilità e la precarietà, che se non son gemelle, son sorelle, ti costringono a ripensarti continuamente, ad investire, a gettare lo sguardo sul lungo termine, sul domani. Un precario non si può fermare, sedere (anche se a volte farebbe decisamente piacere) in questo senso, “le due sorelle” sono un deterrente alla noia. Il lavoratore flessibile non si annoia, questo è sicuro. In un certo senso, precarietà e flessibilità, ti costringono a correre dietro al mondo. Ad inventarti nuovamente, a cercare, a spostarti, a ri-progettare continuamente la tua vita lavorativa. In questo senso la flessibilità (la precarietà decisamente meno) mi ha aiutato molto in questi anni. Mi ha aiutato a dar valore a quello che sono, un “nomade dell’educazione”, un uomo che si innamora di tutto (o quasi) ciò che incontra, un uomo curioso ed errante. La flessibilità mi ha portato in tanti posti, mi ha donato la possibilità di fare differenti lavori, con tante persone e in tanti servizi. La flessibilità mi ha costretto ad incontrare gli altri, molto più di quanto avrei fatto se avessi avuto, come mio padre, il “posto fisso”.

Alla precarietà, invece non sono riuscito a trovare un valore cosi, positivamente, connotabile. Dalla precarietà mi porto via solo tanta fatica. Ma magari è proprio questo il valore, figlia mia, imparare a far fatica. Forse, come dico spesso ai genitori che incontro, dobbiamo imparare a far fatica noi, per aiutare i nostri figli ad affrontare il mondo, che di fatiche ne pone tante, anche quando non corre. Anche quando va piano, lentamente.

Vabbè, mettiamocela via così, Viola, come dice puffo quattrocchi: “ che è meglio”

A proposito. Tanti auguri. Goditi i tuoi 9 anni Viola e speriamo che il mondo rallenti un pochino. Anche solo un pochino andrebbe decisamente bene.

Con amore. Papà.

A proposito di dolore, vita e morte. A proposito di limiti, rischi e responsabilità. A proposito di rapporto tra la vita di un educatore e la vita degli altri.

Ovvero: I dialoghi tra Mister Red e Mister Blu. 

Tunisia 2000Lo sai, nel tuo lavoro può succedere. L’hai detto non più di due settimane fa in equipe che il nostro lavoro riguarda la vita e la morte. Sembrava melodramma, occhi perplessi o increduli, ma volevi dire che il lavoro che si fa è importante, è serio, bisogna farlo con cura, anche quando ridi insieme ai ragazzi o giochi a pallone. Lo sai, ma non ti va sempre giù: titoli dei giornali, solo se quel giorno qualcosa va storto. Ma dei giorni prima a corrergli dietro te ne ricordi ormai a migliaia, e te ne ricordi solo tu; in piscina anche se non ti va, a farti mordere, a ridere a piangere, con le vittorie, le sconfitte. Talvolta pensi a quello in tv con la battuta sempre pronta, a quello che è bravo con una palla o è sempre al posto giusto che guadagna in un giorno, un anno del tuo lavoro. Ma te lo sei scelto. Se non sei vecchio, magari hai pure studiato per quello. Se non sei stato fortunato magari hai visto tuo padre piegarsi negli anni, a  fare l’operaio, mai a cercare un riconoscimento. La paga a fine mese e basta così. E ti sei chiesto perché l’etica del lavoro è più praticata, dai 1500€ in giù.  Ma oramai sei stato educato così, che ci vuoi fare. E ci credi, che ogni vita è degna di essere vissuta se insieme rendiamo la vita degna, anche quando è  al limite, anche quando non parla, o dice cose strane, non muove muscolo. E credi che nel tuo lavoro ci sia una responsabilità nel renderla degna, insieme alla fatica di tante mamme e papà che non  vogliono, non possono arrendersi.

Poi. Poi un giorno succede. Terribile. Non doveva succedere, non poteva. Lo sapevi che nel tuo lavoro, ma non è come potevi immaginarlo. Accogli un papà in ospedale e mandi giù il pianto, perché non lo aiuti. No, forse perché ti vergogni di confrontare la sofferenza. Ma anche tu sei padre  e per un po’ il ruolo si appanna.

Ritorni a casa. Tuo figlio compie 10 anni. È un passaggio importante. L’ aspetta da settimane, questa serata speciale. Se la merita e anche noi abbiamo faticato per arrivarci. E così ridi insieme a lui e mentre lo fai un’ombra, un pensiero corre a quel letto di ospedale, a quel papà e senti il pudore di un’ingiustizia. Ma poi pensi e ti dici che abbiamo un dovere alla felicità, quando non è a spese degli altri. La sofferenza ci scorre attorno e qualche volta ci travolge. E i sensi di colpa sono solo acqua torbida che aggiunge dolore a quell’oceano di sofferenza. Ma pensa cosa sarebbe quell’oceano se non avesse una terra che lo contenga, o almeno un’isola che salvi dai flutti chi ne è investito. E allora abbiamo il dovere anche nei confronti degli altri di portare quella terra che è fatta anche coi granelli dei nostri momenti felici, di essere quell’argine che è fatto anche dalla responsabilità di fare bene il nostro lavoro, di essere quell’isola a cui possono aggrapparsi i naufraghi che un domani avranno anche i volti nostri, o dei nostri figli.

E allora domani, sveglia alle 6,30, treno e ancora al centro. Perché sì, ora sì che l’hai veramente capito: nessuno si salva da solo.

Mister Red

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Lo sai mister Red, che il tuo scritto rimbomba dentro di me come i bassi di una canzone drum’n’bass.

Milano_FuoriSalone 2015Rimbombano le parole dette e ascoltate in anni di lavoro educativo, le riflessioni sul rischio e sul limite. Sulla condivisione ed esplicitazione del pericolo. Rimbomba lo stretto collegamento tra l’educazione e la vita e in questa cosa tra educazione e morte, che parte della vita è. Rimbomba il dolore e il senso di impotenza di alcuni storie. Rimbomba l’eco del dolore di tutti i “miei ” ragazzi venuti per salutare, anni fa, un loro amico che non aveva avuto la forza o la fortuna di trovare qualche cosa per cui valesse la pena vivere. Riempiono i miei occhi le centinai di persone venute a salutare Luigi, anziano partigiano novantenne che non sembrava essere mai pronto per salutare. Ritornano tutte le immagini dei rischi che mi son preso in anni di lavoro da educatore e che mi prendo ancora oggi da padre. Quei rischi che si corrono quando si decide che è arrivato il momento di lasciare andare senza rotelle, di staccare la mano che tiene la bicicletta. Il rischio di perdere il controllo e di non poter più proteggere. Ritorna in mente la volta “del bagno al mare con la bandiera rossa” con Miss Purple. Ritornano le immagini di tutti gli errori fatti nella mia carriera professionale e degli errori che faccio, settimanalmente, da padre. Alcuni per dolo, alcuni per incompetenza, altri per stanchezza, altri semplicemente perché a volte capita. Quasi tutti errori che oggi posso raccontare sorridendo. Ma tu lo sai bene, mister Red, non tutti gli errori si possono trattare nello stesso modo, spesso alcuni errori son “più errori” di altri. La possibilità di riderci su, pultroppo dipende anche dall’esito.

Lo sai bene, mio caro Mister Red quanto questo tuo scritto risuonerà in mister Black, che con la morte ci ha fatto in conti mentre lavorava, come di rado capita ad un educatore, per fortuna. Chissà quanto altri educatori ed educatrici si ritroveranno nelle tue parole e nelle tue emozioni Mister Red, quanti di loro hanno fatto i conti con il senso del limite, del rischio, del pericolo, per sè e per le persone che avevano in carico. Quanti di loro si sono accorti della delicatezza e dell’importanza del nostro lavoro.

Lo sai quante volte mi son chiesto se valesse la pena prendersi un rischio e quante volte ho deciso di provarci, perché l’educazione è anche coraggio, perché senza il coraggio si rimane dove si è, fermi ad aspettare che le cose cambino da sole. Ma tu lo sai bene, le cose non cambiano da sole, spesso per cambiarle ci serve una spinta, una frase, un consiglio, un appoggio. Spesso ci serve qualcuno che ci accompagni lungo la strada e a volte dobbiamo esser lì anche il giorno dopo, alle 6.30, quando la sveglia suona.

Lo sai mister Red, il tuo scritto è pieno di te. Di ciò che sei come educatore, come padre, come uomo.

Lo sai bene Mr. Red, quanto spesso il nostro lavoro ha inciso sulla nostra vita e quanto i nostri figli ci hanno aiutato a resistere alla strana e pericolosa “usanza” di pensare troppo al lavoro. Viva i figli allora, caro mister Red, soprattutto quelli che pretendono, giustamente, di poter festeggiare il loro compleanno con i loro papà.  Quelli che ci permettono di poter portare quel granello di sabbia di felicità anche il giorno il passaggio dello Tzunami.

Mister Blu

Chissà cose ne pensano Mister Orange, Miss Yellow. Li attendiamo.

Le foto sono di Marco Bottani

P1060946Ovvero : Oggi papà viene a scuola con me (parte due). La parte uno la trovate qui

19 Marzo, festa del papà. Seconda esperienza alla scuola dell’infanzia. Una giornata, che questa volta pare partire all’insegna della consapevolezza, del ” so cosa mi aspetta”, del “adesso succede che…” ed invece. Già, perché hai sempre l’idea che essendoci già stato tu possa sapere cosa ti attende. Hai sempre l’idea che alcune emozioni, avendole vissute, siano controllabili. Ma basta poco a comprendere che le cose non stanno proprio così.

Pensi di aver imparato (ed è vero). Pensi di poter prevedere. Pensi che ne uscirai felice, senza scossoni, questa volta tranquillo e senza sorprese, ma presto ti accorgi che non è così, che ogni storia, ogni figlia, ogni esperienza di paternità ti trascina in una nuova strada.

Ore 9.00

Laboratorio con mia figlia Lisa (quasi 3 anni).

Obiettivo:  costruzione di una macchinina a vento e di una girandola.

Senso della giornata: ovviamente star con mia figlia, nel suo posto, con i suoi compagni, almeno una volta all’anno.

Valore: poterla guardare dove di solito non posso. Un’occasione rara, che difendo sempre con le unghie. Una grande occasione, che le educatrici di mia figlia mi hanno regalato anche quest’anno. Una mattinata che ha reso speciale una delle tante feste a cui sono allergico. Un nuova occasione di apprendimento, come sempre sono, le mie esperienze da papà.

Coloriamo la girandola. Guardo la spiegazione, sembra facile. Mia figlia si occupa del colore e del taglio della carena della macchina, mi distraggo un secondo e al posto della carena trovo una strana forma. Ci guardiamo. Mia figlia si accorge, credo dal mio sguardo, di non aver proprio fatto ciò che io e il progetto ci attendevamo da lei.

Mi guarda con quella faccia furba e mi dice. “Vabbè, fatto pasticcio”

Io, accompagnato da uno strano vento di calma e di attenzione pedagogica (cosa che con le mie figlie non sempre mi riesce), trovo un nuovo pezzo di carta, ridisegno la carena e le ripropongo il lavoro.

Riproviamo un altro paio di volte, ma la carena è roba da specialisti. Da padri appassionati di macchine, come si vede dalla foto, da padri non come me.

Mentre Lisa trita l’ennesimo foglio di carta, io provo a costruire la girandola, con quell’attenzione fluttuante che di solito non è per nulla presupposto di un lavoro di qualità.

Prendo la girandola colorata da mia figlia: taglio, incollo, piego e oplà… girandola finita.

Io : ” Guarda Lisa” . Soffio e la girandola vola via (mi ero dimenticato di fissarla con il perno).

Mi giro, con quella strana sensazione di avere gli occhi addosso e intercetto la faccia attenta di mia figlia.

Lisa: ” Papino Pasticcione”. Uno a uno e palla al centro. 

Ore 12.oo

Finisce la mattina e mi trovo a dover ringraziare le educatrici di mia figlia, che han fatto educazione senza quasi usar parole. Ma costruendo tempo e spazio per stare e soprattutto fare insieme.

Esco da scuola  e mi trovo in macchina, con la LisaCar sul sedile. Mi  ritrovo a sorridere e a ringraziare ancora una volta di aver incontrato le mie figlie, senza cui sarei sicuramente un uomo peggiore. Senza le quali sarei un uomo molto, ma molto meno felice.

Mi trovo a pensar di aver fatto una grande cosa il 19 marzo quando non sono andato a lavoro, ho spento il cellulare e mi son seduto su quella seggiolina scomoda a far merenda con mia figlia.

Christian S.

Ringrazio Sabrina per la foto e soprattutto per l’attenzione e la cura che pone nel coordinare il gruppo di educatrici della scuola di mia figlia. Ringrazio Monia e Federica, perché il loro sguardo, la mattina, mi aiuta a lasciare serenamente mia figlia. 

Ovvero : Sono Gay, Sono Gay e tu pensi Ricchione” ( cit Gino e l’alfetta – Daniele Silvestri)

Ospito con grande piacere l’articolo di Riccardo. Perché credo che sia necessario, per chi si occupa di educazione, lavorare sui pregiudizi, sulle generalizzazioni, sulle banalizzazioni e sugli stereotipi. La tematica che poniamo oggi, ne è piena. Buona Lettura.

Christian S.

di Artigianamente
fear4«Quando ho capito che aleggiava lo spettro che il mio emendamento fosse un cavallo di Troia per consentire le adozioni ai gay — dichiara la senatrice del Pd Francesca Puglisi — ho preferito ritirarlo e salvare una legge che fa fare un importante passo avanti ai diritti dei bambini»

L’emendamento in questione prevedeva l’estensione dell’adozione alle persone single.

«Ritiro l’emendamento – ha concluso – perché so che l’ottimo a volte è nemico del bene e questa legge, se approvata, consente davvero di fare notevoli passi avanti in materia di diritti dei bambini».

Sia chiaro nulla è mai facile come sembra e non ritengo di aver approfondito a sufficienza la questione in modo da poter offrire il mio punto di vista. Questa vicenda ha però di certo contribuito involontariamente ad evidenziare  i diversi impliciti che sottendono al problema delle adozioni gay.

Mai fidarsi dei gay

Se solo fossimo sicuri che le coppie gay non facessero finta di essere single (cosa peraltro inevitabile già che non permettono loro di sposarsi), allora l’emendamento potrebbe essere anche approvato. Per ovviare alla questione basterebbe chiedere ai gay di fare un patto di ferro e di non camuffarsi da single, ma è una partita persa: sappiamo bene che sono talmente mefistofelici che pur di adottare i bambini si fingerebbero cuori solitari.

L’OMS ci aiuti

L’emendamento sarebbe approvabile se:

  • L’omosessualità venisse, finalmente, inserita nell’elenco delle malattie.
  • Il single, candidato alla adozione, fosse vincolato a presentare regolare certificato di buona salute.

D’altronde se l’omosessualità non è una cosa normale, dovremo pur catalogarla in qualche maniera e sottrarla dal limbo in cui vagola da tempo. Lo status di malattia le restituirebbe una collocazione certa e l’omosessuale potrebbe finalmente emanciparsi in termini di identità.

Salute

L’omosessualità se fosse una malattia sarebbe trasmissibile.

Infatti è risaputo che anche la sola assidua frequentazione – figuriamoci una famiglia con genitori gay – induce tendenzialmente alla omosessualità.

Moralità

La trasmissibilità magari non avviene in forma meccanica e deterministica ma possiamo pur dire che certo crea un ambiente favorevole allo sviluppo della omosessualità o, comunque, più permissivo sul tema della omosessualità.

L’omosessualità è perlomeno immorale e se anche una coppia gay magari non dovesse trasmettere il seme della omosessualità di certo non educherebbe a condivisibili principi morali di base.

D’altronde i gay sono anche un po’ tutti pedofili. Non per niente non è il caso nemmeno che insegnino nelle scuole primarie.

Educazione

La coppia genitoriale è un modello che il figlio apprende e riproduce. Le coppie gay vengono ritenute capaci di riprodurre modelli genitoriali positivi. Si collocano quindi tra le più competenti sul piano della genitorialità.

Oppure la famiglia gay offre un modello negativo. Come tutte le coppie devianti induce a deviare diventando omosessuali o anche solo delinquenti in genere.

Oppure offre un modello negativo. Nel senso che crea traumi poiché il figlio non distingue più ciò che è normale e ciò che non lo è.

O perlomeno un modello che desta problemi. Infatti non può che creare disagio o a traumi poiché il figlio è comunque costretto a fare una fatica in più che data la sua storia dovremmo evitargli

In generale, poi  anche senza avere chissà quale storia alle spalle, ma perché mai un figlio dovrebbe occuparsi di fare anche i conti con il disagio che produce la frequentazione quotidiana di genitori gay, ha già i suoi di problemi!!

Anormalità

Il figlio adottivo ha diritto a ristabilire un quadro di normalità genitoriale.

L’omosessualità anche se fosse tollerabile, una questione di gusti o una qualche categoria dell’essere certo non è normale. Il figlio adottivo però ha diritto a ristabilire un quadro di normalità genitoriale. E’ una questione algebrica: i genitori naturali sono due e sono “Più” e “Meno”. Tutta la numerazione successiva deve sempre essere pari e composta da due opposti. Come abbiamo imparato a contare le capienze delle chiavette usb.

La legge è uguale per tutti

Certo “Chi sono io per giudicare un gay” sia pure, quando si tratta di argomenti quali l’educazione e la famiglia, la questione si fa delicata, qualsiasi incertezza, qualsiasi dubbio, diventa sufficiente ad emendare altri punti di vista, altre ragioni, anche quelle del diritto. La legge è uguale per tutti ma alcuni sono più uguali di altri.

 gay1Dov’è il problema?  

Per aiutare provo ad articolare la domanda:

Cosa rende me, eterosessuale, migliore di un omosessuale?

Cosa rende me, eterosessuale, più genitorialmente competente di un omosessuale?

Cosa rende me, eterosessuale, meno perturbante di un omosessuale?

Benin 2012Una mia collega, a seguito di una discussione sull’orario di lavoro, mi ha fatto pensare a quanto possa essere gravoso assumersi la responsabilità di determinare aspetti della vita altrui.

Sono coordinatore di servizi complessi in campo socio sanitario e mi capita, quotidianamente, di gestire una quota di potere che l’organizzazione ed il ruolo mi affida. Talvolta questa gestione incide significativamente nell’organizzazione di lavoro e di vita dei colleghi , come degli ospiti o delle loro famiglie.

Forse mi piacerebbe trovare qualcosa di eroico in ciò: Il duro lavoro che qualcuno, per fortuna, ha il coraggio di  svolgere; una sorta di ricompensa narcisistica per la fatica di affrontare conflitti e sentirsi quello “non buono”, ma senza il quale le cose non funzionerebbero.

Una tesi che , pur su una scala più grande, rischia di assomigliare a quanto sostenuto nei secoli dai despoti, sedicenti illuminati. Il frutto di una visione paternalistica nella gestione del potere.

Tuttavia credo che se esiste un aspetto significativo in questa questione, possa essere semmai quello di saper accogliere le conseguenze sulla propria  vita, delle scelte che compiamo su quelle altrui.

Fuori dalle ipocrisie della negazione del potere all’interno delle relazioni, aspetto su cui la categoria degli operatori sociali indulge troppo spesso,  trovo nella questione  oltre ad un risvolto squisitamente morale, un dato  intimamente legato a come soggettivamente ci poniamo nel lavoro di cura ed educativo.

In un certo senso mi sembra che possa parlare di quanto siamo pronti ad apprendere sulla questione del potere che ci troviamo a gestire.

Se Freire ci rammenta che” gli uomini si educano a vicenda in un contesto reale”, resta da capire che tipo di apprendimento può determinare una relazione di potere in chi ne rappresenta la parte prevalente, almeno dal punto di vista sostanziale.

In un certo senso, la gestione del potere è come una cartina di tornasole che evidenzia quanto nel determinare un cambiamento dell’altro, ci adoperiamo per permetterci la possibilità di cambiare noi stessi ed in particolare, il rapporto tra il nostro ruolo e la capacità di determinare il mondo e le relazioni intorno a noi.

Il paradosso è che per antonomasia, la condizione dell’avere potere dovrebbe favorire la capacità di mutare il nostro rapporto con questa facoltà, fornendoci una quota suppletiva di libertà. In realtà spesso la cartina vira sul rosso, se nella gestione del potere non sentiamo l’urgenza di capire come questo ci determini a sua volta, mutando le relazioni attorno a noi e la conoscenza  che abbiamo di noi stessi. Senza sentire questa impellenza, rischiamo di produrre una reificazione della propria posizione dominante, che ci allontana dal sentire la responsabilità delle nostre azioni sugli altri.  Assumere la fatica di questo lavoro permette perlomeno di rendere dinamica la nostra relazione con quello spicchio di potere che in un modo o nell’altro deteniamo, evitando di oggettivarlo , rendendolo immutabile e quindi rendendocene via via più indifferenti.

Non credo esistano soluzioni definitive , se non il lasciare sempre aperto il cantiere sul come avremmo potuto fare, e come potremmo fare diversamente la prossima volta. Non può risolversi una volta per tutte proprio perché accettiamo che nella relazione  c’è sempre qualcosa che ci educa, ci trasforma, in modo reciproco.

Nel processo Heicmann , come ci ricorda Hannah Arendt, la banalità del male lungi dall’essere legata ad una disposizione dell’animo  si è costruita sull’inconsapevolezza del significato delle proprie azioni e sulla lontananza dalla responsabilità del reale.  Heicmann , fino all’ultimo è sembrato non comprendere, cosa gli si imputasse: in quanto uomo, lontano dallo stereotipo dell’aguzzino, aveva solo osservato con buon senso le disposizioni e le leggi del reich, ed  osservare le leggi e l’autorità è generalmente considerato una buona cosa. Questa incapacità di implicarsi è ciò che reifica il potere, e si traduce spesso nella meccanica adesione a procedure amministrative, anche quando servono una macchina di morte.

Pur in contesti fortunatamente meno drammatici, anche noi ci troviamo nei servizi a gestire la responsabilità del potere sull’altro. Spesso in modo silente, giorno dopo giorno possiamo determinare traiettorie di vita, che solo con leggerezza possiamo non considerare. Questo riguarda ogni ruolo, anche di chi non ha incarichi di direzione. Non vale a diminuirne il significato, il fatto che molto spesso ( e per un verso, fortunatamente) i cosiddetti utenti dei dispositivi educativi/ riabilitativi risultino essere alquanto recalcitranti ,anche se sovente attraverso forme dolorose, agli ideali di formazione dei servizi e di chi vi abita.

Al contrario evitare di accogliere le conseguenze sulla propria vita delle scelte e delle valutazioni che compiamo sugli altri , realizza una operazione di depotenziamento professionale e di ruolo di cui poi risulta difficile lamentarsi.

Significa infatti determinare un rapporto con il proprio potere/poter fare/poter determinare che nel peggiore dei casi ci rende via via più autoritari , nel migliore più ininfluenti

La cognizione della gravità delle decisioni che compiamo sugli altri infatti, non è solo una questione della responsabilità che ci prendiamo, ma misura anche il valore che attribuiamo al nostro lavoro richiedendo  ogni volta di mettere a repentaglio la nostra autorevolezza con conseguenze non sempre prevedibili sulla nostra vita professionale

Il percorso di consapevolezza che, attraverso la relazione con l’altro, ci porta a comprendere la nostra relazione con il potere, pur se faticoso e pericoloso per i nostri equilibri, risulta un imprescindibile presupposto per avere la speranza che il nostro lavoro possa favorire quelle condizioni in cui le persone possano trovare una propria strada per emanciparsi, anche da noi e dai nostri servizi. Un obiettivo per cui, mi sembra, valga ancora la pena fare il nostro lavoro.

Articolo di Massimo Vicedomini.

La foto è di Marco Bottani (sito)

educatore arroganteHo incontrato spesso gente arrogante nella mia vita. Ne ho incontrata da educatore, da studente e anche da cittadino.

Vedo gente arrogante tutte le volte che esco di casa, gente che sorpassa la coda nell’altra corsia e quando ti azzardi a farglielo notare, ha anche il coraggio di risponderti male.

Sono abituato ad averci a che fare, insomma.

Non riesco però a sopportare, tanto bene, l’arroganza del potere, né quando è connessa con il potere istituzionale né quando il potere si basa sul fatto che : ” sto meglio di te”, “ho studiato più di te “ oppure “ho un ruolo per te importante,”  o “ti sono necessario”.  Non riesco a sopportare chi abusa del proprio potere perché l’altro è debole, in difficoltà o in una situazione di marginalità.

Tempo fa una collega Assistente Sociale, mi racconta dell’incontro tra un’educatore e una madre.

Educatore: “Signora: …forse lei vede in me le competenze che non possiede.”

Ovviamente la Mamma in questione, non è stata in grado i difendersi e di dir nulla. Si è portata a casa, probabilmente, un grande senso di inferiorità e quella tipica sensazione che ti rimane quando sei vittima di un abuso di potere. Non è stata in grado di rispondere, anche perché, forse, mai si sarebbe aspettata un entrata di questo tipo da chi doveva essere lì ad aiutarla.

L’educatore in questione ha mostrato (anche e soprattutto nella incapacità di rileggere la durezza della sua “arrogante” comunicazione)  la mancanza di alcune competenze di base necessarie per svolgere le funzioni di aiuto, forse addirittura dei requisiti minimi per fare educazione professionale. Per fare educazione, prima (o accanto) alle competenze tecniche, servono competenze etiche, umane ed emotive. Bisogna possedere grande umiltà, rispetto e eccezionale attenzione nell’uso del proprio sapere e soprattutto del proprio potere.

La mancanza di queste competenze di base, purtroppo, vanifica anche le competenze tecniche e scientifiche.

Le vanifica perché le invalida e le tradisce.

Le vanifica perché un educatore arrogante è un educatore pericoloso. Perché facciamo un lavoro delicato, in cui mettiamo “le mani e la testa” nelle vite delle persone che accompagniamo. Perché non si può abusare in questo modo della posizione di forza che spesso ci troviamo a esercitare.

L’abuso del potere, è quindi,  un problema anche dell’educazione.

Se nell’articolo dell’ educatrice razzista ponevo una domanda, qui mi permetto un’affermazione: all’educatore arrogante non dovrebbe essere permesso di fare il suo lavoro, almeno fino a che che non decida di cambiare, di imparare ad essere un educatore.

La domanda, in questo caso è: come possiamo fermare gli educatori e le educatrici arroganti? 

Un caro saluto. Christian S.

Ps: Sabato sera, uscirà un’articolo di un collega proprio sul potere in educazione, vi consiglio di leggerlo.

La foto è di Marco Bottani (www.ibot.it)

Devo molto a Rosa, mia grande maestra di vita e al mondo dell’educazione professionale, che mi accompagna da ormai quasi vent’anni. In questo libro potete trovare entrambe le cose, alcune storie di educazione professionale e pezzi del pensiero di Rosa Ronzio, consulente pedagogica che per 25 anni, all’interno dello studio Dedalo di cui era co-titolare, ha formato tanti colleghi, compreso il sottoscritto.

Il labirinto dei destini incrociati è un libro utile per capire cosa vuol dire fare educazione professionale nei servizi alla persona. Un testo che aiuta a comprendere le fatiche, i pensieri e le domande che gli educatori e le educatrici affrontano mentre lavorano. Chi si occupa di educazione professionale si riconoscerà in molte di queste storie. Quindi, non posso che consigliarlo. Anche ai non addetti ai lavori, ovviamente.

Unico problema: non è in vendita diretta. Se lo volete, dovete contattate l’autrice (rosa.ronzio@gmail.com) e lei troverà il modo di farvelo avere, magari tramite uno dei tanti autori dei testi. Io ne ho qualche copia. Se vi serve, battete un colpo. rosa

Rho

Quando ho letto il post di Fabrizio mi son posto due domande, entrambe trovano parziale risposta nel post di Andrea (che ringrazio), che potrete leggere sotto.

La prima domanda è: Ma come funziona il Baskin, che regole ha? Come riesce a valorizzare le differenti competenze e abilità?

La seconda domanda è relativa alla rapporto tra disabilità, competizione e agonismo.  Mi son chiesto: Possibile che anche in ambito “protetto”, in cui l’obiettivo principale parrebbe l’ inclusione delle competenze si parli di competizione, vittorie e risultati?

Possibile si, perché non dovrebbe essere così? Forse solo perché a tirare a canestro ci son persone con disabilità? Un ragazzo in carrozzina non ha il diritto di desiderare la vittoria?

Quanti preconcetti accompagnano le persone con disabilità.

La mia domanda si fonda su un preconcetto, tra l’altro pure di stampo discriminatorio e decisamente “buonista” (“Orrore”).  Il pensiero retrostante è che le persone con disabilità non si possano permettere di provare gli stessi sentimenti di un giocatore professionista. Come se la disabilità dovesse, in automatico, modificare il senso e il valore di una partita di basket. Questo è ovviamente un pensiero che non aiuta l’inclusione, che si sofferma solo sulle differenze e le banalizza, un pensiero che non tiene conto delle somiglianze e perde di vista, soprattutto, il contesto dentro cui si svolge l’incontro tra le persone. E’ un pensiero prigioniero degli schemi che sottolineano le mancanze e i limiti e non le opportunità, la forza e la potenza nascosta in alcuni giochi di squadra.

Ho sentito che fosse necessario fermare il pensiero che mi aveva attraversato. Alcuni pensieri vanno analizzati e approfonditi, perché rischiano di farci perdere di vista il reale senso di alcuni incontri. La domanda che mi son fatto, il pensiero retrostante e il preconcetto emerso nell’analisi, si concentrano tutti sulla disabilità perdendo di vista la persona e ciò che sta facendo.

Se avessi lasciato scorrere il pensiero, avrei perso l’occasione di riflettere su una delle competenze più importanti che si possono sviluppare grazie al Baskin, ovvero: imparare a costruirsi un buon rapporto con le vittorie e le sconfitte. D’altro canto, anche io ho imparato a perdere proprio grazie alla innumerevoli batoste subite nella mia ventennale carriera cestistica e non serve raccontare, quanto questa competenza mi sia stata utile nella vita, successivamente.

Il baskin è uno sport, con regole differenti, ma in cui uno degli obiettivi rimane, si gioca per vincere. Quindi, bando alla chiacchere, alziamo la palla e che vinca il migliore!

Buona lettura. Christian.

Erica al tiroBaskin . Alta tensione evitabile?                                       di Andrea Brunelli

Se vai a vedere una partita di Baskin o giochi una partita amichevole probabilmente rimarrai stupito dal clima di festa sugli spalti e dal fair play in campo.

In campionato le cose in campo cambiano. Perché tutti vogliono vincere e il Baskin soffre dei battibecchi tipici di tutti gli sport: “era fallo”, “era mia”, “era fuori” …(e meno male che non c’è il fuorigioco!). In più ha delle polemiche specifiche, di solito i motivi di attrito sono sulle deleghe* e sui ruoli**.

Se aggiungi che non c’è una classe arbitrale vera e propria ma che è la squadra di casa che deve fornire un (e di solito un solo) arbitro, e che magari c’è qualche vecchia ruggine tra le squadre, ecco che gli ingredienti una situazione incandescente ci sono tutti.

Il fischio di inizio rischia di coincidere con l’accensione della miccia.

Cosa succederà ? E’ inevitabile che la scintilla percorra tutta la sua serpentina ?

Dipende. Forse no. Di solito no.

Ci sono almeno tre fattori che abbassano la tensione.

Primo. Nel Baskin ogni squadra ha giocatori maschi e femmine per regolamento. Ogni squadra ha giocatori forti (si spera) e meno forti. Ci sono i cosiddetti normodotati e persone con qualche handicap. Questa combinazione di persone diverse sposta il baricentro dalla competitività esasperata verso qualcosa di inedito: il Baskin appunto.

Secondo. Nel Baskin c’è la bella abitudine di applaudire il tiro del pivot proprio e avversario che faccia o meno canestro. Il pivot è quel ruolo che gioca in un’area semicircolare protetta posta sulla linea laterale all’altezza della metà campo. Ha 10 secondi per effettuare un tiro da 2 o 3 punti. Da un punto di vista agonistico, il pivot avversario è l’ultimo giocatore da incoraggiare poiché di solito sono i punti dei pivot che determinano il risultato finale della partita. Ma in quell’applauso ci si ricorda che il Baskin non è uno sport come gli altri. Si applaude allo sforzo, all’impegno e all’abilità di uno per applaudire lo sforzo, l’impegno e l’abilità di tutti. Inoltre il tiro del pivot è un momento particolare della partita, il preferito dal pubblico: è quasi come un rigore nel calcio. Qualche secondo in cui compagni, avversari e pubblico sono sospesi insieme a guardare la cosa più bella e semplice di questo sport: vedere se la palla entra nel canestro. Insomma quel tiro unisce le due squadre e il pubblico.

Poi finito l’applauso, nemici come prima fino al fischio finale.

Terzo. Siccome le squadre sono miste, gli spogliatoi non sono divisi in locali – ospiti, ma maschi di qua – femmine di la. Quindi a fine della partita ti ritrovi nello spogliatoio proprio con quel tizio con cui magari hai avuto una scaramuccia in campo. Ma qui hai un’opportunità unica di fare due chiacchere e stemperare gli animi. A me è capitato durante una partita in cui avevo subito parecchi falli ed avevo chiesto di uscire prima della fine perché sentivo che ero troppo nervoso. Negli spogliatoi ho iniziato a parlare col mio marcatore (stretto) e ho trovato una persona buona che mi ha raccontato di quando giocava a basket, di come ha iniziato a giocare a Baskin con suo figlio disabile…insomma è stato un momento in cui ho potuto vedere la cose da un’altra prospettiva. Tutt’oggi quando ci affrontiamo ci salutiamo con cordialità.

Nel Baskin, come in qualsiasi sport, l’alta tensione è sempre in agguato.

Come sarà la prossima partita ? No lo so, dipende da noi.

Ogni squadra è come un vascello nei caraibi con una polveriera nella stiva: se vuoi goderti la vacanza tieni a bada la tua polveriera.

Ogni squadra la propria!

Auguri !

* La delega consente all’allenatore di chiedere ed ottenere che il proprio pivot possa tirare da più vicino rispetto alla distanza fissata dal regolamento. Di solito la si chiede per quei giocatori che non hanno il tiro abbastanza lungo per arrivare al canestro. Se poi un pivot ha percentuali di realizzazione superiore al 90%, ti chiedi se la delega fosse necessaria.

** L’allenatore assegna un ruolo ai propri giocatori in base alle loro abilità. Un giocatore forte avrà ruolo 5. Uno meno forte il ruolo 4, ecc. Il regolamento impone più limitazioni ai ruoli più forti :a d esempio non possono difendere sui ruoli più deboli. Schierare un giocatore forte come un 5 con il ruolo 4 da dei notevoli vantaggi alla propria squadra, ma è scorretto.

Se volete seguire la squadra ecco il link della pagina Facebook del Baskin Rho.

baskin 1Dicembre 2014

L’azienda per cui lavoro affida il confezionamento dei regali per clienti e dipendenti ad AGDP Onlus, associazione impegnata nel costruire insieme a ragazzi con Sindrome di Down un futuro di dignità e di autonomia professionale. Durante un pranzo organizzato con questi ragazzi, Martina, indubbiamente la “leader” della situazione, mi racconta i suoi programmi pomeridiani: “Oggi pomeriggio ho gli allenamenti di Baskin” dice con entusiasmo contagioso. “Di cosaaaa?” domando io, perplesso. “Il Baskin è uno sport come il basket, ma dove noi giochiamo insieme ai normodotati” risponde lei lasciandomi basito per la sua sorprendente padronanza del linguaggio.
Inutile dire che, raccolta la mascella, passo il pomeriggio in cerca di informazioni sul web. Mi imbatto così in un regolamento articolato, in qualche filmato sul tubo ma soprattutto nella pagina facebook del Baskin Rho. Bastano pochi click e a Gennaio eccomi pronto al mio primo allenamento di Baskin.
Siamo in una marea e ce n’è per tutti i gusti: normodotati che sanno (o pensano) di saper giocare a basket, normodotati alle prime armi e ragazzi con diversi gradi di disabilità fisica e/o mentale.
Dopo 20 minuti di esercizi vari finalizzati al coinvolgimento di tutti i giocatori, si inizia a far sul serio con la partitella. Si gioca 6 per parte, si attacca (e, almeno teoricamente, difende) sia nei canestri classici, sia in canestri di diversa altezza posti all’estremità della linea di metà campo. Il gioco così si sviluppa in maniera completamente diversa dal basket, senza il classico avanti e indietro.
Sono ovviamente disorientato, ma mi piace da matti, tutti giocano per vincere e per farlo si devono sfruttare le qualità di ogni persona, che indipendentemente dalla propria abilità, è chiamata a dare il suo fondamentale contributo.
Senza quasi rendermene conto, si arriva alla prima partita del campionato, che ci vede subito di fronte in un derby con il nostro settore giovanile (il che mi fa rendere conto che, a 33, sono ormai nella squadra dei “vecchi”). Vinciamo una bella partita di una ventina di punti, mi colpiscono in particolare:
– vedere il nostro giocatore/allenatore giocare contro i suoi due figli (uno dei quali in carrozzina) per lui è derby nel derby;
– su 56 punti totali, una buona trentina li hanno messi le persone con le disabilità più gravi (Marco, cecchino in carrozzina ed Erika, una ragazza con disabilità ma che dalla sua mattonella è più puntuale della rata del mutuo)
– sugli spalti più pubblico della maggior parte delle partite di Serie D che ho visto quest’anno, con applausi e incitamenti equamente distribuiti;
– a fine partita, foto di gruppo delle 2 squadre e grandi sorrisi per tutti.
Solo un paio di settimane di allenamenti e di nuovo in campo, questa volta a Cinisello contro le temibili “Pantere”, in una partita sentita da entrambe le parti per via di precedenti un po’ turbolenti.
Pronti via e perdiamo la bussola, lasciandoci andare ad evitabili proteste e ritrovandoci sotto 20 a 5 in un Amen. Ristabiliamo un minimo di calma ed incominciamo la lenta rimonta, che ci porta a vincere in volata 46 a 43, non senza qualche tensione in campo. Questa volta la mia attenzione è catturata soprattutto dall’intensità e dalla battaglia agonistica vista in campo, che da una parte evidenzia il carattere sportivo e competitivo di questo sport (quindi non “assistenzialista”), mentre dall’altra riporta a galla problemi e atteggiamenti che speravo di non trovare in un contesto almeno teoricamente “protetto”. E questo apre molto spazio per il dibattito su dove sia da porre il limite e quale sia il reale obiettivo dello sport a tutti i livelli.
Marco il cecchinoRimango altresì colpito dal costatare che Marco (il cecchino) ne ha messi 21, su 46… San Marco! L’indomani, 15 febbraio, è la giornata del Baskin a Cremona (dove questo sport è nato). 10 (DIECI) squadre della sola provincia di Cremona si affrontano in uno spezzatino domenicale con straordinaria cornice di pubblico e e partecipazione di cestisti di grido (uno su tutti, Daniel Hackett).
E questo è solo l’inizio…
I love this Game!
Articolo di Fabrizio Foglia

malta busMalta, estate 2014. Salgo con la mia famiglia su un bus Maltese, non consapevole che stavo per assistere ad una inaspettata lezione educativa, o quasi.

Nei bus Maltesi ci sono alcuni posti riservati, due sono riservati ai portatori di Handicap uno alle madri con bimbi piccoli sul passeggino (il disegno raffigura una donna ovviamente). Si vede che son stati dominati dagli inglesi, che hanno una pessima cucina, ma su questa cose son forti.

Il bus è pieno, molti turisti, qualche maltese.

Salgo con fatica con il passeggino, sia per la sabbia incastrata nelle ruote sia per la quantità di persone che mi trovo davanti.

Mentre mi faccio faticosamente strada sento la voce dell’ autista che sembra dire: stand up (alzarsi)

Spingo il passeggino (10 cm)

– Stand Up

Spingo il passeggino (20 cm)

-Stand Up (la voce si fa sempre più vicina)

Spingo il passeggino ( 50 cm)

-Stand Up (la voce è ormai alla mie spalle)

Mi giro. Il piccolo autista si para davanti ad un turista 40-50 enne comodamente seduto sul posto dedicato alle donne con figli. Il simpatico turista ha inoltre adagiata sulle gambe la corpulenta e abbronzata fidanzata.

Il piccolo autista con aumento esponenziale del volume della voce e guardandolo dal basso all’alto dice: Stand Up, you understand ? (alzati, hai capito?).

Il turista risponde:  I understand (ho capito)

L’autista ripete 4-5 volte la stessa domanda ricevendo la stessa risposta. (Ho avuto la netta sensazione che si aspettasse le scuse, ovviamente mai arrivate)

Epilogo: Il turista si è alzato ed ha lasciato il posto a me, che come ben sapete non sono una madre, ma che in quel caso ne interpretavo il ruolo. Fine della storia, per fortuna. (Poteva andare anche peggio, citando Igor in “Frankenstein junior”).

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Ho, in prima battuta, quasi solidarizzato con il turista, perché il tono mi era sembrato forte, aggressivo, quasi eccessivo.

Poi, riflettendoci ci ho ripensato.

E’ vero, si possono dire le cose in diversi modi, con differenti toni, magari più pacati, ma sedersi sul posto dedicato ai portatori di handicap o alle madri con figli è un’azione culturalmente violenta, fatta di superficialità, disattenzione, insensibilità o ignoranza e che ha un significato anche visivo, terribile, per me inaccettabile. Un’azione che nega un diritto.

Ci siamo quasi abituati alle macchine posteggiate nel parcheggio riservato, sui marciapiedi che non ci facciamo caso, se non quando quel posto ci serve. Se non quando, con il passeggino siamo costretti a passare in strada, rischiando la vita. Fino ad allora rischiamo di esser tolleranti, di dire: vabbè, di passare oltre.

L’autista questa volta ha deciso di non far finta di nulla e di dire, di parlare. Di dire in modo forte, magari anche eccessivo. Forse perché stanco o perché costretto a ripeterlo più volte, ad alzarsi dal posto di guida oppure perché il turista non si è mai scusato. Magari le scuse avrebbero condotto l’autista a moderare il suo tono.

Non è importante ora perché fosse arrabbiato. L’autista era orientato alla difesa di un diritto.  Da questo punto di vista : “chissenfrega dei modi “, verrebbe da dire. Mica si può sempre parlare in modo gentile a chi manco si accorge di ciò che sta facendo. Mica si può accettare che manco ci si scusi per aver occupato un posto di cui non si hai il diritto.

Non amo i gesti violenti e nemmeno le modalità aggressive, sia chiaro, ma in alcuni casi, forse un pochettino di forza nelle parole non guasta.

Altra cosa che mi ha colpito, in conclusione, è stata la mia reazione. Son sembrato quasi più interessato a tutelare il turista che a tutelare un diritto che in quel momento avevo. Mi son sembrato, inoltre, più attento alla forma (certamente importante) che alla sostanza. Più attento agli altri che a me. Mi ero quasi dimenticato che il posto fosse dedicato a chi era in una situazione di maggiore difficoltà rispetto agli altri. Quindi a chi andrebbe maggiormente tutelato. Mi era sfuggito che l’autista stava lottando per il rispetto di un diritto.

Detto questo, mi rimangono aperte alcune domande, eccole.

  • Riusciamo a tollerare che sia necessario, in alcuni casi, usar la forza per far rispettare i diritti delle persone?
  • Possiamo pensare che l’uso della forza (in questo caso verbale) possa essere anch’essa un’azione educativa?

Ad entrambe le domande, fatico a rispondere in modo chiaro e deciso. La mia “allergia” alle modalità aggressive mi condiziona.

 Christian S.

 Ps: Un altro strano caso in cui la vita si intreccia con l’educazione, vero A.M.?


Brasile 2009Un sasso nello stagno suscita onde concentriche che si allargano sulla sua superficie, coinvolgendo nel loro moto, a distanze diverse, con diversi effetti, la ninfea e la canna, la barchetta di carta e il galleggiante del pescatore. Oggetti che se ne stavano ciascuno per conto proprio, nella sua pace o nel suo sonno, sono come richiamati alla vita, obbligati a reagire, a entrare in rapporto tra loro. Altri movimenti invisibili si propagano in profondità, in tutte le direzioni, mentre il sasso precipita smuovendo alghe, spaventando pesci, causando sempre nuove agitazioni molecolari. Quando poi tocca il fondo, sommuove la fanghiglia, urta gli oggetti che giacevano dimenticati, alcuni dei quali ora vengono dissepolti, altri ricoperti a turno dalla sabbia. Innumerevoli eventi o microeventi, si succedono in un tempo brevissimo. Forse nemmeno ad aver tempo e voglia si potrebbero registrare tutti, senza omissioni.

Non diversamente una parola, gettata nella mente a caso, produce onde di superficie e di profondità, provoca una serie infinite di reazioni a catena, coinvolgendo nella sua caduta suoni e immagini, analogie e ricordi, significati e sogni, in un movimento che interessa l’esperienza e la memoria, la fantasia e l’ inconscio e che è complicato dal fatto che la stessa mente non assiste passiva alla rappresentazione, ma vi interviene continuamente, per accettare e respingere, collegare e censurare, costruire e distruggere.

Gianni Rodari – La grammatica della fantasia – 1973 – Cap.2

Questo dovrebbe fare l’educazione, essere “sasso nello stagno”.

Christian S.

La foto è di Marco Bottani

quel che resta dep padre

Qualche mese fa la redazione di Pedagogika.it mi ha chiesto di scrivere un articolo su educazione e valori. Quello che potete leggere qui di seguito è ciò che ne è nato. Li ringrazio sinceramente per l’opportunità che mi hanno dato, perché mi ha permesso di poter parlare di un tema così importante come quello del rapporto tra educazione e valori e soprattutto perché ho potuto farlo parlando  di mia figlia Viola.

Il racconto che segue lo potete trovare all’interno della rivista Pedagogika.it dal titolo Educazione e Valori (Anno XVIII, n° 2 , Aprile, Maggio e Giugno 2014)

Quel che resta del padre. “Riflessioni pedagogiche di un padre alle prese con l’educazione di una bambina libera”

Credo fortemente nel valore del racconto più che dell’ascolto. Mi piace pensare che raccontare sia un modo per lasciare traccia di ciò che avviene, di una storia, degli incontri che si fanno e soprattutto di se stessi. Mi piace  raccontare ciò che vedo e soprattutto mi piace tanto pensare che ci siano persone che abbiano voglia di leggere ciò che scrivo. Mi piace pensare che non sia necessario essere uno scrittore affermato per scrivere, oggi lo si può fare anche e velocemente nei blog, in uno di quei luoghi virtuali dove capita di incontrare storie bellissime. In qualche modo questa cosa mi sorprende, perché per anni sia la lettura sia la scrittura sono stati un mezzo incubo per me. Oggi invece mi piace scrivere. Mi piace pensare che in educazione serva imparare a raccontare, anche e soprattutto a raccontare ciò che si fa.

Poter fare ciò che fa piacere è un valore.

Un giorno di qualche anno fa son diventato padre. Ci sono cose che da padre non puoi governare e con questo ci fai i conti subito, dal primo giorno, dal momento in cui tieni per la prima volta un figlio o una figlia in braccio. Prendi immediatamente coscienza del fatto che i bambini sono imprevedibili, che avanzi per tentativi, per ipotesi, pescando dalle esperienze altrui, dai libri, dai consigli del pediatra e delle nonne. Ti accorgi presto che vorresti orientare le loro scelte, decidere per loro ed invece qui, i bambini ti sorprendono, decidono, scelgono di anticipare e stravolgere il tuo simpatico programma educativo e gestionale.

Provo a spiegarvi.

Il 16 giugno 2009 mia figlia Viola (che allora aveva 3 anni) ha deciso di lanciare il suo ciuccio nel water di casa della nonna, presa da un impulso di ribellione, per dimostrarci che era grande, che lei era come Lolis (così lo chiama lei) che aveva 5 anni e non lo usava più. Io e mia moglie abbiamo ovviamente colto la palla al balzo. Fin qui tutto bene, si potrebbe pensare, ma il problema è che la sera stessa era già pentita del lancio e dal suo lettino reclamava, urlante e piangente, il suo amatissimo ciuccio rovina denti.

La sera stessa, mentre sua madre le raccontava la storia del “Paese dei ciucci” (il luogo in cui vanno tutti i ciucci in pensione o in attesa di essere ciucciati da bimbi più piccoli) lei ha detto: “mamma non dire bugie” e si è girata cercando di addormentarsi singhiozzante, rassegnata e con la sensazione di essersi fregata da sola. E’ rimasta arrabbiata molti giorni, a volte con me ed altre pure (con la mamma non ci si può arrabbiare a 3 anni), poi forse si è definitivamente rassegnata.

Potersi arrabbiare è un valore.

Da quel giorno mi pare che mia figlia sia meno impulsiva. Non si è mai più affezionata a nessun altro oggetto nello stesso modo, ogni sera va a letto con un pupazzo diverso, giurandoci che è il suo preferito.

Come dire: Il primo amore non si scorda mai.

Uno dei modi che ha trovato, nei giorni successivi, per convincersi che il lancio del ciuccio fosse la cosa più giusta da fare è stato quello di continuare a ripetersi che era grande, durante una cena ha detto: “oggi mangio con i cucchiaio dei grandi mamma, perche sono una signora!”.

Diventare grandi è un valore.

Mia figlia Viola è una bimba libera, fa ridere, è forte e grintosa, ha carattere e pare assomigli al padre (che poi sarei io). Sta bene in gruppo, non le piace rimanere sola, è sempre alla ricerca dei suoi amici. Mia figlia impara velocemente, è viva, curiosa e testarda e questo a me piace molto anche se questa sua caratteristica mi crea sicuramente maggior fatica.

La libertà è un valore.

Quello che mi colpisce, da 8 anni a questa parte, è l’impossibilità di prevedere ciò che fa e ciò che farà. Quello che mi fa riflettere invece, è che non riesco mai a programmare nulla con lei, soprattutto non riesco a programmare i suoi apprendimenti, ciò che vorrei insegnarle. Programmare non funziona con mia figlia, perché lei devia dalle strade che le costruisco, impara come e cosa vuole, impara da ciò che vede, dagli altri, dai suoi amici, da sola, anche da me, ma impara solo quando decide lei. Anni fa, per farvi capire cosa intendo, mentre cercavamo di comprendere quale fosse il momento adatto per toglierle il pannolino, lei ci anticipò e osservando un amico più grande di 6 mesi, decise che avrebbe fatto la pipì nel vasino.

L’imprevedibilità è un valore.

Quello che capisco, oggi, è che per essere un padre sereno è necessario accettare che i bambini possano decidere cosa imparare e da chi. Accettare che insegnare sia diverso da manipolare. Accettare che i tempi per imparare non si possano decidere a tavolino. Accettare che per crescere i figli sia necessaria tanta capacità di esserci nel “qui ed ora” e di ascoltare ciò che ci rimandano ogni giorno, anche senza parlare. Quello che ho capito oggi, è che fare i figli è facile, crescerli è tanto meraviglioso quanto faticoso. Fare il padre non è donare il propriopatrimonio genetico, ma è educare. L’eredità che lasciamo ai nostri figli non sta nel colore degli occhi o dei capelli ma in ciò che gli abbiamo insegnato o gli abbiamo permesso di imparare.

Imparare è un valore, a qualsiasi età.

Fare il padre, è una possibilità, farlo nel migliore dei modi, non è affatto facile. Fare il padre è tante cose. Una fortuna, una fatica ma anche una grande opportunità. Un’opportunità per crescere, per imparare e per vedere in altri tracce di se stessi. Fare il padre è anche fare educazione. Fare il padre è anche lasciare, lasciare andare, lasciare traccia di noi. Vuol dire fare i conti con il padre che hai avuto, con il padre che vorresti essere, con i padri che hai intorno, con quelli che non ti piacciono ed infine, giorno per giorno, con il padre che sei.

 L’eredità è un valore.

Fare educazione è una opportunità che tocca tutti noi, che ci piaccia o meno, una responsabilità che ci convoca verso gli altri, verso la presa di responsabilità del nostro ruolo sociale. Fare educazione vuol dire essere interessati al cambiamento, ed esserlo a prescindere da dove portano le trasformazioni. Anche se dovessero portare lontano da noi. Fare educazione è anche un ruolo professionale, da qualche anno, studiato e  approfondito dalle università. Fare educazione per lavoro è una nuova e moderna strada possibile.

Avere delle opportunità è un valore.

In una società come la nostra, l’educazione è un valore, non solo per chi educa naturalmente (i genitori) o professionalmente (gli educatori professionali), ma per tutti i cittadini, perché è una delle più grandi e scomparse responsabilità di cittadinanza. Una responsabilità sociale che ci rende responsabili della crescita di tutti gli esseri umani. Tutti in modo differente ma tutti convocati al medesimo scopo, il benessere dell’altro.

Educare è un valore antico. E’ rispetto per la libertà dell’altro, che deciderà volta per volta cosa vorrà prendersi di ciò che proverai ad insegnargli. Educare è per me, il più alto valore possibile. Un valore che ti spinge a riappropriarti della tua responsabilità verso gli altri, piccoli e grandi, vicini o lontani. Un valore che ti costringe a occuparti degli altri, anzi ad occuparti sempre di più delle relazioni che costruiamo con gli altri. La responsabilità educativa ci chiede di tornare a sederci sulle panchine per osservare i ragazzi che giocano per strada per riassumerci quel ruolo educativo che i nostri nonni conoscevano ed esercitavano molto bene.

Riappropriarsi della responsabilità educativa individuale è un valore.

Le questioni educative devono tornare ad essere pubbliche e condivise, uscire dalle case e tornare ad essere oggetto di discussione nei parchi e nei mercati. L’educazione dei nostri figli deve tornare ad essere oggetto e responsabilità di tutti coloro che incontrano i ragazzi nella loro crescita. Ad ogni cittadino un pezzo di responsabilità per il proprio piccolo pezzo di incontro e di relazione. Ad ogni uomo e donna il suo pezzo di educazione da prendere e dare. Perché ogni ragazzo che cresce nei nostri paesi necessita di una comunità che lo accompagni nella crescita, ciò gli potrà permettere veramente di scegliere volta per volta la strada giusta da seguire. La sua strada.

Educare insieme è un valore.

Christian S.

PS: Giusto per parlare di libertà. Mia figlia, quella meravigliosa creature che potete osservare di spalle nella foto di apertura, non è interista. Almeno per ora, perché io, ovviamente, non desisto.

Milano 2013

Inizio 2014, poco fuori da una scuola elementare.

Una madre, mentre ritira il figlio, viene richiamata dalla maestra. Non sento il dialogo che ne segue, ma ne osservo incuriosito la mimica, i gesti e le espressioni. Quel giorno ho tempo e allora aspetto, guardo, osservo discretamente, e cerco di capire. Il film che vedo è quello di un dialogo che dura circa 15 minuti, in cui la madre non parla mai. La madre annuisce e basta. Muove la testa con una cadenza costante. La sensazione è che la maestra stia rimandando alla madre qualche informazione sul comportamento del figlio. La sensazione è che le stia raccontando una storia già sentita a cui la mamma non sa più né come rispondere né cosa dire. Finito il dialogo la madre si allontana pensierosa, testa bassa e sguardo preoccupato.  Ho anche la netta sensazione che la mamma si senta pesantemente in colpa. Come se la comunicazione le abbia rimandato, ancora una volta, di non essere in grado di risolvere il problema portato dall’insegnante.

Questa storia la sento molto vicina, perché spesso mi son trovato, sia da genitore sia da educatore ad annuire o far annuire gli altri. Sono state le domande che mi son fatto che mi han permesso di imparare qualche cosa da ciò che accadeva e di trovare nuove possibili domande e quindi risposte differenti.

Quindi:

  • Che scopo ha raccontare ad un genitore le difficoltà che il figlio ha a scuola, se ciò che gli rimandiamo non pare modificare nulla? 
  • Come possiamo aiutare i genitori a far tesoro delle informazioni che diamo loro?
  • Il fatto che la madre non faccia mai una domanda non ci lascia nessun dubbio sull’efficacia della nostra comunicazione?
  • Se la madre non ha nulla da chiedere, da approfondire? E’ solo un problema suo?

Ho imparato, negli anni, ad ascoltare l’effetto delle mie parole, perché è da questo che si possono imparare delle cose su come si comunica. Ho capito che se dalla stessa domanda arriva la stessa risposta forse è il caso di provare a cambiare la domanda iniziale.

Ho capito con il tempo che l’educazione è cambiamento. Può anche succedere di non riuscire a cambiare nulla. Ma se nulla cambia perché non riusciamo a cambiare il nostro modo di comunicare, forse per un pezzo, abbiamo la responsabilità di quell’immobilismo.

Christian S.

Mongolia 2009Questo  Post è dedicato a te, Zia A, con la speranza che tu possa rialzare la testa, piano piano, mentre ti allontani dal cancello della scuola.

Le foto sono di Marco Bottani (www.ibot.it)

“Quando smetti di usare la fantasia il nulla ti porta via tutto” ( cit: la storia infinita )

le ali

I bambini voglio credere, anche quando scoprono che alcune cose non esistono. Hanno ragione, perché il mondo della fantasia è meraviglioso. Gli adulti ricorrono sempre meno alla fantasia, sempre più compressi verso la ricerca di ciò che si può realizzare, alla ricerca, insomma, di strategie per affrontare l’oggi. Il rischio è che le difficoltà spingano a star bassi, schiacciati, seduti ad attendere. Il rischio che corriamo è che anche potendo saltare 2 metri si metta l’asticella a 180 cm, in modo da essere sicuri del risultato. Il rischio che corriamo abbassando l’asticella è che si smetta di cercare, di provare strade “che ci sembrano” impossibili. Smettiamo di credere nella fantasia, perché quello è il mondo dell’ impossibile. Di ciò che a noi pare impossibile. I bambini invece, dato che ci credono e ci provano, alcune volte ci riescono.

Per chi fa educazione, la parola impossibile è un macigno spesso difficile da spostare. La parola impossibile rimanda a ciò che non  possiamo fare, a ciò che è inutile tentare di raggiungere. Al limite, al confine del nostro agire e presidiare.

«Fantàsia non ha confini, è il mondo della fantasìa umana. Ogni suo elemento, ogni sua creatura scaturisce dai sogni e dalle speranze dell’umanità, e quindi Fantàsia non può avere confini. Fantàsia muore perché la gente ha rinunciato a sperare e dimentica i propri sogni, così il Nulla dilaga. Il Nulla è il vuoto che ci circonda, è la disperazione che distrugge il mondo e io ho fatto in modo di aiutarlo perché è più facile dominare chi crede in niente. E questo è il modo più sicuro di conquistare il potere. Sono il servo del potere che si nasconde dietro il Nulla.» Gmork

Il mondo di ” Fantàsia” è un mondo necessario ai bambini, ma lo è anche per gli adulti, schiacciati dalla necessità di presidiare  vincoli e necessità quotidiane. Lasciarsi andare alla fantasia, ai sogni, per un adulto vuol dire progettarsi verso un futuro, al di la di ciò che la nostra mente riconosce come possibile. Provare anche a raggiungere ciò che ci “pare” impossibile.

Vista da questo prospettiva, provare a cercare l’impossibile è un rischio necessario, forse inevitabile.

In questo periodo progettare e  lanciare uno sguardo sul futuro è una necessità anche per chi lavora nei servizi educativi, anche se un futuro pare non esserci. Pro-gettare (gettare avanti), guardare oltre ciò che ci sembra possibile, oltre ciò che sarebbe ragionevole, perché la crisi si sta mangiando i servizi pezzo per pezzo e solo in questo modo si può provare a lasciare aperte alcune strade.

Mia figlia questo Natale, pur avendo scoperto che Babbo Natale non esiste, ha voluto crederci comunque. Ha scritto la lettera, lasciato latte e biscotti vicino al camino, fatto le solite 500 domande su come funziona e atteso sino al mattino del 25 con grande trepidazione per poter aprire i regali. Forse è andata così perché avevamo appena visto la storia infinita o forse perché ha ancora solo 7 anni, ma poco importa, è andata così, è stata questa la sua decisione. Una decisione che in famiglia abbiamo deciso di rispettare.

Forse io, ho delle cose da imparare da lei.

Il nulla ( “il male che affligge il mondo di Fantàsia”) si vede e si sente anche da noi.  Sta a noi provare a contrastarlo, ma qui non basta dare il nome alla principessa (come succede nella storia infinita), qui è necessario provare a rinominare il senso profondo della parola “educazione”.

Insomma…. cosa significa educare in tempo di crisi? Verso che cosa educhiamo?

Auguro a tutti voi un 2014 di grande Fantasia.

Christian S.

copertina dedalo papinoSono, come dico nella presentazione del mio blog un Padre Imperfetto, mi piace definirmi padre errante, ma la sostanza è la stessa. Sono un padre che ha fatto un sacco di errori, non mi piace dirlo, ma non posso nemmeno mentire a me stesso. Mi pare di aver fatto meno errori con la mia seconda figlia e questo forse potrebbe significare che ho imparato un po’ meglio a fare il padre. Ovviamente questa è la mia idea,  saranno le mie figlie quando saranno grandi a valutare che razza di padre sono stato.

Sono un padre curioso e anche un po’ invidioso. Quando ho iniziato a fare l’educatore e successivamente il consulente pedagogico avevo sottovalutato le assonanze che il mio lavoro avrebbe avuto con la mia storia. Certo, perché occuparsi di educazione e pedagogia vuol dire fare i conti con come si è stati educati e quindi con il proprio padre, con il modelli educativi che abbiamo incontrato e soprattutto con i modelli che abbiamo amato e odiato. Significa fare i conti con la sensazione strana di dover mettere mano al proprio ” modello di padre” per poter aiutare gli altri a farlo con il proprio. E’ per questo che spesso dico che la mia ricerca, almeno una delle mi ricerche, sta nel tentativo di connettere gli apprendimenti paterni con quelli professionali. Il faticoso tentativo di non far scollare l’uomo dal professionista.

padri perfettiQuando ho incontrato il libro Padri Imperfetti (www.koipress.it) di Alessandro Curti ho avuto un sussulto di invidia: “…quel libro avrei dovuto scriverlo io, mannaggia…”. Ma per pubblicare un libro, oltre a sapere scrivere (cosa che sarebbe, nel mio caso, tutta da verificare) è necessario disporre di tempo, costanza e magari anche un’idea interessante. Io non ho avuto nessuna delle tre caratteristiche sopra elencate e quindi ho deciso di comprarlo. Mi è parso tutto più semplice.

Ho conosciuto Alessandro in rete, ma come dire, mi è piaciuto subito, ironico, dissacrante, mai sopra le righe, con un gran senso del limite e una spiccata somiglianza con il mio modo di vedere l’educazione. Uno di quei personaggi che ti viene la voglia di conoscere anche in carne ed ossa, insomma.

Come fai quindi a non comprare il suo primo romanzo. Soprattutto se parla anche di Padri-Educatori, cioè di quella categoria di uomini che si trova a fare i conti sia nella vita che nel lavoro con questioni di carattere educativo. Soprattutto se rischia, fortemente, di parlare anche di te.

Ho letto il suo libro a pezzi. Un bellissimo libro, intenso e ben scritto. Un libro che parla di come si può fare il padre, di come sia a volte faticoso, di mancanze e di competenze. Della capacità di imparare e di guardare al futuro. Dell’educazione come strumento per provare a cercare una strada che prima non avevamo visto. Un libro che parla, finalmente di cosa fa un educatore in un servizio di tutela minori. Un libro che ne parla da “un” punto di vista senza doverlo esplicitare. Un libro imperfetto, fatto di uomini e donne imperfette,  di bambini imperfetti. 

Un libro che parla di trasformazioni, dell’educazione come strumento per stare meglio e per andare oltre. Un testo che parla anche di padri che non riescono ad andare oltre, perché questa è una delle possibilità. Un racconto che narra in modo lucido di molti dei padri imperfetti che ho incontrato negli ultimi 40 anni della mia vita.

E’ un libro che parla dell’esigenza di fare i conti con le proprie imperfezioni e quindi che parla anche di me.

Grazie Alessandro, quanto mi piacerebbe incontrare “quell’Andrea” di cui parli nel libro. Ora provo a vedere se lo trovo su facebook. Sai per caso come si chiama di cognome?

Christian S.

acqua - bimbo

Novembre 2013. Fiocca la neve. La prima o forse l’ultima dell’anno.

Viaggio in macchina con le mie figlie. La più grande accarezza la piccola proprio sopra il naso. La piccola, ovviamente si addormenta. Io sbircio dallo specchietto e sorrido, felice.

Il gesto che osservo è lo stesso che ho fatto per anni alla mia figlia più grande e che non avevo mai ripetuto con la piccola. Un gesto che io, avevo stranamente accantonato.

Ciò che vedo mi riempie e mi rende felice. Mi piace il gesto perché lo sento mio, profuma di gesti che si tramandano, di padri e madri. Profuma di cura e di educazione. Della storia di una famiglia.  Profuma di un gesto dimenticato, smarrito e che mia figlia ha recuperato, forse perché è uno dei gesti che le ha tenuto compagnia in alcune delle notti del suo sonno tempestoso. Un gesto apparentemente dimenticato, almeno da me.

Ma i gesti, almeno alcuni, non scompaiono, si addormentano per poi svegliarsi di colpo, quando meno te lo aspetti. Rimangono nella memoria, forse e alcune volte più delle parole. Alcuni gesti rimangono sulla pelle, ne rimane traccia anche se non ci sembra.

Per un uomo di parola come me, osservare la potenza dei gesti è un grande insegnamento. Lo è come padre soprattutto come uomo. Imparare a dare ai gesti il giusto valore e la giusta importanza è uno degli miei obiettivi futuri.

Ogni tanto, affidarsi ai gesti aiuta, rallenta le parole, le ferma, le rimette al loro posto. Credo che, nell’era della parola il gesto vada ad assumere un significato ancora più prezioso, perché ancor più raro.

Io ho bisogno di rallentare le parole ed affidarmi ai gesti mi fa bene. Soprattutto quando sono così intensi e caldi. Mi piacciono i gesti che parlano di eredità. Mi piacciono i gesti che rendono naturale l’educazione.

Mi piace soprattutto guardare le mie figlie che si prendono cura una dell’altra.

Christian s.

La foto è di Marco Bottani ( http://www.ibot.it)

Oggi vi parlerò di uno dei miei blog preferiti.  Si chiama genitori e figli  http://genitorifigli.wordpress.com/

play mobil

Quando in rete incontro dei blog interessanti, mi prende una fortissima voglia di scoprire, capire e curiosare. Devo dire che non mi capita spesso, ma quando capita non possa fare a meno di cercare all’interno del blog informazioni per capire chi scrive, il mio viaggio è alla ricerca dei volti, dei lavori, degli stili e delle professioni.

Quando riesco a capire chi scrive, li immagino un po’ come me, seduti sul divano intenti a scrivere il nuovo post.

Quando ho incontrato questo blog la cosa che mi ha colpito di più è stata la passione generalizzata per i temi educativi. Pedagogisti, educatori, psicologhe, formatori e blogger, non importa la formazione, ciò che emerge è la passione per i propri figli e per il racconto. Ciò che emerge è la voglia di parlare di ciò che succede nella scuola, nel mondo dei servizi che accompagnano i bambini verso la crescita e nella vita in generale. Voglia di parlare di cinema. Voglia di suggerire e consigliare.

Quando leggo genitori e figli quello che vedo è lo sguardo dei genitori. Lo sguardo che vorrei in alcuni post provare a usare anche io. E’ un blog intenso, aperto, pieno di domande, ipotesi e idee. E’ un blog collettivo, scritto a 14 mani e con 7 stili e questo mi piace moltissimo perché bypassa il rischio che lo stile narrativo sia sempre lo stesso.

Le imprese collettive hanno sempre avuto si di me un fascino particolare, non ci posso fare nulla.

E’ un blog leggero. Come vorrei fosse il mio qualche volta, perché per me la leggerezza è un valore assoluto. E’ un luogo di genitori per i genitori. Un bel luogo insomma.

Se tornassi indietro, forse, aprirei un blog così, un blog condiviso. 

Christian s.

La foto è tratta dal loro blog.

Ecco altri siti e blog fatti da genitori per i genitori.

http://genitoricrescono.com/

… e quelli fatti da alcuni, luccicanti, papà.

http://labencheminimaidea.wordpress.com/

http://stratobabbo.blogspot.it/

http://congedoparentale.blogspot.se/

http://babbonline.blogspot.it/

http://www.thequeenfather.com/

potere dell'educazione

Novembre 2013 : Durante una supervisione con un gruppo di educatori, la discussione gira attorno al potere dell’educazione professionale, il potere di insegnare, di accompagnare, di proteggere, aiutare ma anche quel potere che a volte può risultare schiacciante, faticoso e complesso perché imprendibile.

Un potere che può essere anche ingombrante.

In ambito educativo competenze naturali e professionali si incontrano, le prima spesso provano ad imparare qualche cosa da ciò che l’ambito professionale potrebbe portare. L’educazione professionale dalla sua parte dovrebbe farlo da ciò che incontra in ambito naturale, perché è da li che arriva e perché questo incontro potrebbe permettere di capire meglio, approfondire e studiare i modelli educativi, familiari e genitoriali.

In alcuni casi ciò non avviene. I genitori prendono poco dagli educatori e viceversa. Mi preoccupa molto quando gli educatori non imparano da ciò che incontrano, ma questa volta vorrei concentrarmi maggiormente sulle difficoltà che potrebbero trovare i genitori ad imparare dagli educatori.

Ipotesi: Stiamo rischiando che le competenze apprese in anni di studi (fuori e dentro le aule universitarie) e di esperienza propongano ai genitori un modello di educazione inarrivabile o senza nessuna trasferibilità del sapere. Ossia: Come posso imparare da te se mi sembra che le tue competenze siano frutto di un percorso che non potrò affrontare? Se il tuo linguaggio non mi è familiare? Se i riferimenti non sono gli stessi? Il rischio, forse, è che la professionalizzazione del ruolo educativo, la crescita degli educatori e della cultura pedagogica stia sempre di più allargando la forbice delle competenze naturali e professionali. Da una parte i genitori, sempre più soli e quindi con meno spazio per imparare dagli altri modelli educativi naturali, dall’altra gli educatori, sempre più competenti e accompagnati e quindi sempre più potenzialmente lontani.

A cosa serve incontrare un educatore, se di ciò che dice non riesco/posso farmene nulla? Cosa me ne faccio di un bravo educatore che non sa trasferire le proprie competenze agli adulti che incontra. Non rischiamo solo di produrre una dipendenza dall’esperto? Quando ho un problema, chiamo l’educatore, insomma.

Un educatore non dovrebbe lavorare, anche e soprattutto, per non essere (ove possibile) più necessario? Per lasciare al sistema che incontra gli strumenti per fare senza di lui? Io credo di si, ma forse la domanda è : come?

Christian S.

La foto è di Marco Bottani ( http://www.ibot.it)

blog crossingIn vista della seconda Assemblea generale e materiale sulla CONSULENZA PEDAGOGICA che si terrà a Milano il 16 novembre 2013, alcuni blogger che ne prenderanno parte hanno deciso di lanciare in rete un blog crossing day nel quale parleranno, in un breve post, del perché hanno scelto l’educazione come professione e di come sono entrati in contatto con il gruppo Facebook “Educatori, Consulenti pedagogici e pedagogisti” da dove tutto ha avuto inizio.

Perchè lo fai, disperato ragazzo mio…

1. Perché mi occupo di educazione professionalmente?

2. Cosa c’entro io con il gruppo Educatori, Consulenti Pedagogici e Pedagogisti?

Parto dalla fine :

2. Il gruppo è figlio mio e come spesso capita, i figli sono differenti da come li avevi immaginati. Il gruppo è nato dall’idea di creare un luogo di incontro per tutti coloro che si occupano di educazione, quindi da una parte i professionisti (educatori, pedagogisti e consulenti pedagogici ) e dall’altra i genitori. Nel titolo del gruppo però aimè, mi son dimenticato i genitori, ma non essendo modificabile, è rimasto così. La frittata ormai era fatta. Tempo dopo ho deciso di allargarlo ad altri 5 colleghi conosciuti in rete. Sembrerà incredibile, ma alcuni di loro ancora oggi, non li ho mai visti di persona. Ecco come siamo diventanti i 6 amministratori che oggi governano il gruppo e come è diventato figlio anche di altri. Senza i miei compagni di viaggio il gruppo non sarebbe sicuramente ciò che è oggi, non sarebbe esploso, non avrebbe la cura e l’attenzione che mostra verso i partecipanti e verso ciò viene pubblicato e scritto. Non sarebbe stato un gruppo così ricco. Sarebbe uno dai tanti gruppi che ci sono in rete, pieni di spam, troll, insulti, gente che delira, e così via, perché se lo gestisci da solo spesso finisce così. Il mio gruppo è differente, insomma e ne sono molto felice, ovviamente.  Non ci sarebbe mai stata la prima assemblea generale sul lago di Monate del 21 settembre e quindi non ci sarebbe stata nemmeno la seconda.

Se ripenso alla strada che aveva preso prima di allargarlo ai magnifici 6, forse oggi il gruppo sarebbe chiuso. Se il gruppo è vivo è per merito di Alessandro Curti, Laura Ghelli, Monica Massola, Anna Gatti a Anna Apicella.

Oggi, approfitto di questo post per ringraziarli, perché ciò che è successo conferma che alcune volte, se metti insieme persone intelligenti possono anche partorire un progetto intelligente. L’unica cosa che  mi spiace è essermi perso l’obiettivo iniziale, quello di far parlare professionisti e genitori, ma per adesso va bene così.

1: Faccio l’educatore dal 96 perché amo questo lavoro, l’ho amato prima di sapere cosa fosse, prima di capire come e cosa dovessi fare. Prima di imparare a farlo. Ho rischiato di smettere di amarlo più volte in questi ultimi 20 anni. Ho continuato ad amarlo grazie ad alcuni incontri, alcuni colleghi, alcuni progetti, alcuni servizi, ma soprattutto grazie al percorso con lo Studio Dedalo. E’ il lavoro che mi ha permesso di amare anche la scrittura, odiata per tutti gli anni delle scuole dell’obbligo. E’ il lavoro che mi ha permesso di essere migliore come persona, come uomo e come cittadino. E’ il lavoro che vorrei fare da grande. Mi piace il lavoro educativo e mi piace mischiarlo con la parte consulenziale. Mi piace ciò che faccio perché mi costringe a non fermarmi mai. Mi son sempre chiesto perché, ma la risposta è questa. Mi occupo di educazione perché ho ancora la speranza che il mondo si possa cambiare. Perché quando cambiamo noi, poi inevitabilmente, succede qualche cosa anche a ciò che ci sta attorno. Ho sempre sognato di fare un lavoro che aiutasse le persone a crescere. Se non mi fossi occupato di educazione, forse avrei fatto il cuoco o il comico. Avrei fatto, credo, un lavoro orientato alla felicità.

Farò questo lavoro fino a che mi renderà un uomo felice, quando non sarà più così, cercherò altre strade.

 Christian S.

I contributi saranno condivisi sui diversi Social con  #assembleagenerale e #consulenzapedagogica
I blogger che partecipano sono:
Christian Sarno, “Perché lo fai, disperato ragazzo mio.”

https://biviopedagogico.wordpress.com/2013/11/11/perche-lo-fai-disperato-ragazzo-mio/

Laura Ghelli, “Parole e sguardi”

https://biviopedagogico.wordpress.com/2013/11/11/parole-e-sguardi/

Monica Cristina Massola, “In spostamento, tra uno spazio e l’altro”

http://pontiandderive.wordpress.com/2013/11/11/in-spostamento-tra-uno-spazio-e-laltro/

Elisa Benzi, “Guest Post.”

http://pontiandderive.wordpress.com/2013/11/11/guest-post-elisa-benzi/

Anna Gatti, “L’educazione tracciata.

http://edieducazione.blogspot.com/2013/11/leducazione-tracciata.html

Alice Tentori, “Lascio che le cose mi portino altrove.”

http://edieducazione.blogspot.com/2013/11/lascio-che-le-cose-mi-portino-altrove.html

Alessandro Curti, “Scontrarsi con l’educazione.”

http://labirintipedagogici.blogspot.com/2013/11/scontrarsi-con-leducazione.html

Manuela Fedeli “Chi l’avrebbe mai detto”

http://nessipedagogici.blogspot.it/2013/11/gli-incontri-digitali-sono-possibili.html

Vania Rigoni, “Blog crossing day in bottega.”

http://www.bottegadellapedagogista.com/2013/11/blog-crossing-day-in-bottega.html

Sylvia Baldessari, “L’educazione è un incontro.”

http://ilpiccolodoge.blogspot.com/2013/11/leducazione-e-un-incontro.html

sorella educazione

Sono padre di due figlie, educatore e consulente pedagogico. Almeno una volta a settimana scrivo sul blog e gestisco un gruppo su facebook che tratta temi educativi. In sintesi potrei dire che mi occupo di educazione per un grosso numero di ore al giorno.

Mi piace parlare di educazione, fare educazione, osservare chi fa educazione in modo naturale, nella vita, da genitore, nonno, zio o da semplice cittadino. Mi piace socializzare i pensieri che faccio sul mondo dell’educazione.

Mi guardo intorno, spesso, perché trovo in ciò che vedo spunti inaspettati, tracce e strade nuove che mi permettono di fare meglio il padre e il professionista dell’educazione.

Sono figlio unico e fino a che non sono diventato padre di due figlie, il rapporto tra fratelli e sorelle era quello letto nei libri, raccontato da altri, osservato nelle famiglie altrui, negli incontri personali e professionali.

Oggi, da padre, mi accorgo che il rapporto tra sorelle ha un’incidenza importante sulle questioni educative, sulle modalità di apprendimento delle mie figlie e sul ruolo che da padre mi trovo a vivere.

Il rapporto tra sorelle e fratelli, rende, in alcune situazioni, gli adulti strani spettatori. Quando pensi di arrivarci tu, parecchie volte ci è già arrivata “sorella educazione”. 

In questi anni ho avuto la fortuna di poter stare tanto con le mie figlie, la fortuna di giocare con loro e di poterle guardare mentre giocano insieme. Ciò che ho visto mi ha portato ad alcune riflessioni che provo a condividere.

Ai nostri figli servono momenti di apprendimento alla pari, oggi i luoghi educativi che gli proponiamo sono quasi tutti mediati da adulti. La scuola, Il basket, il teatro, gli scout, l’oratorio, la piscina, sono tutti luoghi in cui a presidiare le funzioni educative ci sono adulti, più o meno educanti e più o meno professionali. Imparare a star soli è importante, come imparare a non far nulla, a giocare liberamente, a trovare soluzioni senza la mediazione degli adulti. Imparare dai propri coetanei. Imparare a difendersi, anche da soli, è importante tanto quanto il sapere di essere protetti dagli adulti.

Io ho imparato tanto mentre giocavo, senza adulti, nel cortile di casa mia.

L’apprendimento per imitazione è potente, forte, pervasivo, forse a noi pare leggero, ma è necessario, vitale. Per imitazione si impara quasi esclusivamente nei primi anni della nostra vita. Per imitazione impariamo anche a stare insieme da grandi, copiando modelli relazionali e amorosi. Per imitazione ho imparato anche a fare il mio lavoro.

Le mie figlie crescono grazie anche al loro incontro, al tempo che passano fuori dal controllo degli adulti. In alcuni casi perdere il controllo, perderle di vista oltre che un rischio è anche un’opportunità. Per permettergli di imparare dal loro incontro è necessario che io non ci sia e che quindi mi prenda il rischio che ciò che imparano non mi piaccia.

Sia chiaro, continuo a credere nell’importanza del ruolo degli adulti nella formazione dei nostri figli, nell’importanza del percorso di riappropriazione del ruolo educativo di ogni cittadino. Se ci penso però, sapere che si è importanti ma non fondamentali, che non si è la sole fonte di apprendimento è una sensazione di piacevole leggerezza.

Questo post è dedicato alla mia bambina più grande, Viola, grande insegnante di spericolatezza, ribellione, irriverenza e campionessa di palla cesto e costruzione di capanna nell’armadio.

Christian S.

La foto è di Marco Bottani ( http://www.ibot.it)

scritta sul muro

Qualche mese fa, in uno dei tanti gruppi di educatori che frequento in rete una futura collega se ne esce con un commento razzista su un uomo di colore responsabile di aver commesso un reato.

Il commento suonava all’incirca così : …a te,  negro di merda, auguro di , ecc, ecc

Ovviamente io, che su queste cose non riesco a lasciar correre, ho provato (credo inutilmente) a fare capire che il commento era inappropriato. Ho provato a farle capire che alcuni termini non si possono usare senza saperne il significato e soprattutto non sapendo chi di solito ne fa uso (vedi foto). Ho provato a farle capire che il colore della pelle di questo uomo nulla centra con il fatto che fosse un assassino o una brava persona. Ho provato a farle capire che il termine “negro” non è un termine neutro,

Ho provato. Ma ho avuto la netta impressione di non esserci per nulla riuscito.

Le ho rimandato inoltre, che mi pareva ancora più grave che uscisse da chi, tra qualche anno, si sarebbe occupata, magari, di bimbi e famiglie migranti. Che avrebbe discusso con loro della possibile integrazione del figlio. Come avrebbe fatto a spiegare ai bambini della classe che lo avevano chiamato “negro” che quella parola può creare dolore perché offensiva?

Può anche essere che la giovane educatrice in questione fosse solo ignorante, che non ne conoscesse il significato e magari anche il suo l’utilizzo. Non mi pare, sinceramente. che questo possa cambiare la sostanza. Che tu sia razzista perché ignorante o perché convinto, sempre educatore sei.

Ora: Si può fare educazione (a scuola, in strada, nelle comunità, nei centri giovani, ecc) con un pensiero così condizionato? Può un insegnante essere una buona docente se ha un pensiero discriminante? Come posso accompagnare i miei studenti, se ciò che provo per loro è repulsione per la loro provenienza, il colore della loro pelle, la loro cultura o la loro famiglia? Può un’educatrice professionale con un pensiero del genere occuparsi dell’integrazione di un bambino rom? Io, francamente, non lo so.

Quel che spero è che un giorno, l’educatrice in questione, si ricordi di quell’antipatico vecchio educatore che le aveva fatto “due palle” per una sua frase su facebook e che nel frattempo abbia imparato qualche cosa in più su di lei, su quanto è importante avere attenzione alla comunicazione e su come si può fare meglio il proprio lavoro educativo. Lo spero per lei.

Christian S.

Ps: L’orrenda scritta che vedete nella foto è stata ridipinta da un gruppo di bambini e dall’artista che aveva disegnato il pezzo. Anche questa è educazione. Chi ha facebook, qui può trovare le foto che raccontano il meraviglioso lavoro fatto per coprire scritta e svastica.

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La crisi non mi piace, sia chiaro, ma come sempre per sopravvivere a ciò che non mi piace devo cercare di capire cosa può portare di positivo un periodo come quello che stiamo vivendo.

Meno soldi, meno risorse, meno servizi, meno lavoro, più fatica a far quadrare il bilancio familiare, ma non meno incontri.

In carenza di risorse alcune persone provano a costruire nuove connessioni, ad organizzarsi, ad incontrarsi, provano a progettare, provano a mettere insieme le risorse e le loro storie. In altri casi si arrabbiano e aspettano che passi, senza far nulla. Le mamme di cui parlerò son della prima categoria.

Giugno 2013, escono le graduatorie del nido, alcune madri senza nido e senza soldi cercano una soluzione. L’idea che ne nasce è questa: Un giorno a settimana, una madre si occupa dei bambini delle altre. Una madre – 5 bambini. Un madre ha quindi 1 giorno di lavoro con i bambini e 4 per poter continuare a fare il proprio lavoro. Tutto al solo costo del proprio lavoro e con i propri bambini affidati a persone che conosci e di cui ti fidi, “due piccioni con una mamma”, verrebbe da dire. Poi bisognerà fari i conti con le questioni organizzative (dove, come, ecc) ma intanto l’idea non mi pare per nulla male.

L’idea che hanno trovato non è solo una buon tentativo di risolvere un problema di collocamento dei figli, ma di farlo insieme usando le competenze e le risorse che ogni una di loro può mettere in campo.

Ecco cosa può lasciare di positivo questa maledetta crisi. La riattivazione del tessuto sociale, dei contatti tra le persone, la condivisione di risorse, la risoluzione comune dei problemi e forse un nuovo senso di solidarietà.

Ora esagero, se la crisi dovesse veramente lasciare “un nuovo mondo” di relazioni, forse sarebbe servita a qualche cosa, non pensate?

Christian S.

Ringrazio Alessandra S. per la foto.

Vado a cercare di costruire il mia soluzione anti crisi: l’orto in condivisione.

interno_pagellaPerché son così importanti i voti?

Sono importanti perché non sappiamo usare altri metri di valutazione, perché valutare sinteticamente è più facile, perché ci permette in automatico di capire chi è il migliore, di stilare una classifica,  insomma. Sono importanti alle elementari, alle medie, alle superiori e addirittura all’università.

I voti sono stati importanti anche per me, anche troppo. Sono stati importanti quando mi sono incazzato per quel 36 alle superiori. Ma se ci penso la rabbia era quasi solo per l’ingiustizia, non per il voto. Per il fatto che ci fosse gente che aveva fatto molto meno di me e aveva alla maturità preso 40, 42 o addirittura 45.

Sono stati importanti quando ho festeggiato,  suscitando grande stupore nel professore di psicologia dell’età evolutiva, il mio primo 18 all’ università.

Ora non lo sono più e non è solo una questione di età.

L’importanza che diamo ai voti è una questione culturale, storica, antica, eppure in una fase (qualche anno fa) avevamo provato a parlare di giudizi, valutazioni, processi educativi e processi di apprendimento… e poi cosa è successo?

La nostra cultura pare condizionata dalla valutazione sintetica, dall’assillo dei numeri. Tutto deve essere semplificato e ridotto ad un numero e soprattutto ad una competizione interna. Il migliore della classe, il peggiore, eccetera, eccetera, eccetera…

La scuola non può e non deve essere un luogo in cui si corre uno contro l’altro, ma un luogo di cooperazione. La scuola non dovrebbe essere il luogo in cui insegnare l’importanza di ciò che si è imparato e si sta imparando?  Ai genitori pare rimanere in mente solo il voto finale,  come mai?

Sia chiaro, non soffro più dello spirito di competizione che mi pervadeva da giovane, ora per me il voto è francamente poco interessante. Son poco interessanti i miei, quelli di mia figlia, quelli dei voti di laurea degli educatori che mandano i curricula per la selezione. Sono poco importanti per diversi motivi, sicuramente, ma son poco importanti soprattutto perché mi dicono poco, quasi nulla di ciò che è successo e di ciò che ha portato a quella numerica sintesi.

Mi dicono poco di cosa hanno imparato le persone dietro i voti.

Immagino che molti saranno amareggiati perché le mie parole sembreranno vanificare il grande sforzo per raggiungere la lode nell’esame di gingillometria e scienze confuse, ma non ci posso fare nulla, il voto ha per me, oggi, un valore praticamente nullo.

Eccovi alcuni dei discorsi ascoltati in questo periodo dell’anno:

  • “…Cosa ha preso tua figlia?…”
  • “…Io mi aspettavo un voto più alto, invece…”
  • “…io son rimasto deluso, la maestra è un po’ stretta di voti…”
  • “….Mio figlio uscito con 110 e lode, il tuo?”

Questi discorsi sono importanti, sono una fotografia di un sistema di pensiero predominante, di un modo di approcciare l’apprendimento attraverso la sintesi finale. Ma la sintesi finale è un voto di media, una semplificazione che fa perdere il valore di ciò che si è imparato, che prova a ridurre e a stringere.

Ciò che si è imparato non è riducibile, va raccontato in modo prolisso, ricco, con novizie di particolari, esempi e aneddoti.

Settimana scorsa ho ricevuto la prima pagella di mia figlia. Son felice del percorso che ha fatto, perché ha imparato a leggere, a far di conto, a star seduta, a colorare meglio, a parlare inglese, ad aiutare il suo compagno nel momento di difficoltà, a gestire la rabbia e la stanchezza, a  sopravvivere ai compiti pomeridiani e a far fatica. Ha imparato a difendersi dai compagni, ha scoperto che i suoi genitori non credono ma che lei potrà credere se lo vorrà. Ha scoperto che si può parlare di giustizia a scuola, che nella sua classe ci son bambini con storie differenti, che le aspettative dei grandi son faticose da inseguire, che al suo papà e alla sua mamma interessa soprattutto ciò che ha imparato. Ha imparato, anche, che ci sono compagni che hanno preso voti più alti di lei.

Questo post è dedicato a quell’essere meraviglioso che risponde al nome di Viola (mia figlia), alle insegnanti che le hanno permesso di imparare tutte queste cose e a tutti coloro che credono ancora che la formazione sia importante per ciò che impariamo.

Christian S.

Rieccomi a parlare del Buco Nero Pedagogico (che da ora chiameremo BNP per semplificarci la vita)

Sollecitato dalle riflessioni emerse in risposta al post sul BNP, proverò ad approfondire la questione.  Il tentativo è quindi quello di lanciare qualche riflessione e di provare a ragionare sul BNP con chi ne avrà voglia, con chi sarà attratto in modo irresistibile dal desiderio di ragionare sulle domande che porrò. La scommessa è quella di analizzare  il BNP  prima che ci inghiotta con la sua forza centrifuga.

freccette

Ecco le tre domande.

Domanda zero: cosa è il BNP?

Prima domanda: cosa inghiotte il BNP?

Seconda domanda: da cosa deriva e chi produce il BNP?

Terza domanda: come si evita di essere attratti e risucchiati dal BNP?

0) Dalla riflessione di Igor Salomone . “Interessante e ricca metafora quella del Buco nero. Immagine di uno spazio che non solo inghiotte qualsiasi cosa, ma che per farlo attrae in modo irresistibile. ….. I Buchi Neri, pare, attraggono qualsiasi cosa per via della loro enorme massa. Appunto. C’è quindi qualcosa che con la sua massa infinita imprigiona e attrae verso un buco nero equivalente l’educazione. Una massa, non un vuoto, come è facile pensare. In secondo luogo, mentre i Buchi Neri veri attraggono qualsiasi cosa, luce compresa, per questo sono neri, quelli pedagogici hanno un’attrazione gravitazionale selettiva: inghiottono inesorabilmente qualcosa, ma lasciano dove sta qualcos’altro, in bella evidenza e ad occupare lo spazio di ciò che viene inghiottito…”

1) Il BNP non inghiotte solo la mancanza di senso, fagocita la ricerca dello specifico dell’educazione, la ricerca di uno specifico che differenzia i servizi assistenziali, sociali e psicologici da quelli educativi. Il BNP attrae perché pare semplificarti la vita, inghiottendo tutte le domande di senso e gli orizzonti educativi. In prima istanza sembra esserti utile, perché ti rimangono da gestire solo le questioni organizzative. Il BNP è una forma illusoria di aiuto, una specie di allucinazione professionale che ti fa credere di dover lavorare di meno. In seconda istanza però il BNP si mangia il tuo senso, le domande che hai e infine si mangia il motivo per cui un educatore si trova in un servizio, è un risucchiatore di complessità, un attraente semplificatore. Alla fine del fase di attrazione ciò che ti rimane sono domande svuotate del fine educativo, la domanda che rimane è : ma io cosa ci faccio qui?

2) Il BNP è il prodotto della forza centrifuga di alcuni elementi:

  • il disinteresse delle organizzazioni sulle questioni educative.
  • la fatica iniziale che produce la riflessione pedagogica (…che fatica farsi delle domande, approfondire, ricercare, ecc)
  • la debolezza delle competenze degli educatori sullo specifico educativo. (cosa fa un educatore?)
  • i pochi strumenti/spazi per dar senso al proprio lavoro e per fermarsi a cercare, domandare e riflettere.

3) il BNP si contrasta:

  • con la costruzione costante di luoghi e spazi di riflessione (dentro e fuori le organizzazioni).
  • riconoscendo che il bnp è un luogo potenzialmente presente in ogni servizio educativo e chi si  “crea” non appena si molla la presa.
  • rimarcando la necessità di spazi di pensiero nelle organizzazioni (cooperative, enti locali, associazioni, fondazioni e scuole), costantemente, perché ciò migliora e sostanzia la qualità del lavoro educativo.
  • producendo cultura sulla professione educativa per permettere di aumentare la consapevolezza degli strumenti necessari per fare il proprio lavoro, bene e senza il rischio di essere inghiottiti dal BNP.
  • prendendosi cura di se stessi.

Che ne pensate, vi convince?

Christian S.

La foto è di Marco Bottani ( http://www.ibot.it)

Aprile 2013. Lombardia

staff

Incontro un amico che non vedo da un po’, è anche un educatore e lavora in una comunità. E’ uno di quei colleghi con cui è un piacere lavorare, a cui vorresti fare supervisione e formazione perché  è uno che ha voglia di crescere, imparare, capire e domandare nonostante i primi capelli bianchi.

Io: ciao, come stai?

Lui : bene.

Io: come va a lavoro?

Lui: un disastro, è come se ci fosse un buco nero.

Io : Cosa intendi, spiega.

Lui : Si, da noi c’è un buco in cui cade tutto, tutto ciò che di educativo potresti fare, dire, ci cade dentro per non tornare mai più.

Io: Il buco pedagogico?

Lui : Esatto il buco nero che inghiotte il pedagogico, la riflessione, i pensieri, le azioni, tutto scomparso nel buco.

Io. Così diventa difficile lavorare.

Lui : Forse è più facile, più trista ma più facile.

Io : Perchè?

Lui: …Tutto schiacciato sul gestionale e organizzativo, ti accompagno qui, ti porto lì, cucini, fai la spesa, ritiri i bambini da scuola, si vede un film, un lavoro che potrebbe fare un impiegato di banca con buona volontà.

Io : Da come la racconti sembra quasi meglio? Ma ovviamente non è così.

Lui: No, non è affatto così, perché a furia di inghiottire il pedagogico, piano piano, il buco inghiotte anche gli educatori, le loro competenze, le loro idee, i loro pensieri e anche le loro prospettive di crescita.

Io: Lo abbraccio, da amico me lo posso permettere, forse da supervisore non avrei potuto farlo.

Credo che questa riflessione sia preziosa, quasi un avvertimento su un rischio che corrono tanti servizi e che dobbiamo provare ad evitare, perché io al pedagogico ci tengo e anche parecchio. Grazie Mister A.

Christian S.

La foto è di Marco Bottani (ww.ibot.it)

bivio

Io sono un Uomo fortunato. 

Ho la fortuna di avere un collega, amico e padre straordinario, di averci lavorato insieme e di averlo visto fare il padre.

La settimana scorsa, al telefono, abbiamo parlato delle responsabilità che abbiamo sui nostri figli.

Pochi giorni prima aveva dovuto fare una scelta faticosa, coraggiosa e veramente complessa.

Io sono un uomo fortunato, perché, fino ad ora,  ho avuto la fortuna di non dovermi assumere delle responsabilità così complesse.

La telefonata.

Lui: “…la cosa che mi pesa di più è quando devo prendere delle scelte preventive.

Io: scelte preventive?

Lui: “…son quelle scelte che oggi non sarebbero necessarie ma prendi per il suo futuro. E poi continua : Se prendi una scelta per salvare la vita a tuo figlio o perchè necessaria è più facile. quando invece devi prenderti la responsabilità di fare una cosa che gli sarà utile tra 10 anni ma oggi lo mette a rischio della vita il discorso cambia, quando prendi questo tipo di scelte ti tremano le gambe.

Io rimango in ossequioso silenzio (cosa che mi capita di rado e mi riesce sempre faticosa, ma non questa volta) ad ascoltare quella che mi sembra una lezione, una lezione di vita da cui trarre un grande insegnamento. 

Come pesa quella maledetta responsabilità.

Ho imparato molto di più, sulla questione della responsabilità educativa, in questa telefonata che da tutte le mie riflessioni precedenti.

spazzacamino

Questo post è il mio modo per ringraziarti, amico mio, perché al telefono non sono riuscito a farlo, perché mi sono accorto dopo di quanto fosse importante ciò che mi hai raccontato, perché scrivendolo mi riesce meglio e soprattutto perché ciò che ho capito nella telefonata con te, lo voglio condividere con tutti in modo che diventi patrimonio di riflessione comune.

Questo post quindi è dedicato a un uomo di testa e cuore, padre moderno e sensibile e a tutti i genitori che quotidianamente son costretti ad assumersi “quelle maledette responsabilità” per il bene dei propri figli.

Le foto sono di Marco Bottani (www.ibot.it)